Luca Vitone torna a Milano e lo fa in grande stile, con Io, Luca Vitone, una mostra al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, che si fa in tre e arriva fino ai Chiostri di Sant’Eustorgio e al Museo del Novecento. L’occasione ideale per ripercorrere la sua carriera, un percorso di straordinaria coerenza passato ad indagare le diverse identità dei luoghi e delle culture a partire dal punto di vista du una dimensione personale, tra mappe e tradizioni, cibo e musica, profumi e monocromi, viaggi ed esperienze. Se al PAC troveremo una retrospettiva che, seguendo lo spazio espositivo, presenterà serie di opere e ricostruzioni di intere mostre e installazioni, nel complesso Museale dei Chiostri di Sant’Eustorgio il confronto sarà invece con uno luogo storicamente connotato mentre al Museo del Novecento sarà riallestita la storica mostra/installazione Wide City, una mappatura della Milano degli stranieri alla fine degli anni Novanta. Il tutto presentato in occasione della Tredicesima Giornata del Contemporaneo dedicata all’arte italiana: aspettando l’apertura, abbiamo parlato con l’artista della mostra, dei suoi progetti, dell’impossibilità di incontrare Emilio Prini e ovviamente dei ristoranti dove ama rifugiarsi.
ZERO: Da dove è nata questa mostra?
LUCA VITONE: La mostra nasce da un invito di Diego Sileo. Da lì abbiamo iniziato a ragionare sul progetto espositivo per il PAC coinvolgendo un altro curatore – Luca Lo Pinto -, poi abbiamo deciso cosa fare con il catalogo e scelto gli autori dei testi, Barbara Casavecchia e Jörg Heiser. Si è scelto di fare un lavoro quasi cronologico nella presentazione delle opere sul catalogo, che saranno accompagnate da delle testimonianze e da una conversazione tra me e Lo Pinto, e da qui è partita la mostra…
Presto però si è articolata su diverse sedi nella città di Milano.
In primavera Giovanni Iovane mi invita a fare una personale nel complesso Museale dei Chiostri di Sant’Eustorgio: ringraziando per l’invito, l’ho messo in contatto con Sileo e abbiamo deciso che la mostra si sarebbe estesa anche in questa nuova sede. Allo stesso tempo il Museo del Novecento, avendo nelle sue collezioni la mia opera Wide City, che era stata acquisita circa quindici anni fa e mai esposta, ha deciso di cogliere questa opportunità: per la giornata del contemporaneo verrà quindi allestita negli spazi dell’Arengario. Così la mostra si è trovata ad essere su tre sedi!
Qual’è il progetto dietro la mostra? Cosa vedremo?
Il desiderio del PAC era quello di fare una mostra antologica: con Lo Pinto e Sileo abbiamo pensato di fare una sorta di mostra-involucro, partendo da un’opera degli esordi – quasi un archetipo – per arrivare a un lavoro inedito pensato appositamente per questa sede. All’interno di questo involucro ci saranno otto ambienti, ciascuno occupato da un’opera oppure da un progetto di mostra – ricostruita in una di queste sale – o da una serie di opere, come Corteggiamento (2002).
Gli spazi del Museo Diocesano e dei Chiostri di Sant’Eustorgio sono invece un caso molto diverso: spazi già allestiti, a cui noi possiamo solo appoggiarci, sia quelli museali che quelli dei chiostri. Lì abbiamo lavorato con opere più piccole, singole – abbiamo abbandonato l’idea di opera ambientale o di serie – da appendere a parete o posizionare nello spazio. Anche qui siamo partiti dagli inizi della mia carriera per arrivare a oggi.
Al Museo del Novecento ricostruiremo invece Wide City, l’idea di panorama con le 180 foto della città degli stranieri del 1998 e il modellino della torre Velasca, posizionata prima delle scale mobili che portano alla monumentale Sala Fontana.
Puoi raccontarci questo lavoro, Wide City, a quasi vent’anni dalla sua realizzazione?
