Che suono ha la parola Florida? Per molti quello dell’EDM degli spring breaker, per altri del reggaeton radiofonico, per qualche digger più raffinato quello del Miami Bass tirato su a botte di 808. Qualcuno direbbe punk? No. Eppur una scena c’è: certamente non vasta, ma radicata e forte, e sicuramente più “politica” di altre, perché non è nata e cresciuta nel terreno “morbido” delle metropoli intellettuali, ma nel Sud conservatore e armato, dove la classe agiata (e bianca) si ritira per le vacanze o per passare gli ultimi anni di vita al sole, in quartieri ben distanziati da quelli in cui la maggioranza della popolazione appartiene alle comunità afroamericane, caraibiche e latine. Stefano Lemon, fotografo romano che si divide tra la Capitale e il resto del Mondo, in Florida ci si è trovato per scovare location documentaristiche e ha avuto la classifica folgorazione sulla via di Damasco entrando in contatto con il mondo punk locale. Ne è nato un progetto lungo diversi anni che verrà presentato dal 18 al 24 marzo presso Spazio Fontanella, in una mostra realizzata con il supporto di PALAZZO e Varsi Art&Lab che, assieme a 56 Fili, ha curato anche la stampe in serigrafia (acquistabili) degli scatti di Stefano. Abbiamo colto l’occasione per fare due chiacchiere sul progetto e sul significato dell’essere punk al giorno d’oggi: nel Sud degli States, ma non solo. Piccolo indizio: c’entra (sempre) la gentrificazione.
Come sei finito in Florida a metà anni Zero? Dove vivevi e cosa facevi prima?
Mi dividevo tra l’Italia e gli Stati Uniti, dopo essere rientrato stabilmente a Roma da New York. Mi trovavo a Miami per lo scouting di location dove girare un documentario sul jazz che, ironia della sorte, non hai mai visto la luce.
E poi lì cos'è successo? Come ti sei ritrovato dentro la scena punk locale?
Nel tempo libero cercavo informazioni su cosa fare e dove ascoltare buona musica. Conoscevo già il Churchill’s Pub, ma è stato John McHale, proprietario di un etichetta indipendente, a farmi immergere meglio nella scena. Da lì, a cascata, ho conosciuto altri personaggi come Dave Daniels, Fabio, Rat Bastard. Ero nella mia dimensione, anche se lontano da casa. Ovviamente non ero partito con l’intento di realizzare questo progetto: è stato il mio passatempo, la mia passione. Ero io, lì, da solo. Lavori senza uno scopo commerciale o economico hanno forse un anima in più.
Che aspetto di questa sottocultura hai voluto raccontare?
Non pensavo minimamente che fosse così varia e profonda. Se pensi alla scena di New York, Boston, Los Angeles o Londra sai già cosa aspettarti: la storia del punk. Ci sono libri, professori, saggi, icone conosciute in tutto il mondo che vengono da quelle città. Nel Sud della Florida invece è un qualcosa di nicchia, solo per pochi intimi. È una scena nascosta, chiusa, ermetica e difficile da interpretare. Ci sono punk latini e bianchi, mischiati con biker di colore. Un melting-pot incredibile. Probabilmente è questa la sua forza.
In che zone della Florida hai raccolto questi scatti?
Principalmente Miami-Dade, Broward County, West Palm Beach: sono le contee più grandi e racchiudono innumerevoli quartieri e città chiamate “suburban cities”, una sorta di periferia allargata. Quello che posso dire tranquillamente è che South Beach non è assolutamente in questa mappa. C’è un enorme differenza tra la spiaggia più nota di Miami e tutto il resto. Mi dispiace veramente per chi parla di Miami e la giudica senza mai essere uscito da una linguetta di sabbia – quella dove stanno ammassati tutti gli italiani in vacanza. È come dire che Roma è Fregene. In giro c’è un mix di etnie incredibile: Cuba, Bahamas, Haiti, inglesi dal New England… La scena punk logicamente si è radicata fuori da tutto il giro commerciale e turistico. Lotta contro questo sistema e ne prende le distanze. Lo scenario è quello delle casette monofamiliari, non dei “luxury condos” con piscina e portiere. Anche a livello urbanistico c’è un enorme differenza. In quei quartieri e città vedi il cielo, il sole, le palme: c’è ancora chi raccoglie le noci di cocco per berle. Cose che non esistono minimamente a South Beach, che oramai è una skyline di grattacieli tutti attaccati tra loro, traffico, etc.
In che luoghi si ritrova la scena punk: club, squat, bar?
Principalmente in warehouse e squat, ma anche club e gallerie. Purtroppo dopo il Covid la situazione è diventata drammatica e molti posti hanno chiuso. Space Mountain Gallery era una bella situazione, un misto di arte e live music in un quartiere ghetto di Miami, Liberty City. Fuori c’erano spesso situazioni (diciamo) non tranquille. Sono particolarmente affezionato al Churchill’s Pub, che è considerato il CBGB del South, anch’esso in un quartiere borderline di Miami, Little Haiti. Una leggenda, che purtroppo ha chiuso. Era sudicio, sporco… Il ritrovo di Iggy Pop e Marylin Manson! È capitato anche che una sera si siano sparati fuori nel parcheggio, ma erano discussioni di quartiere, non inerenti al locale.
C’è qualche band che ti ha colpito? Puoi raccontarci anche di qualche concerto memorabile?
