Architetto e museografo, 43 anni, diversi allestimenti alla Triennale, progetti a Milano e non solo e un anno fa il Milano Design Award del Fuorisalone per il Museo della Merda: Luca Cipelletti, creativo, amante dell’arte in senso stretto, innamorato di Milano, entusiasta tessitore di relazioni, dialoghi e nuove idee sulla città. Quest’anno nel suo studio ampliato e rinnovato inaugura il 27 marzo una mostra di David Tremlett, Someone Has Done Something On The Wall, che mette in questione il rapporto tra arte, architettura e decorazione
Zero – Quando hai capito che saresti diventato un architetto?
Luca Cipelletti – Ho sempre voluto fare l’architetto, fin da bambino! Passavo il fine settimana chiuso in una stanza a costruire la mia città: edifici, viali, scenari. Un gioco molto serio: iniziavo il sabato mattina e la domenica sera smontavo tutto.
Tu sei orgogliosamente milanese.
Milanese fino all’osso: ho otto bisnonni meneghini e anche una mia visione del perché Milano oggi è un luogo straordinario per vivere e lavorare e perché non lo è stato prima.
Quali sono i tuoi primi ricordi della città?
Senza dubbio i marciapiedi. Un po’ più avanti, quel misto tra punk ed eroina che per un ragazzino come me, che veniva da un ambiente borghese, era davvero scioccante. Alla fine degli anni 70 Milano era una città soffocata, con una grande diversità sociale e una classe dirigente che la teneva ferma, immobile, protetta.
Perché non te ne sei andato?
Prima perché ero piccolo, poi perché ho cominciato a lavorarci. In ogni caso, ho passato tanto tempo in giro per il mondo, soprattutto a Londra e Parigi ma sempre tenendo un piede a Milano. Sono stato a Barcellona da studente e ho continuato a passarci molto tempo negli anni 90, un momento di grande fermento per la nuova architettura e poi per la musica con Primavera Sound e il Sònar. Ci ho passato giorni esaltanti con Nicola Guiducci: facevo di tutto per convincerlo a passare un weekend a Barcellona. Poi sono stato molto a New York.
Che cosa hai fatto a New York?
Sono stato consulente delle Nazioni Unite, grazie a Marina Ponti che mi coinvolse per l’allestimento di una mostra sulla Marcia per la Pace Perugia-Assisi. È stata l’occasione di lavorare su nuove modalità di esporre dei messaggi: non c’erano oggetti. Doveva essere una mostra effimera, invece andò ben oltre: diventò itinerante, si moltiplicò e continua a girare.
Parli sempre della musica come un fil rouge della tua creatività.
Sono cresciuto con un’educazione musicale classica ma mi è sempre piaciuto mescolare. Per alcuni anni ho lavorato anche alla Scala. Nella mia serata ideale, ci sono in successione la Passione secondo Matteo, un concerto dei Cure e poi al Plastic a ballare fino a notte fonda, magari con Robert Smith in sala.
Cosa ci dici del Plastic di quegli anni?
Nicola Guiducci ha creato un posto fantastico: i quegli anni il Plastic ha fatto terra bruciata di tutti gli altri posti in città. Un angolo di libertà, di tolleranza, di eccessi. Un concentrato di gente straordinaria in cui erano tutti diversi, dove c’era chi la moda la faceva. Grazie a Nicola e alla sua ricerca musicale, c’era un’idea di stratificazione e di sguardi sul passato, tra musiche e generi diversi. Alla fine, a pensarci bene, è un po’ come l’architettura e il mio approccio alle cose. Non è un caso se ci ho lavorato e ne sono molto orgoglioso.
Di che cosa ti sei occupato al Plastic?
Attorno alla metà degli anni 90 abbiamo lavorato al corridoio d’ingresso. Un grande gioco. Un asse. Magico. Chi non riusciva a entrare non capiva cosa succedesse dentro. Poi c’era la sala del juke-box, quello è sempre stato il regno di Nicola e dei suoi riferimenti: i lampadari e la scritta “Le cubisme n’est pas le parallelisme”. Facemmo una grande parete di blocchi in vetrocemento per quello che sarebbe diventato lo spazio House of Bordello e la consolle l’abbiamo spostata per liberare un palco e poter fare i concerti. Contribuire a quel luogo e poi trovarsi con Nicola che metteva i dischi per Bjork o Mike Stype. Eppure, sembrava tutto così normale.
