Infaticabile. È l’aggettivo più consono a definire Ginevra Bria, studiosa e curatrice, ma anche critica e scrittrice. Non dorme praticamente mai e gira solo in bicicletta, per avere il totale controllo dei tempi di spostamento (e io sono arrivata un quarto d’ora in ritardo, per colpa di una metropolitana pigra estiva, al primo appuntamento al FuturDome). Scrive, tra gli altri, per Flash Art, Flash Art International, Aesthetica Magazine, Rolling Stone, Alfabeta2, è curatrice all’ISISUF- Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo e collabora con Adelina von Fürstenberg-Herdringen e il team di ARTforTheWorld. Allergica al narcisismo da star-system, voleva tacermi anche le più elementari informazioni su di sé per lasciare spazio solo ai progetti milanesi, tra cui la grande mostra al FuturDome che apre il 29 settembre. Ma almeno sono riuscita a farle raccontare della mostra di Oiticica alla Biennale di San Paolo, appena inaugurata.
Ti conosco soprattutto attraverso la scrittura, ma vorrei partire dall’Isisuf: come sei entrata a farne parte? e che ruolo hai?
Sono entrata a far parte di Isisuf una decina di anni fa, come uno fra i giovani curatori degli archivi Belloli – Vieira. A partire da quel momento si sono avvicendate collaborazioni, mostre, convegni con Istituzioni, fra le quali: il Centro Cultural Banco do Brasil di San Paolo e Rio, la Triennale di Milano, il Museo Tinguely di Basilea, con il Centro Pecci di Prato, con il R.S Guggenheim di New York, con l’Istituto Moreira Salles di San Paolo, con il Museo del Novecento di Milano, con l’Università Bocconi e con il Museo Salvatore Ferragamo.
Per esempio? Quali progetti e mostre?
Ne cito solo alcune, fra quelle passate come: Mary Vieira O Tempo do movimento al CCBB di Rio e San Paolo (2004-2005); After Utopia al Centro Pecci di Prato (2009-2010); Spielobjekte al Museo Tinguely (2014); Italian Futurism al Guggenheim di New York (2014). Attualmente ne stiamo preparando alcune per il 2018, senza contare The Habit of a Foreign Sky, imminente.
Potresti raccontare in generale quale tipologia di Istituto è e come funziona?
ISISUF- Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo è un’organizzazione nata nel 1959, a cinquant’anni dalla promulgazione del manifesto, un istituto che fondandosi sull’esperienza futurista, anticipa e segue i micromovimenti dell’arte contemporanea. Isisuf si pone come ricettacolo delle energie artistiche nazionali e internazionali, sviluppando e finanziando progetti legati all’arte visuale, all’architettura, alla letteratura, alla musica e al design. La collezione dell’Istituto comprende opere che spaziano dal Futurismo a tutti i maggiori protagonisti dell’arte del novecento con particolare attenzione a movimenti come Costruttivismo, Arte Concreta, Progammata, Cinetica e Optical. Tra gli artisti presenti nella collezione ricordiamo: Filippo Tommaso Marinetti, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Sonia e Robert Delaunay, Fortunato Depero, Nicolaj Diulgeroff, Pavel Mansurov, Mario Radice, Atanasio Soldati, Victor Vasarely, Georges Vantongerloo.
E questa collezione è visitabile?
Attualmente ne stiamo progettando sistematizzazione e riqualificazione degli archivi. La maggior parte dei documento non è accessibile, è tantomeno consultabile. Ma cerchiamo comunque, attraverso fondi privati, di sostenere, di selezionare le richieste di consultazione dei molti ricercatori che stiamo accogliendo e che abbiamo accolto da tutto il mondo in questi anni, come nosri ospiti graditi.
Quando è partito il progetto di recupero di FuturDome?
Il progetto era già in corso quando io ho cominciato a far parte dell’Istituto. Abbiamo sempre immaginato che le aziende potessero interagire con gli spazi e con l’edificio apportando innovazione, avanguardia alla somma delle sue parti. Attraverso la presentazione e l’inserimento dal vivo di materiali, tecniche, approcci innovativi. Fin da principio, questo processo è stato tratto dalla duplice idea di utilizzare gli ambienti non propriamente come abitazione, ma come piano di prova per la sperimentazione di interventi artistici e di design. Artefici che vorremmo utilizzassero i duemila metri quadrati di compartimentazioni domestiche come un atto di conoscenza, attraverso lavori creati, o ri-creati, site specific, a entrare in dialogo con superfici espositive finali, non dedicate al mostrare in sé, quanto piuttosto all’inserimento in luoghi della quotidianità. FuturDome è un edificio concepito come uno spazio museale vivibile. Gli interni di quindici unità abitative, due showroom e un locale pubblico prevedono l’allestimento ciclico di esposizioni d’arte contemporanea e di design. Eventi temporanei che coinvolgono, oltre ai diversi pubblici di riferimento, tanto gli spazi comuni dello stabile, quanto gli appartamenti di chi risiederà nel complesso. FuturDome è un progetto pilota di riqualificazione architettonica che connette aziende innovative per la realizzazione di spazi all’avanguardia sia per quanto riguarda l’uso di materiali sia per le tecnologie costruttive. Il progetto coinvolge artisti, designer e aziende interconnettendo le diverse peculiarità dei partner in modo da sviluppare sinergie comuni ed eventuali collaborazioni, dirette allo sviluppo di idee e prodotti innovativi.
