Il 28 febbraio chiude la mostra Stressed Environment alla nuova Marsèlleria, che è stata causa o occasione per il grande ritorno a Milano di Davide Savorani dopo un articolato tour di scuole e residenze internazionali. Davide, di origine romagnola, è stato alla Mountain School di Los Angeles, e poi tra Copenhagen e il Texas, dove ha preso forma la sua ossessione intellettuale per le banane (Banana Days are Over è il titolo di una mostra a Londra alla White Cubicle Toilet Gallery del 2014 che raccoglieva i frutti di questo periodo). Restiamo, noi e lui, volutamente allusivi sulla natura di questa mostra da Marsèlleria perché non siamo spoiler e vogliamo che anche gli ultimi ritardatari possano esperirla liberi da preconcetti, ma vi diciamo moltissime cose sull’artista: che balla da solo, che è stato al compleanno di Mike Kelley, che ha lavorato in teatro con Motus e Raffaello Sanzio, che progetta performance canore a passo di zumba per un’estate sudtirolese. E che per ora abita a Turrolandia.
ZERO: Mi piace moltissimo che in questa mostra tu parli della noia come stimolo ad agire, a cambiare. Come ti è venuta questa idea, e perché la noia è produttiva?
Davide Savorani: Ho come l’impressione che, a forza di ripeterlo, scaricherò l’aneddoto. Era il 2012, era il Texas, un pesce di nome dio, la solitudine, small town/gay bars, i gabbiani che ridevano come pazzi, le ostriche a un dollaro, l’ennui…poi, “casualmente”, al momento giusto, le parole di David Foster Wallace sul suo personale tentativo di cambiare prospettiva nei confronti della noia, considerata dalla stragrande maggioranza come un malessere, uno stato negativo, da evitare. Invece no, perché non osservarla meglio la noia? È vero che non sto facendo nulla? Come impiego davvero questo tempo? Non sono partito con un programma, ma da una serie di domande che ho poi condiviso con altre persone, soprattutto sconosciuti/e. Di noia non c’è una una sola, ma tante e tra queste esiste anche quella produttiva. Fare, fare e fare, senza una vera e propria intenzione, senza rendersene davvero conto. Esistere anche in quel momento. Fare per non essere soddisfatti di un risultato, che finisce per annoiarci subito, spingendoci a produrre, ancora. Paradossale, no? Eppure anche questa è noia.
Potresti descrivere la mostra alle persone che (sfortunatamente per loro) non sono riuscite a vederla?
Fortunatamente per loro, non sono in grado di descriverla. Posso solo dire che volevo offrire al visitatore uno spazio di immaginazione, senza la pretesa di insegnargli qualcosa.
Come spesso ho visto nelle tue precedenti mostre, hai portato qui elementi che ricorrono in lavori precedenti: le maschere di gomma tagliata, le banane. Come funzionano queste incursioni? Sono pezzi di ricerca che si riattivano in contesti nuovi?
Gli elementi che produco sono degli attanti; sono pensati per agire. Tra loro non vi sono gerarchie. In fondo sono come me: non possono permettersi di rimanere come sono fino alla fine dei loro giorni o dei miei. Devono essere disponibili al confronto, al cambiamento e, se necessario, alla scomparsa. Sono soggetti animati, pensati per creare una polifonia, spezzare la linea, evitare la chiusura del cerchio o quello che è. Anche ora, che cosa stanno facendo? Concepisco questi soggetti tenendo in considerazione la loro possibilità di attivarsi in contesti diversi, anche scomodi – se è possibile. A volte ritornano in gioco, hanno un comeback dopo anni di riposo. Se ritornano, allora devono potersi adattare alle nuove condizioni di vita.
Non è la prima volta che esponi alla Marsèlleria: com’è nato il rapporto con questa galleria? Ci racconti la mostra del 2011 e la partecipazione di Lorenzo Senni?
