Anche quest’anno l’anniversario della Strage di Ustica (il 39esimo) e la commemorazione delle vittime si intrecciano con il programma culturale “Attorno al Museo” nel Parco della Zucca. Fino al 10 agosto, installazioni artistiche, musica contemporanea, teatro d’innovazione e poesia riporteranno alla memoria le 81 persone morte a bordo del velivolo DC9 Itavia, precipitato il 27 giugno 1980.
Uno degli eventi più interessanti della rassegna è l’installazione performativa di Giuseppe De Mattia, Allo stesso tempo, di mercoledì 24 luglio: ottantuno disegni dei frammenti del velivolo DC9 Itavia si succedono in una proiezione video musicata da Stefano Pilia, mentre Emidio Clementi (Massimo Volume) e Francesca Bono (Ofelia Dorme) leggono 81 racconti brevi, nati dalla domanda «A cosa pensavi a fine giugno, nel 1980?», fatta a persone nate entro il 1970. Un’opera composita che parte dai Disegni interrotti, serie di disegni che Giuseppe De Mattia porta avanti da diverso tempo e in cui la rottura di un oggetto con la propria decorazione determina frammenti con una nuova decorazione astratta. Una sorta di “rimedio estetico” in seguito a una tragedia.
Ne abbiamo parlato con lui.
I temi della memoria ritornano spesso nel tuo lavoro, così come l’utilizzo di alcuni oggetti/dettagli di scarto. Eppure sappiamo che nella memoria storica spesso non c’è spazio per i dettagli. Perché tu ci tieni tanto?
Ho un certo feticcio per le cose piccole e apparentemente insignificanti. Con la fotografia sin dal principio ho lavorato proprio sull’idea di “rimosso” e di “sguardo traverso”. Della lezione dei grandi maestri della fotografia americana, italiana e tedesca (che sono quelle che ho sentito più vicino a me negli anni), ho appreso questo e cerco di trasferirlo nelle mie installazioni. Un piccolo dettaglio è un tassello fondamentale per la ricostruzione di una memoria meno superficiale e meno fattuale. Tutto quello che è produzione dell’uomo e che sopravvive proprio a questo mi interessa per quanto insignificante possa sembrare.
Sei partito appunto dalla fotografia e dal video, poi qualcosa è cambiato. Com’è evoluta la tua ricerca in questi anni?
Diciamo che non è mai partita in maniera decisa con nessuna tecnica. Il mio primo e vero lavoro Strada Maggiore 49 – Casa Arcangeli era un lavoro fotografico fino ad un certo punto, ma al suo interno c’era una parte curatoriale – avevo cercato documenti, quadri e fotografie di altri -, una parte video in cui rimettevo in atto una collaborazione con il musicista Claudio Rocchetti e una parte più scultorea con la composizione di un pavimento realizzato con alcuni pezzi di quello originale prelevato in casa. Le fotografie sono state più che altro una scusa. A un certo punto del mio percorso mi sono reso conto che la fotografia è solo un modo di prendere appunti e che non sono quasi mai il lavoro finale. Anzi, da un po’ di anni a questa parte, la fotografia la considero solo un pezzo di carta bifacciale: posso, quindi, farci tutto sia sull’immagine che sul retro.
Che idea ti sei fatto della strage di Ustica e come mai ti sei avvicinato alla vicenda?
Non ho un’idea precisa, è impossibile averla! Quando parli con Daria Bonfietti e Andrea Benetti (rispettivamente Presidentessa e membro dell’Associazione “Parenti Vittime Strage di Ustica”, ndi) ti rendi conto che non sai nulla e che non avresti nemmeno il tempo per sapere quello che devi. La loro dedizione a questa faccenda è pazzesca. Tutto il loro tempo è votato a questo. Io mi sono avvicinato la prima volta con il film Il muro di Gomma di Marco Risi negli anni del DAMS e poi ho sentito il peso delle grandi stragi che coinvolgono la memoria della città di Bologna, tra cui Ustica.
Il Museo di Ustica è uno di quelli che visito una volta l’anno. Mi ricorda l’omaggio ai caduti oltremare, al Sacrario di Bari, che mio padre, quando ero piccolo, mi faceva visitare ogni 2 giugno e 25 aprile.
Sono abituato all’idea di memoriale come spazio pubblico e apprezzo moltissimo che un Museo possa essere Memoriale al tempo stesso.
L’avvicinamento per questo lavoro lo devo a Lorenzo Balbi che mi ha indicato all’Associazione delle Vittime di Ustica. Qualche altro amico aveva già fatto il mio nome a Daria e Andrea e dunque mi hanno contattato rendendomi molto felice.
"Allo stesso tempo" è un racconto parallelo dei ricordi attorno alla tragedia del 27 giugno 1980. Che funzione hanno questi brevi estratti di memoria?
