Non c’è mai un modo semplice di raccontare una vita. Si può provare a scorgerne dei dettagli e lasciare che da essi nasca la voglia di andare più a fondo o anche solo accanto. Qui abbiamo scelto di raccontarvi GATE44, una grande tipografia e stamperia d’arte a Ciminiano aperta dall’artista e stampatore Glen Lasio, per portare avanti un trascorso di conoscenze, saperi e affinità artistiche che, appunto, è un insieme densissimo di storie. Le tecniche di stampa sono processi artigianali estremamente sensibili, ti mettono difronte alla possibilità di dare forme a un pensiero, a una sensazione, e la strada è lunga e intensa. Quindi avere accanto le persone giuste per farlo, che sanno indirizzarvi e seguirvi, è fondamentale. Vi racconto Glen, o i dettagli di lui che ha scelto per noi.
«Sono tornato a casa in pace, volevo lasciare una traccia che era la mia, che anche se non vale nulla è valida tanto quanto.»
Iniziamo dalla fine: da Gate44. Hai uno spazio molto speciale a Milano che ibrida tecniche di stampa e traduzioni artistiche. Ce ne parleresti? Dove si trova e cosa e chi c’è dentro.
Siamo in via Treviso 21, in zona Cimiano, in una traversa di via Padova e dentro ci siamo io, Glen Lasio, Nicolas Muratore – professione però stampatore – fissi, più due collaboratrici: Giulia e Francesca, rispettivamente in qualità di rilegatrice (anche se è una stampatrice ma qui fa la parte di rilegatori e cartotecnica) e Francesca, che si occupa di siti web e codici.
Pensiamo a Gate44 come a un centro di produzione di cultura visiva, nel senso che ci occupiamo di immagini e della loro riproduzione e proliferazione in un determinato contesto storico sociale. È un termine recente, è da 15 anni che si inserisce negli ambienti di ricerca – non ha a che vedere con la storia delle immagini ma con il loro contesto. Ovvero che prevede una forte interazione tra le tecniche di realizzazione e l’essere umano stesso.
Ci occupiamo di stampa d’arte e grafica editoriale, che parte dalle nostre esperienze tecniche, anche se io nasco come artista e questo si sviluppa e si espande in vari modi. Realizziamo carta da parati, progetti d’arte, packaging…il fil rouge è che cerchiamo la modalità di esecuzione e il luogo più adatto per ciascuna immagine.
Come funziona il progetto nelle sue forme di scambio, accoglienza e produzione?
La stamperia d’arte per sua natura nasce come luogo di incontro dove lo stampatore è un artigiano al servizio dell’artista. Io ho passato molto tempo da giovane nello studio di Giorgio Upiglio e l’ho sempre trovato di grande fascino: gente che si riunisce con diversi background e insieme danno vita a un artefatto compartecipato, che parla diversi linguaggi e declinazioni di essi.
La natura stessa dell’attività ha questa inclinazione, quindi non facciamo selezione e accogliamo artisti dall’estero che possono stare qui a lavorare.
Altra cosa: io ho sempre visto un grande nesso tra la stampa e internet. Nessuna delle due prevede il concetto di scarsità ma solo quelli di ricchezza e abbondanza perché la matrice, come il digitale, non ha fine. Così anche il concetto di comunità e la possibilità di mettere in contatto un gran numero di persone.
Io sono mezzo americano, ho vissuto un po’ di qua e un po’ di là, ho viaggiato molto. Quindi il modo di costruire la propria identità l’ho trovato fondamentale nel mio modo di crescere e ho portato il mondo da me senza problemi.
Ho un’affezione speciale per i materiali, li trovo seducenti. Ci parli delle macchine e dei diversi elementi che concorrono nei diversi tipi di stampa?
I processi, i materiali, le tecnologie risalgono prevalentemente ad un periodo che va da Gutenberg al primo 900 – da fine 1400 al 1920 circa – si parla quindi di stampa calcografica – incisione tramite acidi di lastre di rame e zinco su cui è stato eseguito un disegno con diverse tecniche: acquatinta (polvere di bitume per disegni in scala di grigio con toni continui) l’acquaforte per disegni a linee, la cera molle, l’ acido diretto, poi c’è la maniera a sale, la maniera a lavanda…), di stampa litografica (storicamente su pietra ma noi usiamo lastre sensibilizzate di alluminio) e stampa serigrafica.
Poi abbiamo le macchine: il torchio calcografico arriva poco dopo Gutenberg e nei secoli si è evoluto, ma in sostanza il concetto è che stampi a rilievo: c’è una parte più alta e una più bassa che accoglie l’inchiostro – quindi bianco e nero. Più le linee sono vicine più abbiamo l’illusione ottica del nero, più sono distanziate, più andiamo verso il grigio chiaro.
Abbiamo introdotto alcuni materiali nuovi aggiornando così i processi. Ad esempio il fotopolimero, che viene dall’industria pesante contemporanea, ed è un materiale introdotto in ambito artistico per la sua capacità espressiva (viene lavorato con la luce UV dal positivo di una pellicola e viene inciso con acqua e non acido).