Ho incontrato Mirko nel 2011, durante una sua visita a Green Room, e le chiacchere sulla movida romagnola ci hanno subito uniti. Qualche mese dopo è arrivata una commissione per Marsèlleria e da lì è nato il primo episodio di I Swear I Saw It, una riflessione sul disegno mutuata da un breve saggio di Taussig. Il disegno rimane sempre il mio primo canale espressivo. Cercavo un disegnatore abile e veloce – individuato poi nella figura di Giacomo Sargenti – in grado di documentare una performance che il pubblico avrebbe esperito unicamente attraverso l’osservazione del disegno. A questa figura volevo affiancare un musicista, capace di elaborare e miscleare dal vivo i suoni prodotti dal costante lavorìo della penna bic sul foglio con quelli emessi dalla gente presente sul luogo. Allora Invernomuto mi passò il contatto di Senni, che conoscevo solo di vista, e Lorenzo accettò l’invito…That’s all folks!
Prima di quella mostra avevi lavorato con molti altri spazi indipendenti di Milano: Brown Project space, CareOf, Artopia. Sei ancora in contatto con tutti questi giri? Tra i nuovi spazi indipendenti milanesi che hanno aperto in questi ultimi anni, mentre eri via, quali trovi più interessanti?
Sono in contatto soprattutto con CareOf. Quando si lavora con CareOf si entra a fare parte di un piccolo e bizzarro nucleo familiare, bello, molto umano. CareOf offre moltissimo a Milano – e non solo – e, se sostenuto a dovere, potrebbe diventare un centro nevralgico, non solo per gli artisti, ma per la città. Sto conoscendo i nuovi spazi indipendenti un po’ alla volta. Recentemente ho visitato Fanta Spazio – bellissima location che ricorda un angolo di Dalston – e sono curioso di vedere come procederà. Lo stesso vale per l’Edicola Radetzky. Non sempre condivido le scelte e/o il modo di lavorare di certe realtà, ma apprezzo e ammiro l’intenzione e il fermento di tutti: aprire, chiudere, spostarsi, unirsi, dividersi. È un ottimo segno per questa città che sale, scende e risale. È anche indice di insoddisfazione, e di voglia di supplire alla mancanza di coraggio mostrata spesso dalle istituzioni più established. Si può scommettere ancora di più e assumere rischi maggiori. Messi come stiamo, cos’altro abbiamo da perdere?
Hai frequentato la scuola fondata da Piero Golia a Los Angeles. Ti è stata utile? Torneresti a LA se ne avessi l’occasione?
Voglio molto bene a Piero, e con la fondazione di MSA^ (insieme a Erci Wesley) ha dimostrato la sua grande generosità. La Mountain è un’esperienza che continuo a consigliare a tutti, senza riserve. Per quel che mi riguarda è stata un’avventura intensa sotto molti punti di vista, direi rigeneratrice. Se da una parte ha messo in crisi la mia produzione, dall’altra mi ha alleggerito. Sono tanti i momenti memorabili durante la mia residenza L.A., tra cui l’incontro con Simone Forti e Paul McCarthy, il compleanno di Mike Kelley, ma anche le serate Mustache Monday e le feste all’M Bar, animate da Total Freedom, Kingdom e NguzuNguzu. Ho conosciuto delle bellissime persone, pazze e brillanti, che continuano ad essere parte della mia vita. Amo Los Angeles perché sfugge e sorprende; lì tutto si mischia con tutto, anche a livello urbano e paesaggistico. Già lo sai che partirei seduta stante, per qualsiasi motivo, per fare due chiacchere con Willow e Jaden o salire su un Runyon Canyon per perdermi tra le frasche di Mulholland Drive.
Hai detto che uno dei motivi per cui hai deciso di passare un po’ di tempo a Milano è che volevi sviluppare una ricerca autonoma, non condizionata dai ritmi e i modi delle residenze, che pure sono state fondamentali per te. Su che cosa stai lavorando?
