Incontriamo Federica Fracassi e Renzo Martinelli, che con Francesca Garolla sono le anime di Teatro i, l’ormai storica realtà milanese che ha portato in città tante produzioni nuove, spettacoli di ricerca e aperture alla drammaturgia contemporanea europea. In queste settimane è al centro del dibattito per il progetto di un nuovo spazio, promosso dal Comune, ma fermo ormai da otto anni circa, che lascia Teatro i in una situazione paradossale: la proposta culturale c’è (e funziona bene), ma il contenitore, individuato da molto tempo in via Gaudenzio Ferrari, si trova in uno stato di degrado progressivo.
Zero – Come nasce Teatro i?
Federica Fracassi – Abbiamo iniziato come nucleo artistico nel 1996. La nostra compagnia si chiamava Teatro Aperto, siamo della generazione chiamata “Teatri 90” e ci siamo fatti le ossa soprattutto fuori Milano. La nostra prima grande affermazione fu nel 2000, quando con La Santa su testo di Antonio Moresco vincemmo il premio “Sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il Duemila” del Teatro di Roma, diretto da Mario Martone.
Fin dagli esordi, vi siete occupati anche di produzione teatrale, vero?
Renzo Martinelli – Soprattutto. Quella è la nostra anima, ma abbiamo sempre fatto anche programmazione. Per alcuni anni abbiamo gestito una rassegna per il Comune di Pioltello e attività culturali al C.S. Leoncavallo, dove avevamo un claim, che in qualche modo ci descrive ancora: il nostro fare cultura modifica l’urbanistica della città.
Come siete arrivati allo spazio di via Gaudenzio Ferrari?
Federica – Teatro i esisteva già, diretto da Mario Montagna dal 1981. Renzo aveva composto le musiche per il suo Per farla finita con il giudizio di Dio, dal testo di Antonin Artaud. In realtà allora lo spazio era una sorta di sala prove in cui Mario faceva del teatro rituale con spettacoli chiusi, magari per dieci persone. Ci avvicinammo per dare una mano, poi purtroppo Mario si è ammalato e noi, dal 2002, siamo entrati nella cooperativa e abbiamo deciso di prenderne in mano la gestione.
Che cosa è rimasto di Mario Montagna?
Renzo – Il nome del teatro e anche la sua vecchia i, sempre la stessa, legata al passaggio del Living Theatre in Italia. Un gesto di affetto per Mario e un segno della memoria. Ci è sempre piaciuta moltissimo questa lettera, così semplice e così fragile al tempo stesso, eppure così importante.
Quali innovazioni avete portato con il vostro arrivo?
Federica – Be’, noi abbiamo una poetica molto diversa, un’anima più legata alla drammaturgia contemporanea. Insomma è cambiato proprio tutto, a parte forse la tensione utopica che animava anche lui.
Parliamo di voi: come vi siete avvicinati al teatro?
Renzo – Sono milanese, ma da ragazzo correvo in moto, cross. Un giorno ho cambiato calligrafia: avevo ventotto anni e mi sono messo a studiare trombone. Mi piaceva da morire Ray Anderson e poi anche Albert Mangelsdorff, che una volta mi ha pure ascoltato e consigliato di continuare. Invece ho mollato anche la musica: è accaduto quando ho incontrato Danio Manfredini e ho collaborato con il Teatro Valdoca e Mariangela Gualtieri. Lì, davvero, ho cominciato a occuparmi di teatro e regia.
Tu Federica invece hai un percorso più tipicamente da attrice.
Federica – A diciannove anni sono entrata alla Paolo Grassi: amavo molto la letteratura e volevo fare teatro. In tre anni mi hanno bocciata due volte, che carriera, eh? Però avevo già incontrato Renzo e stavo già lavorando con lui. E così con lui ho continuato, creando moltissimi spettacoli e contemporaneamente ho approfondito il mio percorso d’attrice anche con altri registi: Valerio Binasco, Antonio Latella, Valter Malosti. Ho anche cominciato a fare cinema, tra gli altri con Paolo Virzì, Giorgio Diritti e soprattutto con Marco Bellocchio, un maestro, con cui ho lavorato più volte, in Bella addormentata e Sangue del mio sangue.
