Gallerista per cinquant’anni, amateur dell’arte da molti di più, amico degli artisti, scrittore, fotografo, pittore per gioco. Il gentiluomo bresciano mi ha accompagnata nella visita alla mostra da Carme che celebra il suo ruolo nella vita culturale bresciana. «Qual era la domanda?» mi chiede diverse volte Massimo Minini durante quell’ora e mezza in cui conversiamo fittamente. Non me lo ricordo nemmeno io, qual’era la domanda. Ce ne siamo fatte tante reciprocamente. Ne abbiamo fatte alle opere. Abbiamo parlato, a partire dalle domande, senza trovare mai risposte. Muovendoci di qua e di là, lui soprattutto, che non sta mai fermo, anche quando è seduto.
Mi piace molto il titolo della mostra, Il caso o la necessità. Ma come rispondiamo?
Il caso è un termine chiave del mondo, della vita e dell’arte. Pensandoci bene tutto è un caso. Anche per andare a Milano, devo sempre decidere che strada prendere e ogni sera mi chiedo se sarebbe stato un giorno diverso, se avessi percorso l’altra strada. O se non avessi avuto quel raffreddore tanti anni fa… La mia vita sarebbe stata diversa. Si dice che la storia è scritta dai vincitori, ma la storia è scritta da tutti, solo che i vincitori hanno più penne. Il caso è la base delle nostre vite, come ha dimostrato anche Charles Darwin: non sopravvive il migliore ma chi si adatta meglio. Siamo dipendenti da fattori casuali.
In mostra vediamo opere molto diverse. Da Alberto Garutti a Vittorio Tavernari, da Vanessa Beecroft a Elisabetta Catalano, da Eva Marisaldi ad Alighiero Boetti, e ancora Mario Nigro, Franco Vimercati, Ettore Sottsass Jr., Sol Le Witt e Francesca Woodman. Tutte dai vostri depositi: invenduti o grandi amori dai quali non si è voluto separare?
Un misto. Invenduti sì, ma soprattutto perché sono le opere più grandi e dunque le più care. Sembra una sconfitta quando alla fine di una mostra ci si accorge di aver venduto tutto tranne un ultimo lavoro. Poi invece ci si accorge che è bello, grande, prezioso e ha senso che sia rimasto. In altri casi sono lavori di artisti che dopo una bella stagione oggi non hanno più mercato, come Tavernari, che vedevo in mostra al San Fedele a Milano quando ero giovane e veniva comprato dal cattolicissimo Conte Panza di Biumo.
Ha un'opera preferita tra quelle esposte?
Non saprei, sono tutti vecchi amici, o meglio, dei figli. Uno è più alto, uno più basso, ma vuoi bene a tutti. Non è stato facile allestire queste opere così grandi, anche qui con tutto lo spazio che c’è, sono cinquanta come gli anni che celebrano.
Pensa di esser stato utile agli artisti con i quali ha lavorato?
A qualcuno sì, a qualcuno meno, c’è stato spesso soprattutto un vivo piacere nel lavorare insieme. Ma ogni rapporto è diverso. Giulio, per riprendere l’esempio, è sempre stato una gentile presenza, ma credo sarebbe diventato Paolini anche senza di me, mentre io forse non sarei stato Massimo Minini.
Sono raccolti artisti molto diversi.
E uno potrebbe dire, come è possibile che ti piaccia Sol Le Witt e anche Tavernari? Sa, in cinquant’anni ci si può permettere di cambiare idea. Continuiamo a dire cinquanta ma son anche di più, io ho iniziato a interessarmi d’arte ben prima di aprire la galleria, circa dieci anni prima, sono arrivato preparato. Non sapevo cosa avrei fatto da grande, forse non lo so nemmeno ora. Ero un amateur, andavo in giro per Milano a vedere le cose e via, me ne tornavo a casa. Qui in provincia facevo poi le estemporanee di pittura.
Dipingeva già?
No, no, le organizzavo, dalla parte della pro-loco. Erano giornate in cui gli artisti arrivavano, si iscrivevano e passavano tutto il dì a dipingere. Alla fine una giuria dava un premio. Quando lo raccontai a Guglielmo Achille Cavellini [importante collezionista bresciano, ndr] mi guardò zitto, alzò solo un sopracciglio, così è morto il mio premio di pittura. Gli avevo scritto preso da un impeto di ammirazione, ho scritto anche a Twombly [Cy Twombly, ndr], da giovani si fanno queste cose avventatamente.
Ora scrivono anche a lei?
Si, mi chiedono come si fa ad avere una galleria. E come si fa? Non lo so, come si fa, ci si arrangia. Non c’è una ricetta magica buona per tutti.
Diceva una volta che ha fatto le cose “per dare un po' di fastidio”. Si riferiva al contesto bresciano o era una riflessione generale?
