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Fosbury Architecture

Collettivo, non studio. All'architetto serve la rete per rilevare, attuare e comunicare le trasformazioni

Scritto da Giorgia Martini il 5 settembre 2023
Aggiornato il 27 settembre 2023

Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Claudia Mainardi e Veronica Caprino hanno fondato Fosbury Architecture dieci anni fa. Hanno curato il padiglione Italia alla Biennale di Architettura a Venezia. Con loro abbiamo parlato dell’architettura come spazio di interazione in senso lato, come pratica che sconfina la mera costruzione, perché depositaria di aspirazioni e aspettative della comunità, ma anche potenzialmente materializzazione di fallimenti e delusioni.

«È come se in qualche modo le persone finissero per leggere nell’incompiuto il fallimento di una promessa mai realizzata. Un fallimento non solo della politica, delle  amministrazioni e imprese di costruzione, ma anche delle persone che avevano investito in quell’immaginario, soprattutto emotivamente.»

 

Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri, il titolo che avete scelto per il Padiglione Italia della diciottesima edizione della Biennale di Architettura rende palpabile il senso di comunità. In quali forme questo concetto entra nel vostro modo di intendere il progettare?

Quando siamo stati invitati a partecipare alla gara per la realizzazione del Padiglione, ci siamo detti che avremmo voluto sfruttare l’occasione per parlare di comunità in due sensi: da un lato volevamo dare voce a un’intera generazione di progettisti under 40 quella a cui sentiamo di appartenere, figlia della crisi innescata dall’11 settembre 2001, dalla crisi economica del 2008 e delle crisi sanitarie, geopolitiche, ambientali che continuano a susseguirsi. Una generazione  educata a un’idea dell’architettura idiosincratica rispetto al ruolo che l’architetto, o meglio il progettista, è chiamato a rivestire oggi e che non può più avere a che fare con la mera produzione di un manufatto. Dall’altro, volevamo provare ad immaginare come il progettista potesse inserirsi all’interno di contesti comunitari fragili. Da qui abbiamo individuato nove località lungo la penisola, da nord a sud, in cui altrettanti architetti in collaborazione con nove advisor di differente estrazione disciplinare, appoggiandosi a incubatori di vario genere (musei, associazioni) hanno concepito e realizzato progetti che si sono configurati come processi radicati e collaborativi.

A proposito di DOPO?, in una vostra intervista vi definite un Think Thank e vi inserite nel contesto di via Boncompagni, che esprime un’anima affine a quel concetto. In che senso per voi oggi questo è l’ambiente ideale per lavorare (e non solo)?

Fosbury Architecture nasce nel 2013 come collettivo di ricerca e progettazione. Eravamo in quella fase transitoria tra fine dell’università e ingresso nel mondo del lavoro. Eravamo uno spazio di libertà, fuori dalle regole del mercato e dai vincoli della professione. Il collettivo per noi è sempre stato uno spazio protetto dove coltivare progetti unsolicited, dove dar spazio alle nostre passioni, confrontarci su valori, e dove sperimentare approcci che la professione respingeva. Ci interessa da sempre indagare i margini della disciplina, di quello che comunemente viene inteso come fare architettura. Fosbury ha funzionato negli anni come una piattaforma di lavoro intermittente ad intensità variabile, consentendoci di portare avanti interessi comuni anche quando vivevamo in città diverse con carriere personali diverse. In questo senso DOPO? è come se si inserisse pienamente in una traiettoria da noi perseguita, amplificando l’idea di architettura come pratica collaborativa e condivisa con altri gruppi e colleghi. Una sorta di collettivo di collettivi in grado di attivare  relazioni tra più discipline.

Tra i nove progetti di Biennale uno ha coinvolto il vecchio ospedale psichiatrico di Ripa Teatina, che avevate inserito all’interno di INCOMPIUTO. La nascita di uno stile, il volume che avete curato e che racconta di un viaggio fra i tantissimi edifici rimasti incompiuti sul territorio nazionale dal secondo dopoguerra ad oggi. Come sono distribuiti questi edifici e quale impatto credete che abbiano sulla periferia e sul modo in cui chi la abita percepisce il proprio contesto urbano?

Le opere incompiute che abbiamo mappato negli anni si situano sistematicamente in periferia, sia in quella più prossima ai centri urbani, sia in quella più profonda, dei  piccoli borghi nelle aree rurali. Di solito si tratta  di luoghi dove la tanto desiderata modernizzazione non è mai avvenuta. Le incompiute sono ciò che resta di un processo fallimentare, una sorta di scarto di produzione, ma sono anche spazio pubblico per eccellenza, che nello scollamento tra forma e funzione esprime la sua massima potenzialità.  Per questo progetto abbiamo lavorato a lungo con Alterazioni Video, fotografando oltre 300 opere in Italia. La relazione umana fra quelle opere e le comunità che intercettano è per noi  un aspetto cruciale.  Abbiamo individuato un pattern ricorrente: passata una prima fase di rabbia protesta per il fallimento,  un certo punto le persone che vivono nei pressi di questi edifici li rimuovono dalla loro coscienza, come se fossero mesmerizzati.

È questo quello che è successo per esempio in provincia di Chieti, a Ripa Teatina con l’ex - ospedale?

Sì, se arrivi a Ripa e chiedi dell’ospedale incompiuto a un ragazzo di 15 anni, la prima reazione è “Non esiste”, “Non c’è”, “Non so”. Più che essere respinta, l’opera incompiuta, pur essendo una struttura imponente visivamente, scompare dal percepito. Al punto che semplicemente nessuno ne parla.  Questo probabilmente accade perché nonostante siano luoghi mai utilizzati e non legati alla vita privata degli abitanti, raccolgono simbolicamente speranze e desideri. È come se in qualche modo le persone finissero per leggere nell’incompiuto il fallimento di una promessa mai realizzata. Un fallimento non solo della politica, delle  amministrazioni e imprese di costruzione, ma anche delle persone che avevano investito in quell’immaginario, soprattutto emotivamente.

Avete progettato lo Urban Center di Prato, un luogo che avete definito come “osservatorio permanente sulle trasformazioni urbane”. Secondo voi un UC come quello toscano potrebbe aiutare nella fase di transizione che sta coinvolgendo l’area di Corvetto a ridurre il pericolo emarginazione di una parte della popolazione che abita qui e che rischia di sentirsi espropriata, più o meno metaforicamente, del proprio quartiere?

Siamo convinti che un Urban Center sia uno strumento eccezionale per cogliere e raccontare  le transizioni  in atto e crediamo sia un’occasione mancata  se impiegato solo per organizzare eventi per addetti ai lavori e mostre incomprensibili alla comunità. Il suo ruolo  si comprende proprio nei momenti di grande trasformazione delle aree urbane. In quanto osservatorio, un UC non deve per forza situarsi nelle aree di trasformazione, l’importante è che ne parli, che porti le persone a comprenderne i processi, e che faccia sentire chi lì vive parte di una comunità metropolitana più grande. È utile quindi che ci siano dei presidi locali capaci di dialogare con le amministrazioni e di collaborare per creare una rete di quartiere, così che tutti abbiano la possibilità di conoscere cosa succede dietro i teli arancioni dei cantieri e vedere come la rigenerazione possa passare anche per operazioni più integrate e culturalmente condivise.