La terza anima di Teatro i è Francesca Garolla, che invece è autrice e Dramaturg.
Renzo – Francesca si è affiancata alla nostra ricerca subito, anche lei appena diplomata alla Paolo Grassi, con grande libertà di movimento, crescendo pian piano con noi. Come autrice, dopo che i suoi testi sono stati già tradotti in lingua francese, è stata scelta per una residenza al La Chartreuse, Centre national des écritures du spectacle, di Avignone, dov’è in questi due mesi. Una grande soddisfazione per noi tutti. A Teatro i ho curato la regia di alcuni suoi testi, ma lei ha anche un ruolo da Dramaturg, molto più di un assistente alla regia, una figura molto diffusa in Germania, che contribuisce alla visione politica e letteraria del teatro in cui lavora.
Perché vuoi porre l’accento su questo aspetto?
Renzo – In qualche modo, la presenza di una Chef-Dramaturg a Teatro i è fondamentale per capire il nostro lavoro. Il Dramaturg è una figura centrale nella produzione teatrale perché, indipendentemente dal direttore artistico, riesce a dare centralità al progetto drammaturgico di un teatro e, al contempo, ha una visione più ampia sui nuovi autori. La sua presenza insomma ha che fare con il rinnovamento del teatro.
Ne avete parlato anche in uno dei vostri convegni.
Federica – Abbiamo curato un ciclo di convegni alla Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi intitolati Incontro tra testo e scena, per riflettere sul teatro contemporaneo e il primo era centrato sulla figura del Dramaturg. Ai dibattiti seguivano pubblicazioni, i quaderni di i, a cura de Il Principe Costante con gli esiti delle giornate di studio e discussione. Era un progetto didattico interattivo, un modo per formare noi stessi e gli altri, portando alla discussione pubblica temi che ci premeva indagare. Da quando abbiamo avuto una sala teatrale gli appuntamenti di questo tipo sono stati più fitti.
Mi pare che abbiate lavorato molto sul tessuto cittadino e sulla creazione progressiva di una vera istituzione culturale. Vero?
Renzo – Hai colto il punto: volevamo lavorare sulla comunità per creare un pubblico e l’abbiamo fatto, con buon successo. Abbiamo coperto un buco nella programmazione di quegli anni, portando a Milano compagnie fondamentali nel tessuto nazionale e internazionale che altrimenti non avrebbero avuto visibilità. Abbiamo fatto da apripista, perché devi pensare che non c’erano ancora i teatri multisala (Elfo Puccini e Franco Parenti), che oggi propongono molto contemporaneo. Da quel fermento sono nati anche altri teatri off come il Ringhiera, la Cooperativa, il Pim Off.
Vi siete mai chiesti se e quanto fosse necessario avere un teatro?
Federica – Certo, dall’inizio. Quella dello spazio è la questione centrale, che ci poniamo da molto tempo. Il nostro modello è quello di un teatro che ha al suo centro la produzione, possibilmente con residenze. Attorno a ciò si costruisce una stagione in cui le compagnie che ospitiamo ci aiutano ad ampliare il tema che indaghiamo in prima persona, declinandolo secondo la loro poetica. Il teatro, insomma, non è un contenitore, ma la possibilità di confronto e approfondimento reciproco. Gli spettacoli sono uniti da un filo rosso. Talvolta anche spettacoli che non sono esattamente nelle nostre corde.
Quali sono gli spettacoli internazionali di cui andate più orgogliosi?
Renzo – Essere artisti ha aiutato a dialogare con grandi personaggi del teatro. Siamo riusciti a ospitare Rodrigo Garcia con Matar para Comer, spettacolo che per l’uccisione di un astice in scena provocò proteste da gruppi di animalisti e l’intervento della magistratura. Poi, Forced Entertainment in Exquisite Pain spettacolo ispirato a Sophie Calle. Ontroerend Goed di Alexander Devriendt, che aveva vinto il Fringe e ha portato a Milano un gruppo di adolescenti scatenati. Senza dimenticare il progetto del Royal Court Theatre per i 70 anni di Caryl Churchill, con dieci mise en scene dei suoi testi, di cui tre ospitate e curate da Marc Ravenhill e una, Top Girls, da noi prodotta. E molto altro…
Che rapporto avete avuto con il teatro italiano di ricerca?
