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Marco Ceroni

Booster, dorature, auto bruciate, maschere zoomorfe: è la dimensione straniante e turbolenta della periferia.

quartiere NoLo

Scritto da Piergiorgio Caserini il 11 marzo 2021
Aggiornato il 12 marzo 2021

Foto di Stefano Maniero

Voi che di certo siete stati a Biennolo ricorderete sicuramente quel momento, alla sera, dove delle luci giallastre accompagnate da sgasate roboanti entrarono nel capannone e si misero ad accerchiare un palo piantato nel bel mezzo di un buio pastoso. L’immagine di quella figura femminile e lucida che danzava attorcigliandosi mascherata come uno sciamano, come una belva zoomorfa in abs, probabilmente vi è rimasta addosso per un po’ di tempo. Eccola che risale, nitida. È la dimensione straniante della periferia: booster, dorature, auto bruciate, maschere zoomorfe. Insomma, se qualcuno per puro caso se lo stesse ancora chiedendo: è Marco Ceroni. E ci abbiamo fatto una chiacchierata.

Foto di Stefano Maniero
Strong Belief, 2016, stampa inkjet

Noi ci si conosce, ma il pubblico di Zero ha bisogno di sapere, sapere, sapere di più!, e allora parlagli del tuo lavoro.

La prima cosa che ti posso dire, è che il mio lavoro d’artista parte dall’esperienza. Da un mio personale background e da quello che ho vissuto. Dalla fascinazione per certi ambienti che ho frequentato come gli squat o il movimento rave, dalle storie che mi hanno accompagnato e dalle persone che ho incontrato, assieme alle mie referenze letterarie, cinematografiche e musicali, dalla fantascienza alla musica rap. Di certo non sono tra quelli che si mettono fermi a studiare e si arrovellano su cosa fare, perché è dalla vita che mi trovo davanti che esce pressoché tutto.

E infatti ricordo di una tua serie di opere con un dissuasore stradale, di qualche anno fa.

Esatto, l’opera è Moonwalk. Quel lavoro nasce da una foto, Strong Belief, in cui io mi ero accovacciato all’interno di un dissuasore. Vedendo quell’immagine mi sembrava di vedermi uscire da un piccolo portale monumentale. Uno stargate che se ne stava però in mezzo alla strada, alla portata di tutti. Per astrarlo dal contesto ne ho alterato il basamento con dei coni di marmo, così che ricollocandolo durante l’installazione riuscisse anche a mutare la percezione dello spazio intorno. Da lì ho fatto anche un altro lavoro sulla stessa forma ma tracciata con il neon, Wait for me. Mi piaceva che ovunque lo appoggiassi creasse una sorta di tana del Bianconiglio. Comunque ci sono tutta una serie di oggetti che diventano miei feticci, che ricorrono. Le auto bruciate, le carene dei motorini…

Insomma, la strada e l’urbanità come paesaggio e la fantascienza. Una reference letteraria?

Beh, sì, direi proprio che il paesaggio che accomuna è quello. Di base, poi ti direi James G. Ballard e Philip K. Dick. Il bello di questi autori è che non si tratta di fantascienza nei termini di futuri o mondi lontani, come Asimov per dire, ma di qualcosa sempre in bilico tra reale e verosimile.

Ehilà! Nervo scoperto: con Ballard mi si apre una voragine, sono un fanatico. È quella fantascienza, parole sue, che va “solo” cinque minuti nel futuro.

È quello che ritrovo nel lavoro, il bilico tra qualcosa che è reale ma poi non lo è, che ti sembra banale ma poi è soprannaturale, quotidiano ma poi è straordinario. Nei miei lavori cerco di innescare questo cortocircuito, dove non sai se stai andando nel passato, tra immagini archetipiche e primitive, o nel futuro.