Ho sempre molto piacere a rivedere quest’opera: per fortuna ha girato parecchio, e ogni volta che la devo installare la riguardo con curiosità. Wide City è dedicata alla città di Milano ed è stata nel 1998 la mia prima personale in uno spazio pubblico: l’idea era quella di realizzare un’opera totale, in cui tutti gli elementi che ci circondano possono essere coinvolti all’interno del progetto. È stata una mostra molto complessa, seguita poi l’anno successivo dalla pubblicazione di un libro con le testimonianze delle persone che hanno partecipato agli itinerari e con interventi di autori che si sono occupati di questi temi: la città degli stranieri, il confine… Da Stefano Boeri a Franco La Cecla fino a Carolyn Christov-Bakargiev. Questo progetto fotografa anche un momento della città: oggi si è evoluta, basta vedere nella mappa prodotta all’epoca l’elenco con i fast food, dove i Döner kebab sono un numero irrisorio rispetto a oggi e ne troviamo quasi uno per ogni via! così si è trasformata tutta Milano, ma quello era un momento importante. Poi c’era il curatore, Roberto Pinto, anche se era un mio progetto in cui la curatela è stata principalmente la sua intuizione, quando gliene parlai due anni prima, di sposare la causa e portarla avanti fino alla produzione. Anche perché l’Open Space ospitava allora solo mostre collettive: in questo caso, visto che il mio lavoro si rapportava con la città in maniera ampia, hanno fatto un’eccezione.
Passiamo dal passato al futuro. Cosa farai dopo questa mostra milanese?
Proprio a ridosso parteciperò a una collettiva al Quirinale a Roma, la settimana successiva, a cura di Anna Mattirolo, Da io a noi: la città senza confini, con diversi nomi importanti della nostra contemporaneità; poi a gennaio una personale a Bruxelles con un progetto nuovo nella galleria di Michel Rein e a seguire mostre da Galerie Nagel Draxler, Pinksummer, Fondazione Zimei…
Hai anche pubblicato da poco un libro, Effemeride Prini.
E ne sono molto contento! Anche il pubblico poi sembra apprezzarlo… Il progetto è nato nel 2008, durante la mia residenza all’Accademia Americana di Roma. Avrei voluto fare una conversazione con Emilio Prini, ma non è mai andata in porto. Trovandomi nell’impasse che seguiva un progetto fallito, ho pensato di girare il libro sull’impossibilità di fare questo libro. Quello che oggi potete leggere è il risultato, realizzato grazie a Giuseppe Garrera e all’editore Quodlibet.
Tu, genovese, oggi vivi a Berlino ma lavori ancora a Milano. Hai un ristorante dove ti rifugi in città?
Il mio ristorante preferito, in cui entro con piacere e mi siedo con un desiderio di convivialità, è la Trattoria del Pescatore in via Vannucci, gestito da Giuliano insieme a una sorta di “famiglia” di persone che non sono in realtà parenti. Io mi trovo bene, e ci vado dai primi anni Novanta: è il posto che ho frequentato di più, in cui sono tornato più spesso, già con la galleria di Emi Fontana eravamo tante volte a cena lì, e poi ci vado continuamente da vent’anni con un caro amico, Marco Mazzucconi.
E a Genova?
A Genova purtroppo non c’è più! Era il Gran Gotto dei fratelli Bertora: uno di loro è un caro amico ormai da tanti anni, ed era un ottimo ristorante dove tornavo sempre con piacere. Ero arrivato anche a cenare con loro alle sei del pomeriggio, una volta che ero passato a salutarli prima di partire con una valigia. Oggi ci sono tanti posti belli a Genova, ma io non ho più un mio posto di riferimento. L’importante per me è l’atmosfera: alla Trattoria del Pescatore ad esempio i primi tavolini sono quelli che non vengono mai dati a nessuno, i posti di emergenza in cui si siede l’amico che arriva all’ultimo.