Poi abbiamo il tirabozze che veniva usato per fare poster tipografici, le affissioni pubbliche, dal 1800. Veniva usato come l’indesign di oggi: facevi la prova di impaginato e se veniva bene spostavi la composizione su una macchina automatica o semi automatica e andavi in produzione. Su questa si possono stampare litografie in offset, caratteri mobili in legno, linoleum e xilografie.
Abbiamo un paio di macchine serigrafiche, siamo già verso il 1900 come periodo, una per grandi formati e una semiautomatica che stampa fino al 70×100 cm.
Poi una cordonatrice, un’occhiellatrice e un paio di stampanti per il digitale.
Usiamo principalmente inchiostri a base olio su carta 100% cotone. Sono tutti materiali naturali a cui abbiamo chiaramente affiancato materiali e processi moderni, perché la preoccupazione principale non è di tipo museale ma produttiva: vogliamo stampare le migliori immagini possibili.
Per quanto riguarda i materiali che vengono usati è bello perché se li osservi a fondo capisci la loro storia, da dove vengono, perché sono stati scelti per la loro funzione, quanto tempo è stato impiegato per farli; ogni materiale si porta dietro le fasi della lavorazione ovvero le ambizioni e le abitudini di un popolo. La gente si da da fare per fare cose e la materia risponde, parla individuando un modo di pensare.
E le macchine sono materiali all’ennesima potenza: sono l’estensione delle ambizioni dell’uomo, dell’affanno per il dettaglio, a me piacciano quelle che fanno una sola cosa e solo quella e se non gliela fai fare è davvero solo un ammasso di ferro. È filosofia empirica.
Le macchine si sviluppano in un arco temporale e quindi hanno anche l’espressione di un linguaggio storico, sono create per ottenere un gusto grafico preciso. Non si scampa, se hai una cultura visiva sono immediatamente riconoscibili e ogni macchina ha una portata espressiva tutta sua.
Quindi riuscire a portare gli artisti a comunicare al meglio le loro immagini mi fa impazzire, è come trovare un abito giusto per la cerimonia giusta. È splendido.
Al di là di me credo ci sia un ritorno a questo tipo di piacere, al dettaglio, non solo per la carta stampata, ma la gente ha inconsapevolmente comprato roba anonima e standardizzata per lungo tempo e poi se ne sono accorti tutti insieme. Cose prive di storia che hanno innescato la voglia di identità. E quindi un ritorno a tutto questo.
Gate44 è vicino a Turro, come sei arrivato in questa zona? Cosa e chi c’è intorno a te?
Sono nato a Milano e sono stato qui fino ai 16 anni, a 19 me ne sono andato definitivamente convinto che non sarei mai più tornato. Era l’inizio degli anni 2000 e Milano a quei tempi finiva con la circonvallazione. Nel 2017, quando sono tornato, ho trovato una città molto molto diversa, soprattutto grazie a immigrazioni interne in Italia che hanno reso Milano un po’ un centro, un punto di riferimento lavorativo e non solo, che ha attirato anche l’immigrazione dall’estero. Diciamo che rispetto al resto del paese è l’unico posto in cui succedono cose.
È stata una città minuscola che ha iniziato a espandersi e ogni cosa è diventata preziosa, di grande valore. Ho scelto Ciminiano (che quando è stato costruito questo capannone nel 1952 era comune di Greco, non di Milano) perché a livello urbanistico è fantastico, una zona di piccole industrie connesse ad un aspetto residenziale con grandi parchi e la Martesana, in ottica di sviluppo futuro è difficile che ci sia qualcosa di meglio. Ci sono due linee di metro e in 20 minuti sei in Duomo, in 5 minuti esci e sei sulle tangenziali, hai un parco bellissimo e da un punto di vista di persone c’è ancora molta Milano storica: la Milano operaia, quella dell’artigianato, misto a immigrazione estera e questo crea un ambiente molto interessante e un piano di servizi perfetti per lavorare e produrre.
Ora il passo del gambero: negli anni non sei sempre stato a Milano e anche il tuo nome ci suggerisce radici ibride. Ci parli un pochino di te?
Sono mezzo americano per mamma, che a sua volta è mezza scozzese – il mio nome è scozzese, Glen, valle (come i vari whisky), 1/4 sarda e un 1/4 bergamasca (che si divide a sua volta in mezza slava). Dopo i sedici anni vado e vengo dagli Stati Uniti e a 19 anni finisco a Savannah, Georgia, con una borsa di studio per l’accademia d’arte ma mi rendo conto che ecco, forse studiare arte e Savannah, nel profondo sud conservatore dell’America, non è un’ottima idea.
Per vari motivi mi trasferisco a Chicago, dove mi fermo per 9 anni. Lì ho iniziato a fare l’artista, avevo una galleria con la quale organizzavo anche delle residenze in dialogo con la stamperia di Giorgio Upiglio a Milano. Fin da ragazzo infatti ero andato a bottega da lui e ho sempre avuto questa connessione. Quindi da Chicago mandavo a Milano artisti per produrre dei lavori e poi tornavano in America e facevano la mostra in galleria.