E che cosa speri che diventerà, oltre alle residenze?
FuturDome intende perseguire, rappresentare il concetto di casa del futuro. Per Atto Belloli Ardessi, curatore del processo di riqualificazione, la casa del futuro viene idealizzata sul principio dell’intercambiabilità. Una casa che diventa come un abito: adattabile e trasformabile secondo gusti ed esigenze in tempi brevissimi. Il concetto di abito viene sviluppato usando, sia per i rivestimenti che per gli arredi, materiali e tecnologie che permettano di dare nuova forma agli spazi abitativi. La sfida di questa iniziativa, parallelamente alla sua valenza artistica è di far diventare un palazzo in stile liberty del 1913 una casa del futuro anche per quanto riguarda il comfort energetico lavorando a stretto contatto con aziende ultra specializzate nelle costruzioni a secco. Questo progetto viene concepito come piattaforma creativa tra Isisuf, gli artisti-designer partecipanti e le aziende che lo supportano. Inoltre, fino a che non avremo nuovi coinquilini, nuovi occupanti, a parte la meravigliosa presenza di Federico Pepe nella nuova sede di Le Dictateur, vorremmo che le parti comuni continuassero a mantenere viva la tradizione di corte votata all’arte e alla cultura che la storia del palazzo nutre, fin dalle proprie radici.
Com’è nata l’idea di organizzare queste due mostre in fase di cantiere, quella di Zero.. durante miart e The Habit of a Foreign sky?
FuturDome è un palazzo di duemila metri quadri sospeso tra la dimensione privata e un grande potenziale di accoglienza pubblica. Eppure, solamente alcune sensibilità sono in grado di leggerne i confini, i fantasmi, interpretandone le contraddizioni. Si rimane, infatti, inevitabilmente attratti dalla transitorietà e dalla conflittualità che gli ambienti domestici, non ancora abitati, emanano. È un richiamo che si trasforma in una sorta di reminiscenza anteriore, in un sentimento di appartenenza e fragilità, che lega tutti gli artisti gli spazi, non appena varcata la soglia dell’androne di FuturDome. Da Andrè Komatsu a Christine Sun Kim a Gabellone, a Grimaldi, ad Alessandro di Pietro, a Michele Gabriele.
E come hai impostato l’interazione con l’edificio, con gli appartamenti al rustico?
Anche nella pianificazione di un progetto espositivo, dal titolo The Habit of a Foreign Sky, il termine home acquisisce il senso di una limitazione logica che contiene un interrogativo, una contrarietà inattesa. L’ovvia incognita è che abitare nella possibilità (celebre verso-proclamazione di Emily Dickinson nel frammento 657, I dwell in Possibility – / A fairer House than Prose – […]) e risiedere nell’indefinitezza significa inevitabilmente sottrarsi a una sola definizione imposta da un ambito domestico, qualunque spazio esso sia o lo rappresenti. Attualmente lasciare casa provoca in noi, a causa degli eventi di cui siamo testimoni diretti in Italia, dalle emigrazioni a violenti terremoti, l’effetto di una presa di coscienza, di una diversa considerazione dell’Altro, del prossimo.
Come viene riconfigurata, messa alla prova, l’idea di domesticità nel lavoro di questi artisti? puoi farci qualche esempio?