Ho voluto creare un’opera che prevedesse tre canali di narrazione che viaggiano paralleli ma molto diversi tra loro: la parte video è composta da 81 disegni di 81 pezzi del velivolo che avevo fotografato precedentemente. Ma sono astratti e ruotati rispetto alla loro posizione funzionale alla ricostruzione dell’aeromobile. Ognuno ci vede quello che vuole, sono stati disegnati da me, ma suggeriti dal caso e dalla tragedia. Il secondo piano è il tappeto sonoro composto ad hoc da Stefano Pilia, che invece rievoca un tono più tragico legato al fatto storico. I testi che leggeranno Emidio Clementi e Francesca Bono sono dei micro racconti che ho raccolto in questi mesi, chiedendo a gente nata prima del ’70, di rispondermi con un messaggio audio di whatsapp alla domanda: «a cosa pensavi a fine giugno nel 1980?».
Ero certo che nessun ricordo avrebbe toccato la tragedia. Infatti è andata così. Su 81 domande a bruciapelo, solo due persone hanno fatto riferimento alla strage di Ustica.
Questa sorta di tranello, mi ha permesso di dimostrare una specie di “relatività del dolore”. Il dolore resta con chi lo ha subito da molto vicino. Se avessi chiesto a parenti, amici o conoscenti delle vittime, mi avrebbero risposto – con certezza – che in quel periodo pensavano alla strage del 27 giugno 1980.
Si dice, ad esempio, che quasi tutti ricordano cosa stavano facendo durante l’attacco alle Torri Gemelle. Perché questo non è successo con Ustica o con altre tragedie simili secondo te?
Perché quel fatto era in diretta televisiva. Esistevano già dei mezzi di comunicazione rapidi e immediati che permettevano di avvisarci e di informarci: “accendi la televisione”, “metti su Rai1 e guarda cosa sta succedendo!”. Nel caso di Ustica come in altri casi, ci sono state macchine del fumo che hanno distratto immediatamente. Poi di aerei ne cadono continuamente e si pensa subito: “spero non succeda mai a me!”.
Io scavo un po’ di più per mia abitudine e allora comincio a pensare a quello che avranno pensato le vittime in quei momenti, cosa hanno visto per l’ultima volta, ecc. Ed è per questo che ho scelto di lavorare sull’aereo così com’è adesso nel museo. Ho imitato le mie ossessioni durante il volo: vedere come le forme dei pezzi uniti che costituiscono le ali siano simili alle campiture piene delle campagne viste dall’alto. I puntini (i rivetti) che uniscono i componenti dell’aereo sono una metafora della vita, forte nella sua caducità.
Mi piace molto l’idea dei tuoi disegni interrotti, frammenti di cose rotte che trovano un nuovo senso in alcuni dettagli astratti, “rimedio estetico” alla tragedia. Ma la “bellezza” può davvero alleviare il dolore?
Assolutamente no. La bellezza non può fare nulla a mio avviso. È solo un dato di fatto. I teschi nelle teche della cattedrale di Otranto sono la testimonianza di centinaia di dolori, ma sono meravigliosi perché qualcuno li ha messi sotto vetro e dietro un altare, e questo li rende “belli”. Non ci si può fare nulla. La cappella “dos ossos” di Evora è rivestita interamente di ossa umane donate dai fedeli, in seguito al dolore di chi ha visto spegnersi i propri cari, ma è uno spettacolo di decorazione che non si dimentica mai.
Con il mio lavoro non mi preoccupo di alleviare un dolore, mi rendo conto però che ci si può allontanare per un po’, perché la vita è fatta di distrazioni. Gli 81 tranelli che ho raccolto su whatsapp sono essi stessi altrettante distrazioni dal dolore dei parenti delle vittime. Il dolore è relativo a chi lo vive in prima persona. È per questo che il lavoro del Museo e dell’Associazione è impressionante: ha reso collettivo un dolore privato.
Insieme a te ci saranno Emidio Clementi, Francesca Bono e Stefano Pilia. Come vi siete incontrati e perché avete deciso di collaborare?
Allo stesso tempo è prima di tutto un’opera. L’opera è costituita da 81 disegni a china su carta 30×40 e da 81 racconti scritti e leggibili.
Questa del 24 luglio è una versione performativa che richiedeva degli attori e un commento sonoro. Per il suono avevo pensato subito a Stefano, ci conosciamo da molto tempo e apprezzo molto la profondità della sua ricerca sonora, non ci sono stati dubbi. Per la voce maschile avevo già pensato ad Emidio con il quale ho avuto già il piacere di collaborare per un’altra opera (Talking Springs) in cui dava voce a delle molle meccaniche.
Ho parlato tanto con Emidio della voce femminile perché non volevo che fosse troppo interpretativa e allo stesso tempo dall’accento neutro. Lui mi ha presentato Francesca e direi che non avrei potuto scegliere meglio.