Andavi anche in altri locali?
Si andava anche al Rainbow Club e allo Shelter Gothic Club a Colturano. Serate molto gotiche, appunto. Ero l’unico in sala a non avere le lenti a contatto bianche.
Che cosa hai studiato?
Al liceo ero davvero pessimo. All’università invece ho incontrato Marco Albini ed è scattato l’amore per la museografia, gli allestimenti, le mostre. Andavo in studio e si respirava ancora l’atmosfera dei tempi di Franco Albini e Franca Helg: una cultura di progetto che in Italia ormai si è persa.
Quando hai pensato, per la prima volta: “Questo progetto mi rappresenta”?
Fin da subito: dopo la laurea ho aperto il mio studio e ho iniziato a lavorare a progetti di allestimento. Alla Triennale, ho fatto tante cose. Nel 2004 ho allestito due mostre in contemporanea: Sironi e quella sulle Città Metafisiche, con le foto di Donata Pizzi. Due mostre interessanti, per lo sguardo nuovo sulle colonie fasciste e sui codici dell’arte e dell’architettura di regime. Finalmente una lettura non politica. Per Sironi lavorai sulla prospettiva: un taglio sulla parete iniziale mostrava in fondo una scultura di Sironi, come un cannocchiale. La scultura si ritrovava poi sola alla fine del percorso di mostra. Fu un momento per me molto importante anche perché conobbi Massimo Valsecchi.
Cosa ci racconti di Massimo Valsecchi?
Un grande collezionista, un uomo di cultura e, a pensarci bene, il mio vero maestro sulle relazioni tra arte e architettura. Massimo ha una visione singolare sull’architettura come stratificazione e un grande amore per l’arte vera, quella che non è un gioco effimero.
Avete fatto insieme una mostra alla Rotonda della Besana.
Era la mostra Tesoro della Statale sulle collezioni dell’Ateneo. Mario Bellini fece le vetrine interne e noi lavorammo sull’esterno. Massimo mi fece conoscere David Tremlett col quale ho fatto in seguito altri sette progetti. Imparare a lavorare con gli artisti è stato un passaggio fondamentale.
Mi fai qualche esempio completo?
Di aneddoti ne avrei mille. Il rapporto tra artista e architetto è sempre stato singolare. Lavorare con un artista significa fare un passo indietro. Ogni volta è una storia diversa. Serve una comprensione profonda: con l’artista si deve lavorare fin dal primo giorno, quanto il foglio è ancora bianco. Dobbiamo prendere esempio da Rinascimento, il momento più alto della storia della storia Europea, quando arte e architettura collaboravano fin dall’inizio del processo creativo.
Perché avete deciso di fare un progetto a Portofino?
Una grande occasione venuta grazie a Niasca, un’azienda agricola che lavora per recuperare il Monte di Portofino. Un invito a volgere lo sguardo dalla parte opposta del mare, verso monte, dove la natura ha creato un microclima e luoghi d’incredibile bellezza. C’era un edificio da recuperare, un vecchio fondaco, con l’idea di farci un frantoio, la sede dell’azienda, un’area espositiva, e abbiamo affrontato il grande tema dell’evoluzione della facciata ligure, anticamente dipinta come soluzione creativa di un’architettura povera. Nella sua evoluzione, la facciata ha assunto in epoca barocca esiti davvero geniali, lavorando sul falso e arrivando agli estremi del gusto. Insieme a David Tremlett abbiamo lavorato su quella tradizione, partendo dalle cornici delle finestre e dalle linee marcapiano, per costruire una relazione dinamica tra pareti esterne e spazi interni, anche grazie alle luci realizzate in collaborazione con Alberto Pasetti Bombardella.
Stai facendo anche un progetto con Anne e Patrick Poirier.