Quello è stato l’inizio di un piccolo piede che tornava in Italia ogni tanto, ma sempre con l’idea che non sarei mai tornato per restare.
Ho viaggiato molto tra Sudamerica, Messico e Buenos Aires e quando sono tornato a Chicago mi fanno capire che la traiettoria per gli artisti è sempre verso New York. Avevo amici lì, una sorella, e quindi mi trasferisco NY ma in pochi mesi capisco che non è sostenibile. Ti ammazzi come cameriere per una stanza a Brooklyn e un angolo di studio, per finire a non avere tempo di andarci perché devi lavorare troppo per mantenerlo. Stavo tornando a Chicago, quando decido di passare da Milano per l’estate e qui ho incontrato Monia Pavone, la storica stampatrice di Upiglio.
Decidiamo di rilevare la sua stamperia ma non troviamo una balance con la famiglia e apriamo l’alternativa: Gate44.
Come sei arrivato a quello che oggi è il tuo mondo lavorativo e creativo?
Ho soddisfatto la mia sete di curiosità e mi sono liberato dalla ribellione.
Mentre ero in viaggio in Sud America ho conosciuto questo ragazzo che era in viaggio da 27 anni e non si era mai fermato. Ci sono rimasto insieme una settimana a parlare: in quel viaggio stavo maturando l’idea che non c’era altro da esperire che non fosse la curiosità e la libertà. Dopo una settimana con Jayme, si chiama così, mi ero trovato d’accordo su tutto della sua filosofia esistenziale, ma la conclusione aveva a che fare con il senso della vita. Per lui, nel momento in cui non c’è senso, non si fa nulla. Lui galleggia per la vita e per il tempo – senza la necessità di lasciare un segno. Lì mi sono liberato della ribellione e ho capito che per me invece il senso sta nel fare qualcosa, qualunque cosa: il cazzo che vuoi è sacrosanto e perseguibile. Senza dualismo e giudizio ma per scelta. Mi sono sentito libero nell’assenza di senso. Lì ho sentito il bisogno di tornare in studio a fare cose.
Ero stufo di portare piatti al tavolo e ho capito che qui potevo costruire qualcosa. Sono tornato a casa in pace, volevo lasciare una traccia che era la mia, che anche se non vale nulla è valida tanto quanto.
Sei anche e soprattutto un artista che ha deciso di accogliere altri artisti. Come mai?
Per essere artista devi farlo ma anche non necessariamente. L’arte l’ho sempre vista come un processo di scoperta e avvicinamento alla verità attraverso un canale altro.
Se è arte il suo contenuto non è il soggetto, ma si avvicina alla verità attraverso canali diversi, come quello spirituale e intellettuale. L’arte ti insegna a vivere in termini di processi, che sono anche l’unica vera realtà in cui ti puoi identificare.
Fare arte è poi tutto un altro paio di maniche.
“Non ho avuto bisogno di ripetermi” – l’artista vero non deve fare per essere. Farlo come dovrebbe essere fatto oggi in questo momento non mi interessa. Ed è per questo che la mia “carriera” da artista non è una preoccupazione. Continuo a fare cose ma non in modo sistematico. Mi muovo attraverso diversi media. C’è una responsabilità sociale che mi porta a stare nel processo e a buttare gran parte di esso – perché mi guadagno i soldi con la stamperia e questo mi lascia libero.
Però gli artisti ti piacciano…
Si ma tanti e per pochissimo tempo. Per il resto sono noiosi.
Sviluppi e direzioni futuri?
Lavoriamo molto con ragazzi giovani di 20-25 anni che ci chiedono anche continuamente lavoro…Mi rendo conto che per mettere in piedi una realtà del genere, essere autonomi, ed affermare il proprio valore non bastano talento e voglia di lavorare. Mi spaventa l’idea che tutta la loro creatività, energia ed originalità si pieghi e dissipi sotto la forza della pressione sociale ed economica prima che raggiungano i trent’anni. Sarebbe uno spreco, mi irritano gli sprechi. Il primo gallerista con cui ho lavorato mi disse una volta: “Glen, il segreto per un artista è arrivare ai quarant’anni, se arrivi a quaranta metà del lavoro è fatto perché gli altri avranno già mollato, si saranno già arresi”. Ecco il progetto futuro è far si che a nessuno venga in mente di mollare. Come? Creando una scuola di cultura visuale “applicata” in cui ritorna centrale la figura del mentore mentre il professore scivola in secondo piano, progetto e pianificazione diventano l’impalcatura concettuale del curriculum, in cui l’ultimo anno è interamente centrato all’ingresso nel mondo del lavoro creativo.
Uno non può metterci 7/10 anni a capire come e dove mettere in pratica le proprie conoscenze e capacità, perché nel frattempo dimagrisce e si scoraggia. Ai ragazzi non serve qualcuno che dica loro come si dipinge o come usa Illustrator, gli serve sapere che senso ha dipingere. Se ti è chiaro quello non ti arrendi.