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Joseph Grima e Valentina Ciuffi

L’ex panettonificio che ha dato lezioni al design di Milano

quartiere NoLo

Scritto da Piergiorgio Caserini il 21 aprile 2021
Aggiornato il 20 aprile 2021

Foto di Elisabetta Claudio

Uno dei momenti più ricordati e importanti di NoLo degli ultimi anni è stato sicuramente l’esperienza di ALCOVA. Lì, il FuoriSalone che un po’ tutti conoscono per i suoi lasciti ben visibili tra le zone, le vie e i palazzi, il design si sforzò invece di trovare un nido nel quartiere, lavorando sul tessuto popolare che lo animava e situandosi nelle nicchie assieme alle attività locali. Insomma, l’ex panettonificio ha dato lezioni a quell’immagine di design che troppo spesso si ha, ma non finisce qui. Joseph Grima e Valentina Ciuffi, i due dell’ALCOVA, conoscono bene il quartiere e ce lo raccontano un po’ proprio a partire da quella dimensione di comunella che veste bene NoLo.

Space Caviar
foto di Delfino Sisto Legnani

Come vi siete conosciuti e com’è che NoLo è diventato un’abitudine?

Valentina: Ci siamo conosciuti ai tempi dell’Abitare di Stefano Boeri nel 2007, frequentati soprattutto in occasione dei Festival di architettura (Festarch) organizzati dalla rivista in Sardegna e Umbria. Negli anni abbiamo continuato a incontrarci in diversi posti del mondo. Nell’ottobre del 2017 durante un la Dutch Design Week di Eindhoven ci siamo rivisti per due chiacchiere in un bar e abbiamo iniziato a ipotizzare una collaborazione per il successivo Fuori Salone. Joseph voleva spostare il suo progetto Atelier Clerici (dal pieno centro di Palazzo Clerici a un’altra zona), a me sarebbe piaciuto riprendere l’esperienza dell’anno precedente e qualcosa nel quartiere di NoLo (che non avevo mai chiamato “NoLo”).
A NoLo, negli spazi della Galleria Salvatore Lanteri, durante il Salone precedente 2017, avevo curato la mostra di design META (ero al tempo creative director della Galleria di Londra SEEDS che aveva accettato la sfida di esporre in questo quartiere un po’ defilato e poco noto). Barnaba Fornasetti era venuto a mettere dischi per l’inaugurazione e un sacco di amici, ma anche noti critici e giornalisti stranieri, come Marcus Fairs direttore di Dezeen (potente nello spargere la voce durante il Salone), erano venuti a questa prima serata danzante e avevano poi pubblicato la mostra che era stata sorprendentemente molto visitata nonostante fosse distante dal centro.
Quando Joseph mi chiese che zona suggerivo per il Salone 2018 dissi, senz’altro, questa: facile da raggiungere in metro, piena di piccole realtà interessanti ma non invasa dal design, e d’altro canto non lontana da Centrale dove c’erano altre mostre del FuoriSalone.
NoLo del resto la frequentavo da molto prima di curare la mostra META, ero tra gli avventori della storica Trattoria Crespi (dove nel 2016 ho visto tutti i Mondiali), ma andavo spesso anche alle Gallerie Lanteri (appunto) e Fanta, poi, da brava bolognese cinefila, avevo trovato nel Beltrade l’unica risposta meneghina al mitico Lumiere di Bologna. Francesco Cavalli che abitava in un bellissimo palazzo in viale Monza (ex-bordello di Mussolini, si dice) e Mauro Bracciali, proprietario di un negozio di modernariato in via Padova erano le mie guide al quartiere. Ma a Nolo credo di essere stata per la prima volta nel 2006 con Andrea Lissoni. Abitavo a Bologna, ero in gita a Milano e andammo a mangiare in un posto “mitico” chiamato “Il tempio d’oro”. Io non sapevo dove mi trovavo e NoLo non sapeva di essere NoLo.