Il Giardino di Hypnos è un progetto interminabile, per il cimitero di Gorgonzola, con l’idea di costruire una necropoli contemporanea che in realtà è un grande giardino. I cimiteri sono stati sempre figli delle normative: banali rettangoli fatti di blocchi. Una griglia rigida. Questo progetto vuole invece recuperare il rapporto tra vivi e morti e tra morti e morti e il rapporto con la natura e con gli alberi, e allora ecco che il cimitero assume la forma di una foglia di quercia in cui i capillari segnano i percorsi. Un approccio multiconfessionale, con l’approdo a un edificio che sarà una barca rovesciata di mosaico blu, con un ingresso triangolare: un luogo fortemente simbolico e di raccoglimento. È un progetto infinito che si scontra con i tempi italiani e le burocrazie. Riprendiamo di tanto in tanto e lo portiamo avanti. Anche questa è stratificazione
Al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano il processo è simile…
Sono dieci anni di collaborazione, ormai. Abbiamo completato le Cavallerizze e stiamo ora realizzando la distribuzione negli spazi. Il cemento graffiato, che può sembrare un intervento brutalista, valorizza in realtà le tracce del passato. Abbiamo ripulito gli edifici da una stratificazione sbagliata: stiamo progressivamente rinnovando e ampliando un museo da 50.000 m2, che già oggi accoglie 500.000 visitatori. Tra qualche anno sarà un posto unico a Milano, un parco tecnologico segnato da un asse storico valorizzato da un nuovo ingresso su via Olona, che sarà dalla parte opposta rispetto all’entrata attuale. Un grande cannocchiale che riprenderà in modo più filologico l’impostazione monastica.
Perché sei così legato a questo progetto?
Ne vado orgoglioso anche perché è stato fatto con pochi soldi e questo, per un architetto della nostra generazione, è un obbligo morale soprattutto quando si ha a che fare con il patrimonio storico e la necessità di salvare ed evidenziare le stratificazioni del passato. Il riferimento ad Albini e Scarpa è evidente: il loro lavoro non può essere dimenticato. Il Museo della Scienza e della Tecnologia ora ha cambiato marcia e diventerà, secondo me, il luogo di aggregazione più importante a Milano.
Parliamo finalmente del Museo della Merda?
Un progetto di collaborazione tra architettura, arte e industria. Tutto merito di Gianantonio Locatelli, imprenditore agricolo molto speciale, appassionato di arte concettuale degli anni Settanta, soprattutto quando riguarda il tema uomo, arte e natura. Una sorta di antropologo visionario, che abita a Castelbosco, nel piacentino. Visitare la sua azienda mi ha lasciato esterrefatto: allevamento bovino per la produzione di latte per il Grana Padano, produce ogni giorno 1.000 tonnellate di sterco, utilizzato in un impianto di digestione per la produzione di gas metano. Grazie a Gaspare Luigi Marcone, che ha fatto una ricerca storica sull’utilizzo della merda nei secoli, abbiamo lavorato prima sull’azienda e poi su un museo che valorizza la parte secca dello sterco. Ivan Maria Vele e il team di Boiler ci hanno aiutato a trovare linguaggio giusto e così abbiamo aperto il Museo della Merda che dopo un anno produce anche oggetti di design basati sulla forza espressiva della semplicità più funzionale.
Chi sono gli amici di Luca Cipelletti?
Massimo Torrigiani, maestro di vita: anche lui intende lavoro e giorni come una cosa unica. Non riusciamo mai a staccarci dalla nostra conversazione, continua e profonda. Paola Clerico, anche lei poco definibile: non è solo una curatrice, ma per me una persona che mi aiuta in continuazione a smontare e rimontare idee e progetti. Arthur Arbesser, col quale abbiamo proprio fatto dei progetti legati alla conversazione: oggi la moda è davvero poco interessante ma con lui abbiamo dimostrato che c’è ancora qualcosa da dire. Gentucca Bini, con lei abbiamo fatto una collezione al contrario: è stata lei a chiederci le nostre esigenze per costruire una serie di tute da lavoro e ci ha costruito una linea intera. Roberto Coda Zabetta, artista che attraverso la nostra collaborazione per il Museo ora dipinge anche con la merda. Flavio del Monte, bravissimo nell’intessere rapporti tra artisti e musei. La sua compagna Maria Cristina Didero, davvero brava e radicale nello scoprire giovani talenti nel mondo del design contemporaneo. Alan Prada, che per me è un esempio unico di comunicazione della moda fatta in modo informato e per nulla capriccioso: tutto contenuto e grande educazione. Ovviamente Pino Pipoli, sempre nel mio cuore: sempre estremo, è quello che mi piace di lui, ma con un grande trasporto concettuale, come ha dimostrato la sua mostra alla Marsèlleria. Un meraviglioso e visionario performer! Infine Ilaria Bonacossa, l’unica altra milanese vera del mio gruppo di amici: fantastica la sua mostra sul Superstudio al PAC, con un’architettura raffinatissima e ispirata dagli artisti in mostra ma in dialogo costante con l’architettura di Ignazio Gardella.
