A voler essere ingenui o maliziosi la matrice più semplice a cui assegnare Gli annegati di Lorenzo Monfregola (Firenze, 1982) è quella del “romanzo degli espatriati” o, ancora peggio, del “romanzo expat”. Uscito in sordina ad aprile 2021 per Il Saggiatore, Gli annegati invece è un romanzo ruvido, con una prosa meticcia che non alimenta il mito di Berlino, ma cerca di sviscerarlo, guardando con crudo realismo la socialità con cui gli italiani all’estero combattono la nostalgia («Mamma mia, stavano a fa’ il torneo de pizzamisù, capisci, pizza-misù?!»), la libertà sessuale ormai entrata nel dominio borghese berlinese («Joshua ci spiega anche come dobbiamo comportarci: ovviamente non si fanno foto o video, bisogna sempre mettere il preservativo, almeno finché non ci sono altri accordi»), le professioni digitali dell’economia dei servizi («[…] shopping, palestra, cena, pranzo, di nuovo palestra, meeting, altro meeting, powerpoint, kpi, kpi, kpi, massaggio, cocktail») e una disamina impietosa degli unici che non ce l’hanno fatta a Berlino, il white trash tedesco. Col tempo Gli annegati ha preso slancio, ed è diventato un libro di riferimento per gli italiani a Berlino e per gli italiani tornati o rimasti in Italia. Questo esordio, fuori dagli schemi dell’editoria italiana lancia un lamento, forse disperato, forse nichilista e cerca una resa dei conti con quella che giornalisticamente, dieci anni fa, veniva chiamata la “generazione Erasmus” e che oggi si è rivelata una generazione troppo povera per godere davvero del cosmopolitismo europeo ma troppo ricca per rinunciarci.
«Poi, era inevitabile che venisse preso come un libro sugli expat. Io mi ero immaginato un libro su una generazione intera invece.»
Il fulcro del racconto sono 72 ore allucinate della vita di Arthur Cipriani, italiano, residente a Berlino, dipendente in un’azienda che si occupa di strategia digitale e il suo incontro con Kimiko, giovane residente a Marzahn, estrema periferia Nord, sorella di un neonazista locale e spacciatrice per sopravvivere. Sullo sfondo della città che abbiamo imparato a conoscere da adolescenti (appaiono lo Yaam, il Club der Visionaere, i parchi di Kreuzberg) si svolge la vita del giro di amicizie internazionali di Cipriani, mentre in una Berlino inedita nella coscienza collettiva si racconta il proletariato tedesco. Il romanzo ha una struttura lineare, anche se mischia stilemi puramente narrativi a un approccio reportagistico che si fa più forte ogni volta che la narrazione si allontana dal centro di Berlino. Monfregola è infatti anche giornalista freelance specializzato in Germania, politica e geopolitica per Eastwest, Aspenia e il Tascabile e Rivista Studio.
Abbiamo incontrato l’autore per farci raccontare meglio la gestazione e la ricezione del suo romanzo d’esordio.
Per iniziare, raccontaci un po’ di te. Sei italo-tedesco, giusto?
Sono nato a Firenze. Poi è stato un via vai intenso tra Firenze, la Germania e la Liguria. Mi sono stabilizzato verso i sei anni, alle elementari, in Liguria. Ho tantissimi ricordi di quel periodo. Poi la nostra era una famiglia strana, mio padre era italiano ma emigrato in Francia da bambino, mentre mia madre tedesca. Ora vivo principalmente a Berlino, ma faccio un po’ la spola con l’Italia.
Queste origini miste emergono anche nella prosa con cui hai scritto il libro, che è piena di calchi, interpolazioni e prestiti dal tedesco, dall’inglese, dallo spagnolo. Come hai affrontato l’uso della lingua negli Annegati?
Mi interessava capire se si può fare letteratura in una lingua imbastardita. Se potevo riuscirci io e se fosse possibile in assoluto. Molte persone che vivono a Berlino mi hanno detto “esprime la lingua di Berlino per come suona nella realtà” e ne vado molto orgoglioso. Un mio amico dice sempre che a Berlino sei abituato a capire solo il 70% di quello che ti viene detto. Ed è anche la cosa che fa di Berlino davvero una città aperta, una città che ha l’apertura per accettare di non capirsi. Avrei voluto metterci addirittura più tedesco, per far aderire il romanzo ancora di più alla realtà, ma alla fine rischiava di diventare troppo oscuro per un pubblico italiano. Quindi in fase di editing abbiamo stralciato un po’ di parti in tedesco. Per il resto, tra l’altro, la stesura e il processo di editing sono filati molto lisci.
Quali sono le comunità e le sottoculture che hai frequentato di più nei tuoi anni a Berlino?