Gli Armageddon Man di Fort Lauderdale. Band aggressiva, un punk urlato. Il frontman Tim mi ha ricordato un po’ GG Allin, ma non così esibizionista. Tra i festival, il Ballbusters on Parade organizzato da Hardcore for PUNX è stato particolarmente memorabile. 30/40 band che si alternavano in due giorni. Non c’era un palco ma il contatto diretto, faccia a faccia, con i gruppi. Tutti liberi di fare tutto, compresi i musicisti. Nel backyard della warehouse c’era un free bbq non stop, con non so che tipo di carne. E non voglio saperlo!
C’è qualche persona che ti ha segnato particolarmente, da un punto di vista umano ancor prima che di militanza nella scena?
Dave Daniels, il proprietario del Churchill’s Pub. Lo aveva acquistato nel 1979 quando era ancora un english pub. Ha avuto una sua visione e lo ha trasformato in una leggenda. L’ho intervistato perché avevo bisogno di una testimonianza sulla scena dall’interno. Un insider nudo e crudo. Viveva proprio nel backyard del locale, c’era anche una lavanderia dove i senza tetto o i tossici del quartiere venivano a lavarsi i vestiti. Tutto questo nel bel mezzo di Little Haiti, che è una delle aree più dure di Miami. Ha trasformato un pub in un locale che ha dato l’input a tutta la scena underground della South Florida. Un personaggio vero, sincero, con il quale è stato piacevole chiacchierare e bersi due birre. Senza di lui e il suo Churchill’s Pub forse non sarebbe mai partito tutto questo. Lo dicono tutti lì, non solo io. Addirittura per i lunedì era riuscito a tirare su una live session jazz. Un visionario!
Da quello che hai visto, cosa vuol dire essere un punk in Florida e, in generale, cosa vuol dire essere un punk nel 2023, a quasi 50 anni dalla nascita del movimento?
La parola punk al giorno d’oggi è difficile da connotare. Purtroppo viviamo in un momento storico in cui tutti i termini vengono abusati: punk, street, ghetto, gang etc. Li usano tutti e molti si autodefiniscono tali. Penso che le sottoculture e le controculture siano in crisi. Quindi anche il punk. Se volessimo veramente far parte di un qualcosa di diverso, dovremmo innanzitutto stare fuori dal mondo
social. Ma chi veramente ci riesce? Chi adesso va contro il sistema o la società? Il vecchietto di un paesino sperduto dell’Abruzzo è punk. Noi no. Quello che mi ha fatto innamorare della scena in South Florida è stato proprio il loro disprezzo per il mondo online. Non si facevano selfie, stories. Erano lì perché volevano essere lì. Punto.
Hai lavorato anche ad altri soggetti legati alla Florida o comunque al Sud degli States?
Sì, ho portato avanti un altro progetto sulla comunità bahamense di un quartiere difficile, ma storico, di Miami, Coconut Grove. Anche questo è durato quattro anni, ma ha un taglio molto più personale. Vorrei farlo uscire finalmente l’anno prossimo.
In generale, che idea ti sei fatto di questa parte degli Stati Uniti e cosa ti ha colpito, al di là della scena punk?
Non pensavo che quest’area mi potesse piacere. La Florida, come quasi tutti gli Stati del Sud, ha un impronta conservatrice, folle, violenta, con una delle più alte concentrazioni di armi pro capite. Ma non è questo che mi ha esaltato, anzi. Ho visto comunità bellissime, una mescolanza di etnie, sottoculture ancora vive. C’è una scena gang biker incredibile per esempio, ma è molto difficile da avvicinare. Ci sono ancora quelle casette basse monofamiliari con la sedia a dondolo fuori, cono il vecchietto che parla in dialetto mentre beve o sputa. Scene molto cinematografiche, almeno per me.
Nell'introduzione alla mostra si parla anche di gentrificazione: cosa sta succedendo da questo punto di vista e come la scena punk si relaziona a questo fenomeno?
La gentrificazione, senza giri di parole, anzi, usando un termine duro per cui mi scuso, è un tumore: distrugge quartieri, comunità, storie e sentimenti di chi ha vissuto o costruito il luogo stesso. Si apre la mappa, si tirano due o tre righe e si cambia la destinazione di un quartiere. Da malfamato diventa cool, con affitti triplicati, “luxury condos” con piscina e la classe media che scappa. Purtroppo questo fenomeno sta arrivando anche in Italia, lo stiamo vedendo a Milano ad esempio. Quartieri nuovi, nati sulla cenere di quartieri storici, che non hanno nulla se non un target ben preciso: soldi. In Italia si percepisce ancora poco, ma negli Stati Uniti il discorso è drastico . Ho vissuto a New York per anni è la situazione è folle, ma a Miami è addirittura peggiore. Tabula rasa di intere zone, residenti forzatamente costretti a vendere sottocosto. Risultato? Stiamo creando città asettiche, vuote, tutte uguali. Nessun contatto umano, tanto la palestra è già dentro il building. La scena punk cerca in tutti i modi di tenere viva un alternativa, ma è una lotta impari. Il Churchill’s Pub è stato venduto e al suo posto aprirà molto probabilmente una catena di fast food.
A cosa stai lavorando ora?
Ad Aprile uscirà un LP in vinile pubblicato dalla FAKE di Cristiano Grim con una selezione delle band della South Florida e, all’interno, una zine del progetto “Florida Untitled”, smembrato e ricomposto da Zachary Hobbs. Sto anche scrivendo la sceneggiatura per uno short film ambientato tra l’Italia e gli Stati Uniti: un mondo nuovo per me, chissà mai se prenderà forma…