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Nina Bassoli

Il ruolo della ricerca e della critica tra architetture spontanee, architetture-evento e nuove liturgie

quartiere Sempione

Scritto da Francesco Agostini il 18 maggio 2023
Aggiornato il 14 giugno 2024

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Nina Bassoli è curatrice per Architettura, rigenerazione urbana e città in Triennale: tutti aspetti che non possono far altro che collimare in sguardi e pratiche che riguardano le persone. L’architettura è qui evento e comportamento, il paesaggio un effetto ottico e di pensiero che apre altri territori, l’istituzione la possibilità di una nuova liturgia. Partendo dalla sua madeleine nel territorio abruzzese, Nina Bassoli ci parla di occasioni, linguaggio, tempo e certamente di architettura. Ma non come la intendete voi.

«Tutto il lavoro di critica e tematizzazione di ciò che si vede contribuisce a creare nuovi paesaggi, e quindi nuovi pensieri e altre forme di immaginazione, che vanno ad alimentare altre maniere di pensare e fare architettura.»

 

Ti sei laureata a Milano al Politecnico nel 2010, l’anno dopo il terremoto dell’Aquila, tema sul quale hai sviluppato la tesi. Da lì è iniziata la tua densa esperienza nella disciplina. Ci racconti il tuo percorso?

In realtà io lavoravo già da alcuni anni alla rivista Lotus International e prima avevo lavorato ad Abitare, quindi si può dire che ho iniziato nel campo della editoria, nella cultura intorno al progetto di architettura. Questo prima di laurearmi. Poi la storia è stata divertente, perché una delle mie numerose coinquiline del periodo era andata a fare la volontaria con la Croce Rossa all’indomani del terremoto dell’Aquila, e non è mai tornata perché si innamorò di uno sfollato, un aquilano. Quando andai a trovarla mi fermai anch’io a fare la volontaria, e mentre ero lì, osservando la vita del campo e il centro storico disabitato, mi sono trovata sotto gli occhi tutte le attività spontanee che sorgevano, dai primi container-bar, alle prime attività improvvisate che mi hanno da subito interessato. Cosicché anch’io, che sarei dovuta rimanere qualche giorno, rimasi per diversi mesi. Insieme ci siamo messe a mappare queste attività e a ragionare su queste cose, scrivendoci poi la tesi di laurea.
Questi momenti di ricostruzione mi hanno fatto capire quanto e a cosa l’architettura serva. Il tentativo di mappare la spontaneità dei comportamenti delle persone, del come gli abitanti cristallizzano le relazioni, credo sia diventato il tema che col senno di poi lega alcuni lavori che ho fatto come ricercatrice così come il lavoro di curatela – mondi solo apparentemente distanti – che hanno in comune il potere dell’evento.

La tua figura è eclettica. Si approccia alla disciplina da architetto, da insegnante, da editrice e da curatrice. È una prospettiva completa. Qual è per te la differenza tra fare architettura e parlare di architettura?

C’è un problema di tempo: l’architettura è qualcosa che, anche se tutto nel nostro mondo sta cambiando sempre più rapidamente, può durare cinquanta, cento, duecento, trecento anni. Tempi da capogiro. Renzo Piano ci insegna che bisogna essere coscienti nel progettare un ponte, perché è una cosa che deve durare almeno mille anni – che vertigine. Parlare di architettura ha a che fare con il tempo ma in modo molto diverso, perché anche un libro attraversa la storia. Oggi leggiamo ancora l’Odissea e l’Eneide, ma le mostre o le riviste vivono molto più nel contemporaneo, e questa è una grande differenza. Nel parlare di architettura, la critica, in cui faccio rientrare anche le mostre, deve servire a preparare il contesto culturale affinché l’architettura possa nascere, possa fare.
Si tratta insomma di capire dove serve l’architettura. Tornando al tema dei terremoti, c’è stato un bellissimo padiglione del Giappone alla Biennale del 2012, curato da Toyo Ito, che narrava la crisi del terremoto nella penisola di Tōhoku nel 2011. Si intitolava Is architecture possible here?, e si interrogava su quale potesse essere un luogo per l’architettura. Proprio questo è il lavoro di mappatura che un critico o un curatore può fare. Dove serve l’architettura? Per chi? Con che cosa?

È curioso come la tua ricerca nel mondo dell’architettura sia contraddistinta più dal tema della distruzione e ciò che ne consegue che dalla costruzione in sé. Tu la definisci come discontinuità nello spazio e nel tempo, come momento dove la tabula rasa rende più evidenti territori e connessioni prima nascoste. Oggi che le catastrofi si fanno più emergenziali (e non sempre hanno natura geologica ma anche politica), cosa vedi?