La cultura di strada a cui mi sono avvicinato di più è quella del proletariato bianco tedesco. Che è anche quella meno raccontata. È una dimensione che ho avuto occasione di approfondire soprattutto grazie alla mia attività giornalistica. Poi, come sappiamo, a Berlino c’è davvero di tutto: c’è una forte comunità turca, una forte comunità libanese, i più recenti rifugiati siriani. Berlino è una città di convivenza ed è una convivenza che regge ancora benissimo. Poi sotto questa coperta di tolleranza (tolleranza reale, beninteso) anche a Berlino capita che il locale esclusivo di Friedrichshain ti rimbalzi all’ingresso perché sei nero invece che bianco o perché non aderisci ai codici della sottocultura che frequenta quel locale. Però Berlino è davvero sempre stata tollerante, lo era anche nel 1920. E questa è la cosa meno sassone e meno prussiana che si possa immaginare. Quest’eccezionalità secondo me nasce dall’assenza di una borghesia cittadina. Non esiste un gruppo che possa rivendicare il dominio sulla città. Anche il quartiere governativo, alla fine, è solo un quartiere di ospiti. Pochissime persone in città hanno legami familiari fatta eccezione per i veri berlinesi o per i membri delle comunità turca e libanese. Tutto questo però sta cambiando, sta finendo. C’è il colpo di spugna della pandemia, che si è rivelata un’occasione di gentrificazione. E lo vedi proprio che stanno preparando la città a diventare la sede della nuova borghesia europea.
Mentre scrivevi non eri spaventato dal rischio di cadere nei mille luoghi comuni sulla città? Di rimanere ingabbiato in uno stereotipo, di rimanere scottato dalla sovraesposizione che la vita berlinese ha avuto negli ultimi anni?
Volevo sfatare, almeno parzialmente, il mito di Berlino come città del divertimento e basta. Con la pandemia tantissime persone si sono rese conto che, tranne quando vanno a ballare, sono sole. C’è tantissima solitudine in questa città. Quasi nessuno ha dei legami familiari, moltissime persone vivono sole, al massimo in coppia e tutta questa mancata socialità familiare si recupera solo uscendo sempre. Poi, era inevitabile che venisse preso come un libro sugli expat. Io mi ero immaginato un libro su una generazione intera invece. A me interessa qualcosa di molto più compiuto dell’expat, mi interessa lo sradicamento. Un fenomeno non solo italiano, ma globale. La mia è una generazione troppo inquieta (e probabilmente troppo povera) per godersi il cosmopolitismo che ci offre l’Unione europea. Il personaggio di Arthur Cipriani è l’incarnazione dello sradicamento ed è proprio lo sradicamento il punto di contatto tra lui e Kimiko. Questa demolizione del mito della generazione Erasmus non è stata presa bene da tutti. Tante persone della mia generazione, persone un po’ liberal, si sono sentite offese dalla rappresentazione di una generazione di sradicati.
A cui però non sono dispiaciute le scene di sesso al Müggelsee.
Mi interessava molto raccontare i molteplici aspetti di questa liberazione sessuale istituzionalizzata, la borghesia del sesso. Nelle scene vediamo servizio d’ordine interno, le regole, la trasposizione della pornografia nel reale ovvero chi viene prima è lo sconfitto. Il mio è un libro sulla violenza e la sessualità e mi interessava intersecarle. Poi le parti sulla violenza le hanno lette tutti, ma nessuno mi ha mai chiesto nulla. Invece nel sesso, vediamo una sorta di catena di montaggio in cui tutti hanno un loro ruolo, ma tutti sono alienati da quello che stanno facendo. Anche l’atto stesso è descritto meccanicamente, un altro modo di scopare tipicamente “pornografico”.
Come hai costruito i due personaggi principali: Arthur Cipriani e Kimiko?
Arthur Cipriani è un personaggio che ho voluto costruire in maniera un po’ nebulosa. Non si capisce bene da dove venga né chi sia. Non ha parenti, non ha famiglia, non si sa da dove viene. E cosa c’è di meno italiano di uno che non tiene famiglia? Invece Kimiko è stata costruita in maniera totalmente opposta: si è spostata una sola volta dal suo quartiere e il quartiere per lei è un luogo precisamente definito. È la tipica ragazza sola che cerca di tirare avanti nel contesto del white trash tedesco. Ed è lo stato sociale il nucleo del white trash in Germania, ovvero i veri poveri sono quelli che vivono di sussidi. Essere gli unici a non farcela in una città dove tutti ce la fanno è molto frustrante. Essere in un paese ricco non aiuta a superare la sensazione di fallimento. Alla fine, e in Italia può quasi sembrare paradossale, gli unici sconfitti in Germania sono le persone che vivono di sussidi.
Lavorando dalla Germania, come ti sei trovato nell’editoria italiana?
In Italia ci sono pochi soldi. Ci sono tante parrocchie che si fanno la guerra. Io del mondo culturale italiano non sapevo nulla prima di pubblicare sul Saggiatore. Sapevo solo che Il Saggiatore è un buon editore e che mi potevo fidare. Per il resto la maggior parte delle dinamiche editoriali mi sono parzialmente o totalmente sconosciute. Nel mio piccolo mi sono trovato bene, anche se ho capito di essere molto ingenuo su tante cose. In ogni caso, il mio è l’esordio di un totale outsider.