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Luca Massimo Barbero

L'omaggio al genio di Burri, la nuova star Adrian Ghenie e il mestiere di curatore a Venezia, tra isole e terraferma.

Scritto da Redazione Venezia il 21 marzo 2019
Aggiornato il 1 aprile 2019

Luca Massimo Barbero

Foto di Matteo De Fina

Luogo di nascita

Torino

Luogo di residenza

Venezia

Attività

Curatore, Direttore

Uno storico dell’arte con due nomi mette sempre un po’ di soggezione. Tanto più se per raggiungere il suo studio si passano in rassegna il chiostro palladiano, la nuova manica lunga con migliaia di volumi a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo, la sala lettura di Baldassarre Longhena, il labirinto Borges. Sono alcuni dei luoghi incantevoli che l’ente da lui diretto custodisce. «La storia dell’arte è per tutti, non appartiene alle élite» chiarisce subito Luca Massimo Barbero. Poi ci mette in guardia: «La prima regola, con i miei ospiti a cena, di solito è che non si parla di Venezia». Per fortuna questa è un’intervista, di tanto in tanto c’è spazio per un bicchiere d’acqua, ci diamo del tu, e il direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini (dal 2013) non si risparmia nel raccontarci il suo punto di vista sulla città. Alle spalle un dipinto che raffigura San Marco, in agenda due mostre che offriranno al visitatore un tuffo nella contemporaneità. Dal 19 aprile la casa museo di Palazzo Cini ospita “The Battle Between Carnival and Fest” di Adrian Ghenie, dal 10 maggio un’ampia retrospettiva interamente dedicata ad Alberto Burri, maestro dell’arte povera, a San Giorgio. Partiamo proprio da qui.

    Burri: l’artista perfetto ai tempi della recessione?
«Quella dell’artista umbro è in realtà una povertà che si inventa. Siamo nell’Italia del dopoguerra, poverissima sotto un certo aspetto, ma ricchissima di ingegno. Nel caso di Burri non è solo la maestria compositiva, l’eleganza formale, ma soprattutto la capacità di inventare un nuovo modo di dipingere, che è il grande tema del momento. Burri non dipinge con la materia, ma genera una materia per creare l’opera. Così nascono le sue muffe, i catrami, i sacchi, i metalli, i gretti. Nei primissimi anni ‘50 inizia a dipingere col fuoco. Questa mostra parla di come la povertà di un’Italia dell’immediato dopo guerra sia al contempo ricca di inventiva».

    Cosa mette in luce questa mostra?
«Vedremo Burri non solo per i grandi risultati che ha ottenuto e che lo fanno diventare un grande maestro del ‘900, ma soprattutto per il suo affermarsi come uno dei più radicali rivoluzionari del modo di dipingere. Si tratta di una retrospettiva esaustiva, con importanti prestiti, che lavora su un doppio registro. Fondi antologici e accostamenti faranno apprezzare la costruzione del suo “testo pittorico”. Burri è anche un inventore, un alchimista: ha utilizzato il cellotex, che è un materiale povero, ottenendo capolavori. Lo accarezzava, lo spellava, creando effetti inattesi. Un quadro scorticato che invece di essere orribile è bellissimo, non sfigurerebbe di fianco a un capolavoro della pittura tattile come il “Supplizio di Marsia” di Tiziano».

     Ci piace definire San Giorgio come l’isola della cultura: come è possibile farla dialogare con il mondo contemporaneo?
«Burri quest’anno giunge a Venezia a coronamento di tutte le celebrazioni internazionali che si sono svolte in America, Germania e Cina, ma è anche qui per ribadire una sorta di continuità con il tema del “classico contemporaneo”. Proprio per l’apertura dell’istituto di storia dell’arte, si fece un convegno radunando tutti i grandi critici internazionali sul tema dell’astrazione e della figurazione, erano i primi anni ‘50. Da allora la Fondazione Cini ha sempre avuto queste carotature all’interno del ventesimo secolo, i disegni di Fontana, Boetti in omaggio all’arte povera, nel senso più vero del termine».

    Per arrivare a Ghenie…
«Assolutamente! Ghenie è il bilanciamento giusto: rappresenta anche una sfida perché si tratta di uno degli artisti più interessanti in ambito europeo, le cui quotazioni sono recentemente schizzate alle stelle, ed ha accettato di cimentarsi con un progetto dedicato espressamente a Venezia».

    La mostra di Palazzo Cini si intitola “The Battle between Carnival and Lent” (come un dipinto di Bruegel): anche Venezia è in lotta tra il Carnevale e la Quaresima? Tra il passato e il contemporaneo?
«Venezia ha una fisicità difficile e precaria. Ha creato il Carnevale per ovviare a una serie di limitazioni e nel corso della storia si è affermata come macchina di divertimento, di cultura e danaro. Grandi feste, tauromachie, processioni, musiche, teatri, casini: essendo una città di fiorenti iniziative commerciali ha creato luoghi e occasioni di svago per intrattenere e lucrare ancora di più sui danari dei suoi ospiti. Qui confluiva di tutto, da ogni parte del mondo: oggetti preziosi, spezie, opere d’arte, marmi antichi, ori, tessuti. La città regolava questi commerci in modo esatto, diceva ai nobili quanto potessero spendere affinché non sperperassero il loro patrimonio. Asciugando questo modello è diventata la città effettiva dove ci si abbeverava alle grandi novità della cultura, una città pienamente inserita nel ‘900: con le grandi prime di Stravinsky alla Fenice, il cinema, la biennale. Peggy Guggenheim dopo New York non sceglie Parigi, che diventerà la capitale dell’arte europea, ma sceglie Venezia».