Ho rifiutato Milano per moltissimo tempo. Era una questione di pelle, mi sembrava asfittica, non respiravo e dopo 24h volevo scappare…ora mi piace pensare che siamo cambiati, entrambi. Sono arrivato qui per concentrarmi su Stressed Environment e sì, anche con l’idea di cambiare alcune cose che non tornavano nella mia modalità di lavoro. Non mi piace progettare quello che farò tra tre mesi o un anno, semplicemente non è il mio modo di lavorare. Trovo fondamentale essere aperti a tutto ciò che può succedere, senza sapere e programmare il risultato. Il lavoro che sto facendo ora è proprio di riallacciare il contatto con la mia visionarietà. Al momento ci sono un paio di collaborazioni, soprattutto a livello di scrittura, con artisti che stimo molto, tra cui Tomaso De Luca e Hannah Heilmann. Poi sto abbozzando una nuova performance canora a passo di zumba, commissionata da Kunsthalle Eurocenter e curata da Frida Carrazzato. La presentiamo a fine giugno alla Kunsthalle, un luogo assurdo e affascinante: blocchi di cemento armato e vista sconfinata sui meleti sudtirolesi. Sei già invitata.
In questo momento sei stato accolto nello studio di Invernomuto. A quando risale il vostro legame? Prima della mostra a Parigi? Tornerete a lavorare insieme? Hai mai presenziato a una serata Hundebiss?
Ci conosciamo da almeno undici anni…ci consideriamo dei fratelli e così ci chiamiamo tra di noi . Mi diverte avere aggiunto questo punto alla nostra storia, io sono il più vecchio, ma anche il più cazzone, tra bucce di banana in essiccazione e fitball in pvc. Loro invece sono bravissimi, dei lavoratori instancabili e super professionali. Quando erano ancora dei pischelletti, li avevo invitati a presentare uno dei primi ff_wd a Neanche, una micro rassegna sull’interdisciplinarità che avevo curato nel 2005 in quel di Faenza (e che a mio avviso dovremmo riproporre a Milano). Da allora abbiamo collaborato tantissime volte, ci siamo trovati in situazioni assurde, aiutandoci a vicenda e continuando a farlo ogni volta che ce n’è bisogno. È molto difficile avere questo tipo di rapporto tra artisti in Italia, perché si ha la tendenza a presidiare la propria aiuola armati di molotov. Ho presenziato a moltissime rassegne ed eventi curati dagli Inverni, da Hundebiss al più recente Sonido.
Dalle tue opere emerge una profonda passione per l’antropologia, quali sono i testi miliari per te?
Probabilmente dovrei decidermi a studiare Antropologia e, contemporaneamente, darmi al birdwatching in modo serio e lineare, anche se come avrai già capito son tutto furché lineare e simmetrico. Ho iniziato ad appassionarmi da ragazzino, leggendo il Ramo d’Oro di Frazer e poi ho continuato con Lévi-Strauss, Marc Augé, Mircea Eliade etc. Insomma, le basi. Sarà il fatto di essere cresciuto in campagna, ma per me tutta quella parte di Antropologia che si occupa di Folklore è estremamente stimolante e rivelatrice. Pensa che mia nonna, per il “solo” fatto di aver partorito due gemelli eterozigoti aveva acquisito il potere di guarire il mal di schiena; una vicina di casa invece recuperava la così detta anima caduta. Aggiungi a questo il fatto che sono uno scettico, e la miscela diventa ancora più assurda e portentosa. Da qualche anno seguo con interesse le pubblicazioni di Michael Taussig.
Tu hai lavorato con i Raffaello Sanzio. Quanto è stato importante nel tuo lavoro?