Dove vai la sera a divertirti?
Mi piace il Bar Basso. Sembra banale ma sono pochissimi i posti così intrisi della cultura di progetto e questa è una grande piaga, perché oggi non c’è quasi più. A Maurizio Stocchetto va un grande merito, legato al Salone del Mobile e alla creazione di un luogo d’incontro unico, anche grazie al compianto James Irvine, un posto senza tempo: al Basso c’è uno spessore di pubblico che stupisce sempre.
Che cosa bevi?
Oltre al solito Negroni Sbagliato, mi piace bere ottimi Gin Tonic e poi mi piace un sacco lo Skiwasser, fantastico soprattutto se è servito da Giorgio e sono ancora più felice quando ha tempo per fermarsi un attimo a parlare e allora mi mette a posto con il resto del mondo.
Dove vai a cena?
Mi piacciono i luoghi classici: la Torre di Pisa, la Trattoria Milanese, insomma i vecchi ristoranti con i camerieri che hanno le mani rovinate e la giacca bianca, magari lisa e con qualche macchia. Ecco, quelli sono in luoghi di cui non vorrei mai veder chiudere. Comunque devo dirti che mi piace anche entrare in un ristorante o in un bar per la prima volta, alla cieca, senza saperne nulla. D’altra parte, in generale, Milano è ancora un luogo dove puoi aprire una porta e trovare qualcosa di straordinario. Dobbiamo finirla con la storia della Milano brutta: qui c’è la più bella architettura del Novecento al mondo.
Perché Milano sta vivendo un momento così meraviglioso?
L’architettura. Finalmente apprezzata per quella che è: meravigliosa. Ciò che è sempre stato definito grigio, in realtà è una spinta avanguardista che solo Milano ha espresso in senso compiuto. La città poi ha una posizione geografica perfetta, radiali e cerchi con le Alpi come circonferenza estrema. Poi c’è il tema delle distanze: se stai a Los Angeles, per vedere una bella mostra ci metti due ore di macchina, qui arrivo in bicicletta in dieci minuti. In due ore arrivi al mare, in montagna o in un’altra capitale europea.
Milano, città ideale per viaggiare?
Per il modo che ho di vivere, io non ho bisogno di vivere in una metropoli. Mi piace piuttosto l’idea di raggiungerla con un volo, anche breve. Milano poi è perfetta per la qualità della vita e negli ultimi anni è diventata una città migliore, prima e nonostante Expo.
Che cosa manca alla città?
Per cominciare, a Milano non manca un Museo Civico di Arte Contemporanea: farlo ora sarebbe anacronistico. I privati qui hanno sbaragliato il campo. Pensa a Trussardi o alla Fondazione Prada e a quanto la parte pubblica continua a essere in ritardo, mi riferisco anche alle grandi mostre, nonostante i successi di pubblico. In modo più evidente, manca una vera scena musicale: non c’è una scena contemporanea significativa, parlo della creazione ma anche della fruizione.
Quali sono gli angoli della città che ami particolarmente?
Il retro di piazza San Simpliciano e poi Piazza della Repubblica, che adoro più di ogni altra. Ce ne sono altre milleduecentonovantasei e diventa davvero impossibile elencarle tutte, perché questa è una città fatta di angoli meravigliosi, che si succedono uno dopo l’altro.
Chi è il tuo vero eroe?
Luigi Zoja, perché mi ha spiegato moltissimo sulla vita: i suoi libri sono una delle cose più importanti che io conosca, dalla paranoia alla sua lucidissima visione antropologica.
Qual è il sogno del cassetto di Luca Cipelletti?
Costruire un grattacielo, oppure più semplicemente un edificio piuttosto alto, diciamo almeno di dieci piani, che non sia di vetro: solido, materico, architettonico. Un progetto non semplice di questi tempi.
Che cosa fai stasera?
Probabilmente mi riposo: domani è una giornata importante, anzi sono due di fila. Oggi intervistato da Zero e domani dal New York Times!