 

Joseph: A NoLo ci sono approdato per la prima volta quando mi sono trasferito da Genova a Milano. Cercavo uno spazio che potesse essere adeguato a vivere, una casa che fosse anche studio. Questo perché sono un grande sostenitore dell’idea di abitare, vivere e lavorare nello stesso luogo (soprattutto perché non mi piace il pendolarismo). Un luogo che non sia un unico spazio, ma un piccolo complesso in cui ci si possa organizzare diversamente dalle consuetudini urbane, dai modi per certi versi ortodossi di vivere la città. E questo piccolo complesso l’ho trovato in un posto abbandonato e piuttosto malmesso. Quando l’ho visto ho avuto da subito la sensazione che lì si potesse costruire qualcosa di anomalo o atipico. Così è nato il progetto di spazio Abraxa, in cui inizialmente c’erano solo la mia casa e il mio studio, e poi pian piano si sono aggiunte altre persone. Per prima Valentina, poi più recentemente Andrea, Giovanni, Francesco e altri che sono arrivati dopo. L’idea è che sia quasi un piccolo villaggio dentro questo villaggio che è NoLo. Perché alla fine di NoLo mi piace molto questa dinamica ridotta di quartiere, in cui si vive e si abita quasi come se fosse un paese, un villaggio appunto. E Abraxa è un altro piccolo microcosmo, una piccola rete sociale che deve molto a un’idea di architettura che non sia soltanto relativa a costruire oggetti, che debba avere a che fare con materiali statici, ma che abbia piuttosto interesse a essere un progetto di reti umane, attorno e dentro allo spazio. Abraxa è un esperimento in questo senso, una di quelle cose che è possibile solo in un posto come NoLo, in spazi dove rimangono aperte delle possibilità nel tessuto urbano.

Quand’è e perché cominciaste a lavorare qui e proprio nello spazio dell’ex panettonificio?

Valentina: Poco dopo la chiacchierata di Eindhoven. In primo luogo andammo al Mercato Coperto, scoprimmo allora quella spettacolare soffitta-volta che poi diventò la scena di una delle installazioni della sua futura mostra con Design Academy Eindhoven. Il Mercato però non funzionava per il nostro comune progetto espositivo. Girammo ancora, il quartiere piaceva anche a lui. Durante quelle ricognizioni che durarono giorni, peraltro, vedemmo per la prima volta anche lo studio in cui siamo ora. Setacciammo quasi tutte le strade, poi gli amici-guida del quartiere ci parlarono dell’ex panettonificio Giovanni COVA & G;. In qualche modo, se non ricordo male clandestinamente, riuscimmo a entrare: lo spazio era incredibile, tarkovskiano, la vegetazione cresceva spontanea dentro un gigantesco edificio in gran parte senza tetto. Vero colpo di fulmine.

La sfida di ottenerlo per il Salone non sembrava facile, ma siamo stati costanti e decisi. A turno facevano la posta a quello che ci era stato indicato come il proprietario, Alessandro, il pasticciere dal baffo rosso del bar Cova di viale Monza. Lui era schivo, molto poco propenso, e ci rimandava in continuazione alla settimana successiva. Tornavamo, pazienti, insistenti – era uno di quelli “no telefono, solo di persona”. Lo abbiamo preso per sfinimento.
La cosa divertente è che quando Alcova inaugurò durante il Salone Alessandro e sua sorella erano i più felici di tutti, e ancor di più all’edizione successiva.
L’altro giorno sono passata a trovarlo, gli ho chiesto cosa pensasse dei lavori in corso, ora che Alcova è stata comprata per farci un complesso residenziale. E lui, che ci aveva preso gusto a fare eventi, mi ha risposto: “gli sta bene, si lamentavano del rumore degli eventi, adesso si beccheranno anni di rumori dal cantiere!”.

Anche a noi spiace molto che lo spazio dell’ex panettonificio non ci sia più, era uno specialissimo buco nel tessuto urbano, un luogo che avrebbe potuto far respirare diversamente il quartiere. Abbiamo avuto ambizioni di tenerlo e trasformarlo rispettosamente, un altro anno di mostre e forse ce l’avremmo fatta…
Anche il nome Alcova – chiaramente derivato dal COVA del panettone – ci piaceva, ce lo siamo tenuti e Joseph crediamo che sia uno dei più bei nomi mai coniati in quartiere ;)
Joseph: Ricordo quando siamo entrati in questo spazio industriale nel bel mezzo del quartiere, un luogo dimenticato e proprio per questo completamente invisibile. Varcata la soglia di questo edificio siamo rimasti a bocca aperta. Era come se avessimo attraversato un passaggio spaziotemporale verso un’altra epoca di Milano. Quando questa zona della città era un’area produttiva, industriale. Restammo colpiti dalle proporzioni bellissime e straordinarie risalenti agli inizi degli anni Venti o Trenta del secolo scorso, un’estetica che si conservava soltanto in questi luoghi lasciati nell’oblio. Abbiamo capito lì che avremmo potuto rendere visibile, mostrare e raccontare una storia e una città che era rimasta in disparte, nascosta, aprendo le porte di una dimensione di quartiere che era andata perdendosi nel corso del tempo.