Sì, pensavo alla dimensione locale, non credo di essere riuscito poi a combinare granché o a far credere in quello che facevo. Il dar fastidio nasce proprio dal continuare a pungere una situazione nella quale avrei voluto fare di più. Mi prendo ora qualche piccola rivincita.
Nel volume degli Scritti esordisce dichiarando che si è sempre in un momento di cambiamento: oggi dove si dirige il mondo dell'arte?
Quando mai la storia è stata ferma. Ma il mondo dell’arte è un mondo minore ormai, viene superato da tanti altri avvenimenti. L’arte ha servito molti padroni, ma almeno una volta serviva. Serviva a far piovere, a far tornare il sole, a guarire, a vincere. Dagli sciamani agli imperatori egiziani, dai greci a Roma, e poi la grande coalizione con la religione… l’arte ha avuto sempre un ruolo, è stata il primo linguaggio, in principio non è il verbo ma il disegno, secondo me. Cambia tutti i giorni, non è mai stata ferma e oggi tutto viaggia così veloce, chissà cosa sarà domani. Sta parlando con una persona che quando ha aperto la prima galleria era senza linea telefonica!
L'ho letto!
Vede, si trova sempre il modo di cavarsela. Poi certe cose succedono se ci credi.
Leggevo anche che è stato definito “corsaro”, forse appunto per questo approccio un po' avventuroso. Si sente così?
In realtà no, anzi. È tutto molto relativo. Ognuno pensa di me quello che gli pare, e sarebbe una sorpresa scoprire quanto sono diverse queste opinioni e quanto sono cambiate. Nel 1963 sono andato a Milano per studiare legge, ma ho scoperto le gallerie d’arte, che mi hanno appassionato molto più degli studi giuridici. Sapevo che esisteva l’arte contemporanea, ma non avevo idea di cosa fosse esattamente. Sulle riviste e sui giornali non si parlava certo di Piero Manzoni o di Lucio Fontana, se non nelle vignette.
Oggi non è così facile provocare, nemmeno una vignetta.
Siamo troppo abituati a vederne di tutti i colori. Mi ricordo quando nacque la poesia visiva, quanto sembrava nuovo quel gioco con il linguaggio, quel destrutturare tutto…
Lei ha sempre scritto, ha fotografato, dipinge. Come è maturata questa sua creatività espansiva?
Ho sempre evitato di fare l’artista, ma ci son finito anche io, per fortuna a un’età in cui si perdonano tante cose. Volevo un po’ vedere com’era, dipingere, creare immagini. È stato un caso, ero a Filicudi, mi hanno invitato a partecipare a quella che è la Biennale più piccola del mondo: dura una notte, da una sera ad una mattina. Pensavo di portare uno dei miei artisti ma mi hanno detto, no, sei tu l’artista questa volta! Avrei potuto declinare, ma ero in vacanza, sa, è come un porto franco. Fammi vedere com’è, mi son detto. Poi la sera della Biennale è passato Maurizio Cattelan, al quale avevo appena fatto una mostra: «Non ci posso credere!» mi ha detto solo. Forse è per quello che non abbiamo più lavorato insieme.
Cosa aveva dipinto?
Da vecchio concettuale, ho fatto un piano. Soggetto: natura morta? anatomia, corpi? paesaggio? Ecco, lo Stromboli, perfetto, l’icona delle Eolie, con la sua forma a triangolo, Fausto Melotti avrebbe detto «angelico geometrico». Tecnica? Un po’ difficile, sono senza strumenti e decido di usare solo materiali presenti sull’isola. Quindi carta da pacchi marrone che prendo dal tabaccaio, fogli 150×100, pennelli e pennellesse. Mi son messo lì, con i fogli per terra, a provare, foglio dopo foglio. Mi viene il dubbio che sarebbe stato meglio che non l’avessi fatto, e presto capisco che non dipingo quello che vedo. La pittura ti conduce, non sei tu che la fai.
Scrive tutti i giorni? Leggevo che ha una passione per le liste.
[mi mostra il suo Ipad] Assolutamente sì, l’ho sempre fatto, anche se fino a dieci anni fa non sapevo farlo. Così come fino a vent’anni fa fotografavo senza saper fotografare. Qui ci sono oltre duecento pagine di appunti. Da liste di commissioni, farmacia e via dicendo, a riflessioni, idee, parole, incipit, titoli di opere.
Tornando alla mostra attuale, ne è soddisfatto?
Molto. Intendo farne un uso improprio, usarla come spazio per parlare di arte contemporanea con professori, studenti, chiunque. Noi al liceo durante le ore di storia dell’arte giocavamo a battaglia navale. Bisogna parlare della Costituzione, dell’articolo 9 e dell’11, del dovere di favorire la ricerca scientifica, artistica e la difesa del paesaggio. La scuola deve insegnare anche il senso delle opere d’arte all’interno della cultura nazionale.
Esiste il bello?
Proiettiamo i nostri desideri sulle cose, questo sì.