Federica – I gruppi della nostra generazione sono passati tutti da Teatro i: Motus, Fanny & Alexander, Accademia degli Artefatti, Stabile Mobile di Antonio Latella, Ricci/Forte, Stefano Massini al suo esordio, tra gli altri. Alcuni hanno proposto da noi una visione progettuale a lungo termine presentando, per esempio, più tappe o maratone di teatro, spettacoli pensati a cicli in cui si poteva cogliere un arco poetico e non un semplice evento. Invece pensando a schegge di bellezza ricordiamo Postkarten e Alfabeto Apocalittico di Edoardo Sanguineti con l’indimenticato Stefano Scodanibbio. Gli spettacoli sono anche occasione di incontro con persone e artisti straordinari.
Avete ospitato anche qualche serata fuori dal coro, vero?
Renzo – Certo, ospitalità di cui siamo molto orgogliosi; pensiamo alla serata di Sentieri Selvaggi con Franco Battiato, oppure a cose più laterali, come gli incontri Giornalismo e verità con Roberto Saviano, che ancora non aveva deciso di scrivere Gomorra.
Abbiamo parlato poco delle vostre produzioni, non siate timidi…
Federica – Abbiamo esplorato drammaturgie impervie, da Prima della pensione di Thomas Bernhard a Lotta di negro e cani di Bernard-Marie Koltès… moltissime produzioni davvero. Abbiamo anche vinto premi importanti, addirittura tre nel 2011: per la mia interpretazione in Incendi di Wajdi Mouawad e in Hilda di Marie NDiaye ho vinto il Premio Duse, il premio Ubu, ex aequo con Mariangela Melato e il Premio della Critica.
Che rapporti avete avuto con le altre istituzioni teatrali?
Renzo – Ottimi, ma anche con grandi artisti. Penso a Luca Ronconi, che mi chiamò quando facemmo La Santa di Antonio Moresco perché lui aveva deciso di usare il testo per lavorarci al Centro Teatrale Santa Cristina. Ronconi era molto attento a quel che facevamo. Siamo stati anche prodotti dal Piccolo Teatro con Blondi da Innamorate dello spavento di Massimo Sgorbani, in scena per due stagioni. L’ultima tappa del progetto Magda e lo spavento sarà tra poco in scena al Teatro India a Roma.
Parliamo dello spazio: che tipo di lavori avete fatto inizialmente alla struttura?
Federica – Innanzitutto abbiamo ereditato un contratto che l’attuale assessore, Filippo Del Corno, ha definito un po’ punitivo. Ci siamo accollati, oltre ai canoni, gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria di uno spazio che aveva già seri problemi strutturali. Il Comune ci ha aiutato rifacendo il tetto, noi abbiamo fatto il resto, investendo tutte le risorse che avevamo: la scala, gli impianti caldo e freddo, il foyer, i bagni, ovviamente a norma e tutte le altre attrezzature necessarie ad aprire uno spazio teatrale al pubblico, insomma in sostanza tutto quello che vedi.
Com’è nato il progetto del nuovo teatro?
Renzo – Durante la giunta Moratti, su sollecitazione del Comune. Abbiamo presentato un progetto curato da Studio Piuarch, non solo dei bravissimi architetti ma anche persone sensibili alla cultura e frequentatori di Teatro i. Un edificio che specchia il verde dei giardini e l’acqua della conca del Naviglio, con una sala moderna e una corte interna utile per le rappresentazioni: una piazza virtuale, ideale per un teatro che vuole parlare alla comunità che lo circonda.
Che cosa si è incartato?
Federica – La nostra è la tipica situazione italiana in cui le cose non procedono per un misto di burocrazia e di scelte politiche difficili. Regoliamo gli orologi da moltissimi anni. Abbiamo risposto a ogni richiesta tecnica degli enti preposti, della Sovrintendenza, di tutti. Abbiamo visto succedersi quattro assessori: Vittorio Sgarbi, Massimiliano Finazzer Flory, Stefano Boeri e Filippo Del Corno, ma il progetto non si è mai reso esecutivo. Del Corno è molto attento alla situazione e sta cercando in ogni modo di risolvere alcune questioni, eppure spesso sembra impossibile.