In The Habit of a Foreign Sky, i lavori appaiono come prese di possesso temporanee, protesi narrative di architetture interne, con possibilità di livelli di lettura amplificabili a seconda di diverse varianti; lavori privi di un aspetto univoco predominante secondo il quale analizzarli, ma tutti intrinsecamente volti a valorizzare il rapporto tra lo spettro della soggettività e lo spazio privato. Alcuni artisti interpretano il vuoto domestico cercando di ripristinare l’equilibrio tra una pragmatica del lavoro, il loro studio verso il quale sono riconoscenti conoscitori e il palazzo, ricreando un contesto allestitivo a sé stante, caratterizzato da rinnovate codifiche. La casa viene utilizzata come contenitore in cui l’artefice inserisce interventi esecutivi, facendoli diventare, di riflesso, un luogo in sé e per sé, un limite, un orizzonte neutro, predisposto a cancellare le tracce degli abitanti, passati e a venire. È il caso di Valentina Perazzini, che svuota le stanze a disposizione e le trasforma in un ambiente per la sintesi di natura. Alessandro Di Pietro, nell’attico, invece, crea spazi di meditazione lontani dalla quotidianità e immersi nel silenzio della parola, dove qualche oggetto isolato si manifesta come una presenza simbolica di informazione della memoria, scatola nera di un personaggio mai esistito.
Il rapporto tra il pubblico e il privato, e il labile confine esistente tra queste due sfere, come nel caso di Ornaghi&Prestinari, resta la tematica principale di una coppia di artisti che con le loro sculture di design mette in discussione il rapporto tra l’istituzionalismo espositivo, l’ambiente della casa, il limite dei materiali e il ruolo dello spettatore. Mescolando realtà e finzione, questa coppia prova a dare una risposta alle problematiche derivate dall’organizzazione della mostra stessa e da quel che le soggiace in termini strutturali, analogamente alle installazioni intrusive di Jonathan Vivacqua.
Il ruolo dell’ambiente del cantiere e il contesto sociale esterno, ad esso collegato, acquistano un’importanza fondativa nell’elaborazione degli interventi selezionati e conformati, valorizzando, ad esempio, negli stralci corporali di Guglielmo Castelli, discipline e applicazioni.
Alcuni di loro assemblano non solo soluzioni plastiche amalgamate in funzione dello spazio (Michele Gabriele), ma soprattutto in previsione degli abitanti della casa con i quali instaurano un rapporto di visionaria, anteriore prossimità (Enrico Boccioletti).
Dal punto di vista dei visitatori, l’obiettivo di un’esperienza diretta della fruizione dell’opera arte può non essere del tutto raggiunto: la ristrettezza degli spazi, paradossalmente, sovraespone i lavori, come ricordano gli interventi di Diego Miguel Mirabella, poiché, pur avendo una visione maggiormente interagente dei lavori, rimangono comunque sulla soglia tra esistente ed esistito, mantenendo, a loro volta, il ruolo di abitatori, di invitati, di ospiti. I reali, futuri padroni di casa, invece, che ricorderanno, attraverso la riproduzione di immagini e alcuni lavori incastonati permanentemente nell’edificio, quel che è intercorso fra i muri degli appartamenti, potranno vivere l’opera giorno per giorno, in remoto, indirettamente, ma diventandone i secondi protagonisti immanenti. Lo scambio continuo tra artista e padrone di casa, ben evidente nel salotto dal cielo giallo di Giovanni Oberti, porterà l’uno a mettere continuamente in discussione pratica e autonomia estetica – dovendo scendere a compromessi – e l’altro a scoprire di persona una realtà, un tempo sovrapposta, ma integra e contingente.
Hai appena inaugurato a San Paolo, durante la biennale, una mostra su Hélio Oiticica, che forse arriverà anche in Europa in una forma leggermente diversa. So che è il frutto di una lunga ricerca, ce ne parli?
La mostra, inaugurata in occasione della 32esima Biennale di San Paolo, attualmente allestita da Nara Roesler, è il frutto in nuce di una ricerca durata diversi anni, supportata dagli archivi del Latin American Department del MoMA, su segnalazione di Lee Jaffe. Maverick figure e chiave di volta di un progetto inedito, dimenticato di Hélio Oiticica. Un ambiente che anticipa di tre anni la serie dei Cosmococa e che è stato concepito per il percorso di Information, a cura di Kynaston McShine, a Rio de Janeiro, ad alcuni mesi dalla partenza verso quei sette viscerali anni vissuti dall’artista a New York, dal 1971 al 1977.
Hélio Oiticica (1937, Rio de Janeiro — 1980, Rio de Janeiro) è stato il pioniere dell’arte partecipativa aprendo nuovi regni dell’esperienza al percorso di interazione attiva del visitatore. Sensazioni esplorate dall’opera d’arte attraverso una pratica di avvolgimenti successivi, creati per testimoniare passaggi di stato fisici, percettivi e riunendo in un solo percorso umano, mundo erigindo mundo: arte cinetica, process art, il monocromo, arte minimale, arte concettuale, pop art, arte politica, land art, environmental art, body art e performance.