La nostra è l’epoca dell’evento. Diciamo che il contemporaneo vive sicuramente molto nell’evento, che a me interessa perché è un momento e anche un luogo in cui si cristallizzano molte energie. Ecco, quest’energia è un elemento chiave per l’architettura come per la vita, la quale necessita poi dell’architettura stessa. L’evento va inteso come una simultaneità di tantissime energie sprigionate nello stesso istante. Ed è lì che l’architettura deve intercettare queste energie per trovare forme e risposte nuove. Capisco che c’è una forzatura, però ciò che sprigiona una catastrofe ha queste potenzialità di evento, e sono le stesse potenzialità che possiede anche una mostra: molte energie in una temporalità ridotta. Non voglio dire che siano paragonabili, ma questo è ciò che mi interessa dell’una e dell’altra.

Quando si parla di uomo e di natura si parla anche di paesaggio, questa lente antropica per guardare il mondo. Secondo te qual è il paesaggio di oggi? Dentro quale cornice l’uomo guarda il mondo e le città come Milano?

Il paesaggio è una nozione che mi interessa molto perché tiene insieme il reale, quello che c’è, e la percezione delle persone che lo guardano. Io sono interessata all’architettura del paesaggio ma dalla parte delle persone. È stato a partire dalla seconda metà del secolo scorso che questa nozione, anche attraverso i lavori di fotografi come Luigi Ghirri insieme a molti altri, ha aiutato a espandere il campo dell’architettura verso un’accezione più ampia del reale. Oggi sappiamo che il paesaggio non è soltanto un giardino ben disegnato, ma tutto ciò che vediamo e a cui siamo in grado di dare un nome, un senso, per riconoscerlo come tale. Quel che mi interessa qui è che tutto il lavoro di critica e tematizzazione di ciò che si vede contribuisce a creare nuovi paesaggi, e quindi nuovi pensieri e altre forme di immaginazione, che vanno ad alimentare altre maniere di pensare e fare architettura.
Anche qui a Milano ci sono infiniti paesaggi. Tra le altre cose, penso che questo lavoro di Hyperlocal che fate voi con Zero sia interessante proprio perché cerca di indagare delle condizioni esistenti sotto un nuovo nome, una nuova rappresentazione. Milano ha questa caratteristica che è una città della comunicazione, e il pericolo è che talvolta la rappresentazione sovrasta la realtà. È importante quindi tener presente l’altra faccia della nozione di paesaggio, legata a ciò che è dato, è lì ed è reale, attaccato alla terra, all’acqua, all’umidità, alla vegetazione e a tutto quello che esiste al di là di come noi lo possiamo raccontare. Questo vale anche per le persone: talvolta, infatti, possiamo immaginare un quartiere o una comunità come magari non è. Se invece quella comunità esiste è necessario rappresentarla. È sempre un cane che si morde la coda, elementi che si avviluppano a vicenda: ciò che viene trovato nudo, così com’è, e ciò che invece una rappresentazione alimenta nel formarsi di nuovi processi.

Da quando lavori in Triennale, l’istituzione ha cercato di rinnovarsi in questo paesaggio urbano. Mi viene da dire che con “Design the future” ci sia stata una particolare apertura a Milano, con una forza centripeta che la rende spazio pubblico e una centrifuga che si ramifica nella città. Cosa è cambiato?

La Triennale è un luogo fantastico. Quest’anno è il centenario, e se pensi a tutte le sperimentazioni che sono avvenute in questo luogo si capisce cosa intendevo prima quando parlavo di energie. Qui sono passate le sperimentazioni di tutti i Paesi del mondo durante le Esposizioni Triennali, che in un secolo sono state ventitré. Questi fatti rendono senza dubbio Triennale un accentratore di grandi energie, una forza centripeta, ma bisogna anche considerare la centrifuga che si infiltra nella città, dal momento che ultimi anni stiamo cercando di lavorare con Milano e con tutto ciò che qui si svolge. Stiamo cercando di andare al di là delle discipline singolari per parlare una lingua che è in ascolto, e lavorare fuori da Triennale è utile in questo senso, a metterci nostra volta in ascolto dei dintorni. Penso al lavoro che sto seguendo di Arch Week, che sarà e diffuso in tutta la città coinvolgendo anche luoghi meno centrali e cercando di amplificare le loro energie. Penso qui al lavoro di Umberto Angelini con il teatro, che per alcuni anni ha lavorato anche fuori da Triennale coinvolgendo non soltanto teatri ma tutto il territorio, tra cui i campi estivi delle scuole.