    E adesso invece?
«Adesso non è più così perché il mondo delle arti è cambiato. Poi Venezia a differenza di altre capitali si è spesa perché inalterata (cosa tutt’altro che vera) ed è l’attualità che la sta museificando. Venezia torna ad essere “fontego” durante la biennale: in tali occasioni offre l’occasione di scoprire quanto c’è di meglio nel contemporaneo e nelle arti visive, a livello mondiale. Sono nate migliaia di biennali, ma solo Venezia resiste ed offre questo teatro delle arti con una sorprendente capacità di rigenerare il proprio dna. È la sua natura anfibia. Si veniva qui per le meraviglie delle spezie e dei prodotti, e si continua a venire per le mostre di istituzioni legate a grandi collezioni come Guggenheim, Pinaults, Prada, Wilmotte, la Vac, Thyssen».

    È il momento dei grandi classici delle interviste zero: perché Venezia?
«Perché è la mia città, sono arrivato qui a 17 anni e mezzo, e anche quando ho lavorato e studiato all’estero la mia casa è sempre stata qui».

    Colazione, pranzo e cena?
«Sono anfibio anch’io, in realtà vivo con un piede nella terraferma e uno a Venezia. La colazione, di solito, la faccio in un baretto al banchina dell’Azoto, il Molo 13. A pranzo non esco quasi mai, se posso per motivi logistici e di vicinanza a San Giorgio cerco di farlo in Giudecca, è un posto riparato e lo considero un nuovo piccolo baluardo della cultura. Per cena? Esco pochissimo e non amo sedermi a tavola. Fino a un po’ di tempo fa, prima che diventasse inflazionata e quasi impossibile mi piaceva la fondamenta della Misericordia, per il resto rimango ai grandi classici e vado abbastanza spesso all’Orient Experience. In una città invasa da bacari virtuali, considero sia più nella tradizione del melting pot veneziano e dei rapporti della città con le varie culture una situazione come quella dei ristoranti etnici fondati da Hamed Ahmadi»

    Perchè Marghera?
«Da presidente della Bevilacqua la Masa, alla fine degli anni ‘90, ho cercato di spiegare la potenzialità di quel contesto. Ancora oggi ho uno studio vicino alla torre iperboloide in banchina dell’Azoto, sono tra i fondatori degl studi di Pila 40 e ho altri progetti in cantiere. Ma per rilanciare quel contesto così vitale e ancora non regolato, non bastano le idee o le iniziative pionieristiche, altrimenti si entra in loop, servono anche i servizi, la mobilità».

    La rete con i suoi processi collettivi, diffusi e incrementali, ha distrutto il genio super-uomo e le sue opere più ambiziose?
«Quelli che hanno segnato il ‘900 sono personaggi che avevano un carattere e un ego giustificato da quello che producevano: era la loro dannazione che li rendeva eroi, erano pionieri in un mondo in cui pochissimi credevano. Per tornare a Burri, non va dimenticato che le sue opere provocarono anche interrogazioni parlamentari. Avvenne quando la Galleria Nazionale voleva comprargli un quadro. Burri, Fontana e i contemporanei spinti che non facevano realismo sono stati osteggiati fino all’ultimo: sono diventati eroi perché avevano una visione talmente forte da riuscire poi a imporla. Abbiamo questi giganti dai piedi di ferro e oggi dall’altra parte gli individualisti. Ognuno vuole essere famoso e non è più centrale il proprio pensiero. Oggi conta quanto è riprodotta la propria immagine, è un post warholianesimo e a forza di replicarsi negli specchi è ovvio che questi individui diventano talmente tanti e inutili, così virtuali che nessuno è veramente un ego. Diventano tanti wanna be».

    Replicanti. Accade anche alle opere d’arte, proprio Fondazione Cini sta digitalizzando il fondo della fototeca dell’Istituto di Storia dell’Arte.  Qui, inoltre, è custodita la celebre copia “com’era dov’era” delle Nozze di Cana del Veronese. Qual è la sua posizione a riguardo?
«Siamo entrati, anche troppo tardi, nella famosa era della riproducibilità tecnica e penso che, in un continuo tracimare di immagini, sia uno dei modi migliori per preservare alcune cose. Fermare in una copia un grande originale è da sempre un compito della storia dell’arte, così come studiare, approfondire, preservare, divulgare. Credo nella verità dell’originale: è insostituibile ed è giusto che viaggi per essere fruibile in diversi contesti. La visione dell’originale è un’esperienza unica. L’idea di poter disporre di una copia di eccelse qualità (come è il caso del “nostro” cenacolo), in absentia, è un fatto positivo».

    Cosa fa un curatore?
«Non mi considero un snob, anzi: la storia dell’arte in realtà è una cosa divertente, senza censo, può arrivare a tutti. Noi curatori, al di là delle considerazioni personali, dobbiamo proprio creare questi incontri tentanto di dare al meglio l’opera e l’autore con cui stiamo lavorando. Dare a tutti i livelli una possibilità di lettura, senza essere didattici ovviamente, come certi “eventi Blockbuster”, e senza rincorrere il nostro ego nel realizzare qualche cosa di assolutamente personale e gotico. In questo mondo di specialismi credo che le mostre siano per tutti. Apri gli occhi, respira e vai».