Per farti un esempio su Ballard: Crash [Capolavoro per stomaci duri NdR] è stato importante per la performance a Biennolo, Pupa. Nella mia testa quell’opera sincretizzava l’incidente stradale come rituale metropolitano. C’era questo elemento urbano, di strada – che poi era un palo da pole dance –, che diventava un elemento totemico, quasi un menhir, sul quale la ballerina performer si scontrava e avviluppava attraverso i suoi movimenti. La maschera che indossava, una carena di scooter, la rendeva una figura in bilico tra una supereroina e un demone zoomorfo, fino ad apparire lei stessa come un’auto che si schianta. Insomma, sicuramente Crash mi è servito molto nel concepimento dell’opera. E forse può essere interessante per capire come prende vita una mia opera. Nel senso che adesso stiamo parlando di Ballard, ma lì dentro c’è anche un immaginario di strada, come le bande di ragazzini che girano in motorino. Ma anche una forte componente della scena rave: essendo dentro a un capannone abbandonato, dove non c’erano luci se non quelle dei motorini, mi ricordava appunto i momenti in cui si montava la festa negli edifici dismessi, con solo le luci di questi mezzi pazzi che popolavano un nuovo villaggio.

Stiamo parlando da uno schermo, tanto per dire ai lettori che non sei NoLo, ma sappiamo che ci hai vissuto, ci sei passato. Com’è NoLo visto da Faenza?

Eh sì, mi sono ritrasferito in Romagna. Stavo già qua durante il lockdown perché ero in residenza al Museo Carlo Zauli, per una produzione in ceramica. Meglio, perché a Milano la casa era di 17 metri quadri! E lì, a NoLo, ci sono stato dal 2018 a inizio 2020, anche se abitavo a Milano già dal 2012, vivendo per tanti anni nel quartiere che porto nel cuore: Corvetto. Sono stati due anni che mi hanno permesso di conoscer bene il quartiere, tra il mercato comunale, e la Carmen della Latteria che è davvero un pozzo di storie, tante persone mi hanno raccontato passato e futuro della zona. Avevo lo studio insieme ad Alessandro di Pietro e Natália Trejbalová in Marco Aurelio, mentre io vivevo in via Crespi, di fronte a Varisco, in quella che era conosciuta come la NoLo DDR. Dove ancora rimane tutta una rete di relazioni umane che non puoi togliere da un giorno all’altro. Tant’è che lì adesso c’è Anarres, amici di vecchia data che stimo e penso che siano un valore aggiunto per il quartiere.

Via Crespi, ma il quartiere in generale, è un territorio di confine: c’è un nuovo che avanza, se vogliamo con una certa arroganza, e un vecchio che sta cercando di reinterpretare la situazione e che a volte si ritrova anche sommerso dal cambiamento. Estraneo anche a casa sua. Certo, non è detto che un quartiere debba essere sempre uguale a sé stesso, ma penso che si debba avere rispetto per quello che è stato, per le persone che ci vivono e lo hanno vissuto. Non appoggio i processi di gentrificazione imposti dall’alto, ma mi rivedo nello sviluppo di nuove logiche comunitarie fondate sulla solidarietà, la condivisione e l’autogestione.

Insomma, la cultura di strada è un punto cardine della tua ricerca, e pare che i tuoi gusti si orientino verso zone per certi versi periferiche. NoLo ha rappresentato qualcosa rispetto alla tua ricerca?

Ma sai non specificatamente NoLo, più che altro la realtà di quartiere vissuto, in cui convivono tantissime comunità e contraddizioni che attraversando il paesaggio ne cambiano le forme. Tutte queste realtà, avendo attenzione e vivendole in prima persona, entrano inevitabilmente nel mio lavoro. Qui ci sono ancora zone di libertà che la gente si crea. Pensa alle tante etnie che popolano il parco Trotter e che vivono lo spazio pubblico, quello in parte si è perso. Questa per me è una delle cose più interessanti, dai i piccoli capannelli all’angolo della strada ogni settimana, alle partite di pallavolo proprio al parco… si tratta di zone che hanno delle potenzialità umane altissime, dove trovi la solidarietà di gruppo, che è una cosa importante per il futuro. Guardarsi intorno e capire cos’hai di fianco, capire che assieme si ha forza. Insomma, NoLo mi ha dato qualcosa perché è un quartiere ancora vivo, in cui non ha ancora vinto una narrazione unica ma piuttosto è un luogo in cui molte storie riescono a coesistere.