La scelta di spalancare le porte del palazzo dell’arte ad altre discipline oltre l’architettura e il design, è un processo di ricerca e informazione o c’è di più? Mi torna in mente il tema del tempo, della performance e così la musica, i concerti che spesso attivano la Triennale come forte spazio culturale ma anche sociale. È questo il ruolo estetico che la Triennale vuole avere nei prossimi anni?

In questi giorni abbiamo presentato l’opera Senza titolo di Romeo Castellucci nel salone d’onore, e potrei dirti che è stata anche una mostra di architettura. Questo è un tema molto forte: perché io che parlo di architettura mi trovo a invadere il campo del mio collega che fa teatro? Forse perché per parlare di spazio è necessario! E anche Castellucci, con la sua installazione, invade il mio spazio. La particolarità della Triennale è che è una grande kunsthalle, dove le arti si fondono e ragionano insieme. Pensando a tutto ciò che è accaduto nel salone della Triennale, da Lucio Fontana ad altre eclatanti sperimentazioni che si sono tenute in un secolo di mostre, questa cos’è? Un’opera d’arte? Ma è anche un’installazione, uno spazio, un’architettura, una performance, tutte cose si sono sempre intrecciate qui dentro. Penso che dall’intreccio e dal dialogo nascano le sperimentazioni e le idee, e se questa prassi è sempre stata fondamentale per noi oggi lo è forse ancora di più, dal momento che oltre alle prospettive classiche stiamo cercando di ibridare diversi linguaggi per diverse generazioni e diversi mondi culturali.

È interessante come questi momenti collettivi ricreano momenti di relazioni sociali orizzontali in cui si può ritrovare una qualche spiritualità, o perlomeno una ritualità nei territori che viviamo. Secondo te, quanto sono importanti nell’architettura?

È un tema che ci piace molto. Siamo una società che ha bisogno di ridefinire una ritualità nella quale si possa credere. Siamo una società impoverita di religiosità, ma abbiamo la sensazione che sia qualcosa che ci serve. Ci stiamo ragionando: abbiamo fatto degli incontri con un gruppo multidisciplinare insieme a psicologi cognitivisti ed è stato molto interessante. Potrebbe la Triennale diventare, tornando al vecchio tema del ruolo delle istituzioni culturali, una nuova “chiesa”? Secondo me no, perché non c’è una liturgia così codificata. Però c’è la possibilità di inventare delle liturgie e di negoziarle di volta in volta, di trasformarle e, quindi, di partecipare a nuovi riti. Questo lo noti da quanta gente partecipa a questi eventi, che a volte è molta di più di quanto ti aspetti. Penso perché ci sia bisogno di questo.

Come curatrice, oltre che a mappare ciò che è successo, hai anche la possibilità di intravedere, se non addirittura di indirizzare, ciò che avverrà. Dal punto di vista privilegiato della Triennale, cosa vedi nel panorama italiano dell’architettura?

Secondo me è l’architettura in Italia ha dei problemi che non voglio tacere. È importante far emergere che c’è una sorta di polarizzazione tra le cose che avvengono, in cui le differenze tendono ad acuirsi invece che diminuire. Da un lato vediamo l’emergere di pratiche giovani e molto attente ai territori, che fanno proposte innovative fantastiche. Penso al lavoro che vedremo nel padiglione italiano della Biennale di Architettura: tutto under 35, con una proposta culturale molto forte. Questo è un bellissimo segnale, che anche qui in Triennale accogliamo largamente con la promozione di studi giovani, o il Premio italiano di architettura, la mostra sulle 10 Architetture italiane. Anche la mostra che inaugurerò sulla casa, Home sweet home, riflette su questi aspetti. D’altra parte, non voglio nascondere il fatto che moltissima parte del costruito non trova qualità. È arduo cercare in autonomia di indirizzare dei processi, però penso sia una responsabilità che ci dobbiamo prendere. La critica non è una cosa semplice da fare in un’istituzione culturale, ma quello che può e deve fare è creare nuovo spazio affinché le cose che funzionano possano guadagnare terreno. Il tema lanciato quest’anno dalla campagna generale della Triennale “This Topic”, è proprio questo: il tentativo di creare attriti attraverso delle discussioni, degli interrogativi, con una presa di coscienza su sé stessi e con la consapevolezza di ciò che accade.