Qualcuno dice che sia un progetto troppo visionario e poco concreto.
Renzo – Questa è la frase che ci fa più arrabbiare; forse chi dice così non sa di che cosa sta parlando. Non abbiamo neppure ottenuto una messa in sicurezza degli spazi al momento, altro che la realizzazione di quel progetto, per altro concretissimo e non certo faraonico, e questo a fronte di un teatro che ha dimostrato di avere un modello di gestione sano, una sostenibilità economica, un pubblico molto fidelizzato, una comunità che ci accetta.
Vuoi dire che manca una visione strategica del teatro a Milano?
Renzo – In qualche modo sì: c’è un tessuto interessantissimo, ma non gestito. Ci sono le fondamenta, ma manca una casa. C’è un teatro con relazioni internazionali e non mi riferisco soltanto a noi. Eppure vediamo il rischio di una città macrocefala nella quale, sotto le eccellenze del Piccolo, dell’Elfo e del Parenti, c’è un corpo malnutrito, che non riesce a camminare. Ecco, dobbiamo tornare a lavorare alla spina dorsale, agli organi, ai tessuti.
Che cosa mi dite invece di Milano, in generale?
Federica – È la nostra città, è bella, è stupenda! Poi Milano è la capitale dei teatri, molto più avanti di Roma, per esempio, dove la situazione è davvero sfrangiata.
Renzo – Tutt el mond a l’è paes, a semm d’accòrd, ma Milan, l’è on gran Milan… La città è fantastica e poi abbiamo un pubblico stupendo. L’unica nota su cui riflettere però è che Milano, spesso, è troppo legata all’evento.
Che cosa intendi, di preciso?
Renzo – Expo 2015 ha portato alla creazione di tanti luoghi e contenitori nuovi, ma ora, a fronte di questo, serve una progettualità continuativa. Occorre lavorare sulle nuove generazioni. Il pubblico c’è, ma va accompagnato, fatto crescere; è un lavoro etico, un percorso di sostenibilità.
Quali sono i luoghi di Milano che vi piacciono di più?
Federica – Per fare i mondani Lo Spirit de Milan alla Bovisa, dove hanno riqualificato un’area industriale stupenda, il Santeria Social Club, il Mercato metropolitano e poi ovviamente il Teatro alla Scala e tutti i teatri che ci accolgono anche come spettatori tutte le settimane.
Renzo – L’Hangar Bicocca, che mi fa ricordare quando mio padre lavorava alla Pirelli e che ho diretto per la sezione teatrale per due anni. Forse, più che dei luoghi fisici, parlerei dei luoghi della memoria e dei testi che hanno a che fare con una nostra visione di Milano. Penso a Giovanni Testori, a quello che ha scritto, ai suoi angoli, dal ponte della Ghisolfa fino ai suoi testi più drammatici. Ecco, la creatività viene anche da lì.
Una visione coraggiosa del contemporaneo.
Renzo – Per avere una visione dobbiamo lavorare sulle fondamenta. Pensa all’arte contemporanea. Tutti ci riempiamo la bocca con gli artisti più inflazionati, ma spesso c’è un deficit di conoscenza dietro, tanta storia trascurata: dovremmo tutti pensare a Tanzio da Varallo o a Gaudenzio Ferrari, non è un caso se ci siamo ritrovati in una via che porta il suo nome. Al Sacro Monte di Varallo c’è il teatro del mondo. Tanta Lombardia e quindi tantissima Milano.
Come v’immaginate tra cinque anni?
Federica – Vorremmo continuare a esserci, ma dobbiamo capirlo insieme alla città. La nostra progettualità c’è ed è forte. Per Milano sarebbe comunque una grande occasione. Uno spazio culturale in centro, vicino alla Darsena con l’alternativa di ristrutturarlo secondo il progetto originale, o di metterlo almeno in sicurezza per ricavarne una sala prove, un foyer, degli spazi comuni e aperti alla città. Siamo pronti a ogni cosa, purché ci sia una visione chiara e condivisa del futuro.