Ad could not be loaded.

Germana Agnetti

L’archivio di Vincenzo Agnetti: attore, poeta ed eretico artista concettuale al margine della ferrovia

Scritto da Irene Caravita il 18 maggio 2023
Aggiornato il 5 marzo 2024

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Appena prima della chiusura della sua ultima mostra, Agnetti scrive su un muro del PAC: «Agnetti, e adesso?». Muore improvvisamente alcuni mesi dopo. Nel 2015 nasce poi l’Archivio, diretto dalla figlia Germana e dal nipote Guido Barbato, in quel che era il vecchio studio: un capannone incastrato fra la caserma e un terrapieno che digradava senza alcuna barriera verso i binari delle Ferrovie Nord, con l’erba matta e una colonia di gatti randagi, polli e conigli del guardiano delle ferrovie. Maestro era il nome del suo gatto.

 

Questo spazio era lo studio di Vincenzo Agnetti: come si è trasformato nell'Archivio?

Esatto, era il suo studio negli anni Settanta. Allora era più grande, un magazzino, alle spalle del palazzo da cui si entra. Ora è stato un po’ ridotto ma è largamente sufficiente come spazio espositivo e archivio. Il progetto originale era di Alberto Rosselli, il braccio destro di Gio Ponti, che aveva costruito due soppalchi simmetrici ai lati, collegati da una passerella, lasciando un largo spazio vuoto in mezzo. Poi nel 1982 abbiamo unito i due soppalchi, e per tanti anni è rimasto in affitto, o vuoto, fino al 2014, quando abbiamo aperto come Archivio Vincenzo Agnetti.

Germana come sei arrivata a occuparti dell'Archivio? Che formazione hai?

Innanzitutto io sono figlia unica, e sono stata sempre molto legata sia a mia madre sia a mio padre. Avevo poco più di vent’anni in meno dei miei genitori, il rapporto era molto stretto. Anche se ho preso un’altra strada – ho studiato medicina, poi ho lavorato come psichiatra e psicoterapeuta – ero molto legata al lavoro di mio padre, vivevo già qui accanto al suo studio e passavo quotidianamente a salutarlo e chiacchierare. Non lavoravo con lui a differenza di mia madre, la quale ha poi aperto una galleria e quindi si occupava proprio professionalmente delle sue opere. Abbiamo iniziato a pensare alla costituzione di un archivio nel 2013, e aperto con una mostra qui l’anno successivo. Me ne occupo principalmente io, che sono già in pensione, c’è molto lavoro e non abbiamo sovvenzioni pubbliche. Insieme al comitato scientifico autentichiamo le opere, poi progetto e gestisco le mostre, o seguo una curatela esterna. Quasi sempre la mostra è un momento di approfondimento che conduce alla realizzazione di un libro: abbiamo aperto qualche anno fa, la collana di Quaderni dell’archivio, giunta alla sesta pubblicazione; sono focus tematici su opere o cicli di Agnetti. Inoltre c’è stato prima tutto il lavoro di archiviazione, catalogazione, e la continua apertura per ragioni di studio.

Oltre alle mostre sull'opera di Vincenzo Agnetti avete aperto il progetto dei Dialoghi, molto interessante nell'ottica di fare dell'archivio uno spazio vivo, di produzione culturale contemporanea, capace di sostenere la ricerca giovane e coraggiosa.

Si, nel maggio dell’anno scorso abbiamo inaugurato il primo Dialogo, curato da Giorgio Verzotti, tra Agnetti e quattro artisti: Limonta Manzini, Cesare Pietroiusti e Luca Vitone. Il tema di confronto era il territorio. Però non intendiamo interrompere gli approfondimenti su Agnetti, che sono sempre a cura dell’archivio, infatti nell’autunno abbiamo allestito, Le stante delle predizioni. Effettivamente anche il Dialogo allestito ora lo abbiamo scelto noi, nasce da una mia idea [si tratta di Vincenzo Agnetti / Luca Pozzi. La profezia del vaso di Petunie, in collaborazione con The Swan Station, visitabile su appuntamento fino al 15 luglio].

