Roma sa essere anche questo: una piccola chiesa di quartiere sconsacrata che infatua un gallerista di New York che, a sua volta, decide di rilevarla per aprirci una sua sede. Non è la prima volta che Trastevere si affaccia all’arte contemporanea, ma possiamo assicurare che uno spazio del genere è una rarità, una piccola gemma. A questo aggiungete che il gallerista in questione è uno dei più quotati a livello mondiale – Gavin Brown – e avrete Sant’Andrea de Scaphis: uno spazio che in pochi mesi è diventato un riferimento, per qualità della proposta e capacità di allestirla. Alla vigilia di una nuova inaugurazione (4 dicembre Vanitas, personale di Ella Kruglyanskaya) abbiamo fatto due chiacchiere con Giulia Ruberti, romana, che sta dirigendo lo spazio sin dal giorno di apertura.
ZERO- Iniziamo dalle presentazioni
Giulia Ruberti – Giulia Ruberti. Sono nata a Roma il 9 agosto del 1984
Qual è stato il tuo percorso formativo?
Ho finito il liceo molto presto e, non sapendo bene cosa fare, mi sono iscritta a Scienze della Comunicazione. Prima a Roma, poi a Milano, dove mi sono trasferita appena ho compiuto 18 anni. Più tardi ho fatto un master a Londra in arte, che finalmente mi interessava.
Ti ricordi il momento in cui ti sei appassionata all’arte? C’è stata una mostra, un’opera o un artista che ti ha rapito?
Fin da piccola venivo portata nei musei e mi viene raccontato che mi sono messa a piangere alla Galleria Borghese davanti all’ Apollo e Dafne di Bernini.
Quando, invece, l’incontro con l’arte contemporanea?
Più o meno quando ho cominciato a lavorare nel settore, nel 2008. Ero interessata a lavorare nell’arte, ma avevo molta più familiarità con l’arte classica rispetto a quella contemporanea. Non volendo, però, lavorare con i “morti”, mi sono messa a cercare lavoro nel contemporaneo, senza saper troppo a cosa andavo incontro.
Prima della galleria Sant’Andrea de Scaphis dove hai lavorato?
La prima esperienza è stata a Roma, alla galleria S.A.L.E.S., poi a Londra da Hotel, infine a Parigi, da Balice Hertling e Gagosian.
Come sei stata coinvolta nel progetto Sant’Andrea de Scaphis?
Conoscevo la direttrice di Gavin Brown’s enterprise a New York: si ricordava che ero romana e ha pensato – per mia grande fortuna – che potessi essere interessata.
Ti ricordi il primo incontro con Gavin Brown? Cosa vi siete detti?
Sì, certo. Abbiamo fatto il colloquio una mattina molto presto a Parigi durante la settimana della FIAC (la fiera d’arte contemporanea di Parigi, nda). Inizialmente ero nervosa – ho sempre stimato la galleria e un’opportunità di lavorare a Roma con loro mi sembrava davvero un sogno. Poi, pochi minuti dopo essermi presentata a Gavin, mi sono rilassata e dopo avergli brevemente raccontato le mie esperienze lavorative, abbiamo parlato di Roma e del progetto che era ancora in stato embrionale.
Ti ha mai parlato del perché volesse aprire una galleria a Roma?
Penso che Roma, la sua storia, la sua atmosfera, avessero da sempre attratto Gavin. Nel 2004 aveva fatto un primo progetto chiamato Roma Roma Roma con Franco Noero e Toby Webster. D’altra parte, se non avesse avuto l’opportunità di poter essere in questo spazio – una chiesa sconsacrata a Trastevere che risale all’VIII secolo – non so se avrebbe mai aperto una galleria a Roma.
Sei mai stata a vedere le gallerie di Gavin a New York? Come sono?
Sì, hanno un’anima, come quella di Roma. Da poco ha aperto un nuovo spazio a Harlem davvero unico.
Come descriveresti il progetto Sant’Andrea de Scaphis?
Visionario, romantico e attento.
Ti confronti con Gavin prima di ogni mostra?
Certo, su tutto.
Ci puoi raccontare la storia dello spazio che ospita la galleria? A mia memoria è uno dei più particolari, se non il più particolare, che a Roma ospita una galleria d’arte?