Considero il Teatro la mia Scuola. L’incontro fortuito che ha cambiato radicalmente la mia percezione delle cose, la mia modalità di lavoro. Il teatro è stato come uno specchio in grado di restituirmi senza filtri l’immagine della mia persona. Mi ha mi insegnato ad essere poroso, ad ascoltare lo spazio, ad andare incontro e attorno agli elementi, a cercare un contatto con essi, ma senza occuparli. Sono stato anche molto fortunato ad essere testimone di un periodo incredibilmente dinamico. Negli anni ‘90 il festival di Santarcangelo era hardcore, la Socìetas mi meravigliava e sconvolgeva, la Valdoca mi commuoveva, e tutta la così detta terza ondata – formata da Motus, Teatrino Clandestino, Fanny&Alexander e Masque Teatro – cercava nuove direzioni, mettendo in discussione il dispositivo teatrale e il ruolo dell’attore. Devo moltissimo a tutti, dai Fanny che per primi mi hanno introdotto al teatro, ai Kinkaleri che con Nerone mi hanno spinto là dove non pensavo di potere arrivare, fino all’esperienza più recente con Chiara Guidi che mi ha rivelato la magia del teatro per bambini. Lavorare per Romeo, con Romeo, è stato un momento cruciale della mia relazione col teatro. Lo scambio che si è attivato tra di noi durante la produzione di Purgatorio è stato molto prezioso. Romeo mi ha insegnato moltissimo, in modo diretto e senza inutili giri di parole. Le sue visioni sono molto precise, e sa come trasmetterle ai suoi interpreti e come dargli forma. Sa come farle vibrare.
Ti ho visto ballare come un pazzo al Sonido Festival. Cosa ti piace ballare più di ogni altra cosa e dove?
Non mi trattengo, non posso proprio farlo. Mi sono sempre scatenato tra le mura domestiche (Only when I’m dancing can I feel this free / At night I lock the doors, where no one else can see…), ma ultimamente fatico a trattenermi anche in pubblico. A New York nessun fa a caso a nessuno, e quando vivevo lì ho sentito chiaramente la libertà di ballare ovunque. Si flirta moltissimo ballando in pubblico, riconosci subito l’alieno nascosto tra i passanti. Qui la maggior parte della gente ti guarda come se avessi qualche problema, ma poco importa. Quando trovo l’equilibrio, ballo anche in sella alla mia Brianna su viale Monza e se no mi limito al lypsync. Cosa ballo? Ci sarebbe da divertirsi…Sono moody, eclettico, se apri il mio Spotify ti prendi paura oppure ti metti a ballare….tra me e me ballo soprattutto musica pop, Rihanna included…un evergreen è Sock It 2 Me di Missy Elliott.
Perché ricorrono i dizionari e le enciclopedie nella tua opera?
Da bambino passavo ore sulle illustrazioni di Conoscere, l’enciclopedia di famiglia, era in assoluto il mio gioco preferito. Ora mi domando se quella sequenza esclusivamente alfabetica degli argomenti più disparati abbia in qualche modo influenzato la mia immaginazione; se osservare con incanto e ignoranza le immagini relative all’Occhio e poi quelle sull’Oceania abbia sballato la mia percezione del Mondo.
Stai cercando casa a Milano. Dove ti piacerebbe abitare se non avessi limiti?
Non ho ancora mappato Milano così bene da poter pisciare i Navigli o Porta Romana. Amo la zona in cui vivo, battezzata recentemente NoLo, ma che io preferisco chiamare Turrolandia, perché sembra un bizzarro quartiere dei balocchi, per il clash tra culture e generazioni diverse, tra artisti con cappottoni della nonna, fashionisti total-black, signore pallide e scocciate avvolte in pellicce di zebra, pollerie che sono anche chevicerie. Gironzolando qui intorno potrebbe capitarti di assistere alle prove di qualche danza sudamericana in un angolo del Parco Trotter o trovarti difronte alla grigia austerità della Torre di Turro. Turrolandia è meno signorile e chic di altre zone, ma è decisamente molto dinamica, scosciata e piena di sorprese. Spero solo che non subisca l’Effetto Isola.