Raccontami com'è andato questo progetto, come siete arrivati a Luca Pozzi.

Allora, mi è arrivato un invito ad un’iniziativa del MIT, una serata in cui presentavano i progetti europei di giovani artisti internazionali legati al mondo digitale, virtuale. Mi incuriosiva. Avevo già in mente di cercare qualcuno che potesse dialogare con la Macchina drogata [opera del 1968, calcolatrice Olivetti Divisumma 14 modificata sostituendo i numeri con le lettere, che il visitatore è invitato ad usare: i foglietti pieni di caratteri vengono poi esposti, parte dell’opera]. Quindi avevo in mente un artista che lavorasse con l’intelligenza artificiale, con la tecnologia. Lì ho conosciuto Luca, mi è sembrato interessante il suo progetto di una scultura generativa. L’ho invitato in archivio, lui è venuto, ha studiato, e mi ha fatto una proposta che accostava ai due oggetti, la sua scultura e la Macchina, la proiezione di Lezioni di design (1976). Così abbiamo allestito tutto!

Oltre alle giornate di vernissage, come sono accessibili l'archivio e le mostre?

Ci sono delle aperture programmate, come le inaugurazioni, l’Art Week, la settimana di Museo City e le giornate di Zona Monti. Comunichiamo sempre tutto su Instagram e sul sito. Ma in realtà siamo sempre aperti, siamo qui! Basta una mail o una telefonata per concordare un orario, un appuntamento. A parte c’è poi tutto il discorso di studio sull’archivio vero e proprio, apriamo regolarmente a studenti e ricercatori. Pensa, a proposito di Instagram, che dei nostri utenti più affezionati, il 40% sono tra i 25 anni e 30 anni. Amano soprattutto gli assiomi, ma ancora di più i feltri: le frasi di Agnetti! Che sono in generale i cicli più noti, per esempio Lezioni di design è quasi sconosciuto ai più, anche perché non è mai stato proiettato fino ad oggi.

Menzionavi Zona Monti, che mi sembra un bel legame con il quartiere.

Si, certo. Zona Monti non è partita da noi, siamo stati coinvolti da Irene Crocco di Viasaterna, ed è una rete molto funzionale, che prevede belle visite guidate itineranti. Inoltre noi partecipiamo ad gruppo di una dozzina di archivi d’artista milanesi, stasera ci incontriamo proprio qui da noi. È una situazione ancora molto informale, non siamo un’associazione o altro, ma si è aperto un dialogo ed è molto positivo. Mio padre era molto legato ad altri artisti milanesi, ci sono progetti a quattro mani, per esempio uno con Paolo Scheggi, mai realizzato… per cui è importante lavorare insieme, parlarsi.
Qui vicino a noi c’è per esempio l’Archivio Fausto Melotti, che io frequentavo quando lui era ancora in vita, con mio padre lo andavamo a trovare un paio di volte l’anno.

Tu hai quasi sempre vissuto qui. Qual è il tuo rapporto con il quartiere, hai dei posti preferiti?

Si, io ho sempre vissuto qui, dopo il periodo in Argentina. Sono tornata nel dicembre del 1966, un anno prima di mio padre, per iscrivermi all’Università. Sono molto legata a casa mia, a via Machiavelli e anche al Parco Sempione, sì. Se dovessi dire che sono legata al quartiere… non saprei. È molto cambiato, inoltre io durante l’Università ero sempre in giro, poi lavoravo, mica vivevo il quartiere! Ero sempre in Città Studi, e successivamente al Policlinico. Però proprio in quegli anni studiavo con un’amica alla Biblioteca del Parco, facevamo lunghe passeggiate ripetendo le lezioni, sai che medicina prevede uno studio molto mnemonico, e noi applicavamo un metodo proprio peripatetico!
Via Machiavelli non è solo casa ma anche un simbolo del lavoro di mio padre, ci tengo molto. Proprio ora, credo entro maggio, uscirà un disco, in cui abbiamo riversato una registrazione in cui Agnetti legge il suo poema Machiavelli 30, pubblicato come libro d’artista [Ugo Guanda Editore Monza, 1978]. Vedi quante cose può fare un archivio!