L’esperienza di Alcova e lo studio condiviso vi hanno dato modo di conoscere più a fondo il quartiere, cosa ci dite di questa zona, quali sono le vostre impressioni?

Valentina: Questo quartiere ha il fascino tipico di Milano, quello che da tanti anni mi trattiene qui, dopo aver provato a vivere in altre città. Come quasi tutta Milano, anche questo quartiere non si lascia scoprire facilmente, si apre a poco a poco, per passaparola discreti, dritte rilasciate con parsimonia da persone un po’ gelose dei loro luoghi più speciali. Personalmente apprezzo di più i mondi nascosti che si svelano dietro i cancelli anonimi e bruttini di queste strade, come quello del nostro studio che nasconde un giardino insospettabile con alberi da frutta e un orto.

Ma sono così, defilati, anche molti altri spazi: come Cler, studio e spazio espositivo gestito da Antonio Rovaldi in via Padova, la Carrozzeria di Mauro Bracciali sempre in via Padova, era così la Galleria Salvatore Lanteri che ha sempre e solo avuto una grande insegna neon senza nome ed è così lo spazio degli architetti DWA, che sono subentrati a Lanteri senza brandizzare.
Apprezzo queste realtà, più di luoghi un po’ ammiccanti e fashionari che si vestono di nomi trendy e odorano un po’ di gentrificazione.
A tratti, questo della gentrificazione, sembra il pericolo da scongiurare con più forza tra le strade di NoLo (salito di molto nelle classifiche delle agenzie immobiliari).

A tratti, sembra anche che la gentrification non potrà farcela, in una Milano di fondo resistente al fenomeno, almeno in aree meno centrali come questa.
Del resto, NoLo, per lo meno nella parte dove si trova il nostro studio, quella al di qua di via Monza, rimane multiculturale e decisamente meno hipster che altre aree del quartiere. La comunità sudamericana, fra le altre, la anima vivacemente e la patina cosmetica della gentrification sembra molto lontana dall’intaccare queste strade. Pochi locali alla moda, un grande e chiassoso mercato rionale ogni venerdì, negozi di parrucchieri ed estetisti dalle grafiche più improbabili, una pasticceria cinese unica nel suo genere, un paio di ristornati filippino-giapponesi(?), quintali di chevicherie, il consolato dell’Eritrea (che sembra già di essere in Eritrea), empanadas prelibate, musica latina dovunque, e il bar più trendy, da questo lato, si chiama CARA PINA. Forse per un po’ siamo al sicuro.

 

Ricordo poi la mostra della DAE diffusa nel quartiere. Da dove arriva la volontà di condividere gli spazi espositivi con le attività, di attivare e percorrere le sinergie locali attraverso il design?

Joseph: Con la Design Academy di Eindhoven abbiamo deciso di fare questa mostra un po’ atipica, che avevamo intitolato Not for Sale. Proprio come riflessione sul ruolo di Milano nel FuoriSalone. Questo perché molto spesso Milano si limita davvero a fare da sfondo alla Design Week: è come se tutto quel pubblico internazionale che si sposta e arriva in città durante quella settimana non incontrasse mai i luoghi che visita. È a Milano ma non vede Milano. Siccome la Design Academy ha una forza di attrazione abbastanza rilevante nel contesto del Salone, abbiamo pensato di sfruttare questo posizionamento rispetto al pubblico per portarlo a vedere per davvero Milano, quella del quotidiano della vita di quartiere, dei piccoli commercianti, delle dinamiche che sono realmente locali. Questa iniziativa ci ha permesso di lavorare su un’idea di design che non è spinta soltanto dal consumo, dalla necessità di vendere, ma anche da relazioni umane, dalla ricerca e dalla costruzione di reti effimere e transitorie. E per questo ci sembrò più che giusto scegliere luoghi come via Crespi e soprattutto il Mercato Coperto, che è un po’ il polo del quartiere.