Ti senti più a tuo agio con la critica militante, la ricerca storica o la curatela? come entrano in relazione queste attività nelle tue giornate iperdense?
La mia sveglia è fissa alle 5.30 del mattino di ogni giorno. Prima dell’una di notte non posso permettermi di prendere sonno. Viaggio spesso, mai abbastanza. Devo imparare ancora tanto, sono regolarmente in debito d’ascolto. È richiesto da: artisti, curatori, critici, storici, da quel che devo studiare, da quel che devo sistematizzare e sedimentare. Trovo inseparabile il mio lavoro dal dialogo diretto o indiretto con l’essere nel mondo, con l’umanità degli artisti.
Quando hai iniziato a scrivere, e perché?
Mia madre è convinta sia tutta colpa di quel libro giocattolo, lasciato galleggiare nel primo bagnetto. Ho sempre scritto e letto con istinto, soprattutto poesie, fin dalle prime classi delle elementari. Avevo un nonno molto colto: ‘quel che metti in testa nessuno te lo porterà mai via’, era sopravvissuto a due campi di concentramento. Ma la scrittura è diventata imprescindibile a partire dai tredici anni. Ho cominciato a partecipare a diversi concorsi nazionali e internazionali, per poi arrivare a collaborare con Camilleri, Vasta, Vacis, Scarpa e Lucarelli.
Tra le mostre che hai curato quale ha rappresentato la sfida più grande, e perché?
È sempre la successiva: quella non ancora scritta perché solo pensata. Ogni volta che ripenso o riguardo
Che ne pensi della scena artistica milanese contemporanea, con tutto questo fiorire di artist-run space e riviste indipendenti? Tu quali segui di più?
Sono così attratta dalla fenomenologia in parallelo, a livello editoriale e espositivo, che sto progettando di riunirli tutti in un solo luogo, assegnando uno spazio a ciascuno. Ad esempio a partire da Armada a Progetto77, da T-space a Tile project space.
Le trasformazioni urbanistiche recenti ti preoccupano o fai parte degli entusiasti?
Sono cresciuta accerchiata dai campi, con il cielo all’orizzonte e la terra che tratteneva il passo. Abitare in città significa trovare il cielo solo sulla verticale e fare i conti costantemente con l’asfalto. Non essere più in grado di intuire nemmeno un tramonto, scendere verso le montagne, dietro Porta Volta, credo rappresenti la quotidiana evidenza di una permanente appropriazione indebita di patrimonio collettivo.
E tra i musei e le istituzioni più ricche quali frequenti?
I musei più ricchi di Milano, in termini di tesori nascosti, sono gli scantinati, le dimore storiche e le stanze private di collezionisti ancora segreti.
Quali sono le persone a Milano con cui hai lavorato meglio, da cui hai imparato di più, o semplicemente per le quali hai più stima? Chi pensi che abbia contribuito a muovere le cose in città?
A Milano ho avuto modo di incontrare e imparare da quelli che io ritengo gentiluomini e gentildonne della cultura, da Luigi Sansone a Marco Vallora, dalla famiglia Consolandi a Claudia Gian Ferrari, a Gino di Maggio, ad una delle persone che ricordo con maggiore, incondizionata ammirazione: Giorgio Maffei. Tutti avvinti dalle loro ricerche e convinti che quello fosse il modo migliore di fornire un esempio per la città.
Dove compri i libri?
Da oltre quindici anni, mi sono imposta di non comprare libri: sarei costretta a sostenere snervanti scie di debiti e a stipare spazio vitale. Fin da quando sono piccola mi piace consultare e frequentare i luoghi pubblici dedicati al sapere. Oggi mi piace molto la biblioteca di Isisuf, quella di Parco Sempione, Biblioteca Sormani e, ovviamente, la Biblioteca D’Arte a Castello Sforzesco.
Dove vai a bere? E a mangiare?
Quando sono a Milano cucino e assaggio molto, soprattutto nuove ricette, in case di amici.
Non appena esco, di sera, dirotto tutti all’Aromando Bistrot. Le colazioni di lavoro più producenti capitano sempre in Terrazza Triennale, ma forse è un caso; quelle più intime al Grand’Italia di corso Garibaldi; mentre le più avventurose tra L’OV e la Brisa.
In che zona abiti?
Piazza Sempione
Ultima domanda: tu sei una grandissima ciclista urbana, ti sposti solo in bici. Qual è il tuo percorso preferito?
Tutti, nessuno escluso, anche se prediligo i parchi. Sono tecnicamente assuefatta dalla puntualità, dalla precisione che la bicicletta consente, anche in caso di pessime condizioni meteo. Non utilizzo nessun altro mezzo.