È una chiesa sconsacrata la cui prima pietra risale al secolo VIII. Apparteneva a un ordine di preti molto poveri chiamato i Vascellari e nel 1942 è stata sconsacrata diventando una falegnameria. Morto il falegname è stata poi chiusa per molti anni, finché Gavin non l’ha riaperta con un’installazione di Rirkrit Tiravanija.
Ti è mai capitato di vedere altre gallerie con spazi così singolari?
Non l’ho ancora visitato, ma sono molto curiosa di vedere il nuovo spazio di Cabinet a Londra.
Come reagiscono le persone che entrano da voi per la prima volta? Lo spazio ruba la scena alla mostra?
Quasi tutti sono molto impressionati, dallo spazio e dall’arte. In qualche modo questo contesto non ruba la scena, ma dà risalto alle opere.
C’è un filo conduttore tra gli artisti che avete ospitato e ospiterete in galleria? Allo stesso modo, ti chiedo se c’è un filo diretto tra le esposizioni di New York e quelle di Roma o se i percorsi espositivi sono differenti e indipendenti l’uno dall’altro.
Direi che il filo conduttore tra gli artisti che finora abbiamo ospitato è la condivisione di una visione e di valori comuni. Mentre i percorsi espositivi di Roma e New York sono indipendenti ma, ovviamente, legati all’identità della galleria.
Al momento che mostra state ospitando, ce la puoi raccontare?
Stiamo preparando la mostra di Ella Kruglyanskaya, Vanitas, che per questo progetto si è stabilita a Roma, all’American Academy, dove ha dipinto e creato le opere che presenteremo. Con il titolo Vanitas, Ella gioca con il contesto storico culturale in cui questi quadri sono stati creati, con il conflitto tra la vanità del pittore e il piacere che egli prova nel dipingere oggetti mondani e l’idea del memento mori.
Ci puoi anticipare qualche mostra della stagione 2017?
Non ancora!
Un artista di casa Borwn che non conosciamo e ci consigli di tenere d’occhio, magari tra i più giovani?
Vittorio Brodmann, Avery Singer, Rachel Rose.
Il tuo artista preferito in assoluto?
È una domanda alla quale non so rispondere, come il libro o la canzone. Dipende da quello di cui ho bisogno.
Quello italiano?
Anche qui difficile rispondere, ma Caravaggio vince la maggior parte delle volte.
Arriviamo all’ultima parte dell’intervista e parliamo di Roma, della città. Qual è, a tuo giudizio, lo stato di salute dell’arte contemporanea?
Penso che qualcosa di interessante c’è e anche una curiosità maggiore rispetto a quando ho cominciato. Sicuramente Roma ha i suoi tempi e non le si può imporre niente. E questo è anche ciò che amo di lei.
Cosa le manca rispetto alle altre città più quotate e cosa ha in più invece?
Credo che la mia risposta precedente risponde in parte a questa domanda. Le manca il ritmo frenetico, l’offerta, l’energia che senti in alcune città più quotate e questo è problematico, soprattutto per i giovani che devono iniziare. C’è poco contatto con il mondo esterno. Ma, parlo per me, dopo aver vissuto e fatto esperienza fuori, quel che mi mancava di Roma era proprio la sua staticità, la sua poesia e la sua “starfottenza”.
Dopo Gagosian a Roma anche Gavin Brown: è la prova che a Roma si può fare arte contemporanea e anche sviluppare un mercato dell’arte contemporanea?
Certo, si può fare, con tanta dedizione e pazienza. Sicuramente per un emergente sarebbe molto più difficile: non c’è nessun aiuto.
La mostra più bella che ultimamente hai visto, a Roma e fuori Roma?
Marc Camille Chaimowicz da Indipendenza. Fuori Roma, Jos De Gruyter & Harald Thys al Portikus Frankfurt.
Quali sono i musei di Roma che ti piacciono di più?
La Galleria Borghese.
Le gallerie di Roma che hai frequentato e frequenti di più?
Le mie vicine sono T293 e Frutta, anche Lorcan O’Neill e studio S.A.L.E.S.
Il tuo scorcio preferito di Roma?
I pini che spuntano dietro le mura.
Un bar e un ristorante che ti piace frequentare?
Terra Satis e Da Enzo, entrambe a due passi dalla galleria e mie famiglie adottive.