Chiunque nel 2018 provasse ad andare in giro per New York a bordo di un auto infuocata – ma anche solo a pattinare trascinato da una pseudo-vela coloratissima – sarebbe circondato nel giro di pochi minuti da decine di volanti della polizia e accusato di terrorismo. 40 anni fa, tempi che sembrano lontani come un’era geologica, le cose erano ben diverse e a bordo di quell’auto – o su quei pattini – avreste visto sfrecciare Paolo Buggiani, artista che si è trovato nel più classico dei “posti giusto al momento giusto”: in una città che aveva estremo bisogno di riconnettere l’arte con le persone, di riportarla dalle gallerie alla strada, e in cui questa necessità venne intercettata da artisti del calibro di Keith Haring, Richard Hambleton, Jenny Holzer e da tanti altri che contribuirono a far nascere quella che sarebbe passata alla storia come “street art”. Paolo, che ora risiede alle porte di Roma, sarà uno dei protagonisti dell’edizione 2018 di Outdoor – dal 14 aprile al 12 maggio al Mattatoio – intitolata Heritage: difficile trovare un’eredità spendibile per il futuro, che abbia al suo centro la scintilla che nasce dall’incontro tra arte e quell’entità turbolenta chiamata città, migliore di quella custodita nelle mani e nei ricordi di Paolo.
ZERO: Inizierei questa intervista partendo da un elemento che ha caratterizzato tantissime tue opere e che personalmente mi rapisce sempre: il fuoco. Da dove nasce la fascinazione per questo elemento e quando hai iniziato a concepirlo e applicarlo come uno “strumento” artistico?
Paolo Buggiani: Il fuoco è l’elemento che forma la materia dell’Universo, con miliardi di stelle e pianeti, un fuoco che regala vita alla Terra. Cercare di diventarne amico per riuscire a plasmarlo dentro immagini simboliche, dipingere con lui nello spazio usandolo come un colore vivo, fa parte delle mie ricerche. Ho cominciato nel 1972 con il primo tentativo di rimettere il sole nel cielo dopo il tramonto: con una palla di fuoco lanciata verso l’alto cercavo di creare simultaneamente i due tempi, prima e dopo il tramonto del sole.
C’è stato un episodio in cui hai rischiato e il fuoco da amico si stava trasformando in nemico?
Il fuoco è pericoloso, disubbidiente: si può imparare molto da questo. Se ci si vuole avvicinare bisogna imparare a rispettarlo, è una lezione di vita perché ti costringe a una totale attenzione: se non lo fai sei in pericolo.
All’opposto del fuoco c’è la neve e anche su di essa hai lasciato il tuo segno, non con sculture ma dipingendo. Puoi raccontar3 come sono nati i tuoi dipinti sulla neve e cosa significavano per te?
È Nel freddissimo inverno del 1979 che comincio a dipingere immagini simboliche sulla neve, comprese solo in seguito come gli inizi della New York Street Art. Alludo al passaggio del tempo mentre sulla neve dipingo una “primavera artificiale”, come “desiderio” che si completerà con lo sciogliersi della neve stessa e dell’immagine. È lo stesso con la piccola nave bloccata sul fiume Hudson: quando il freddo passerà la nave potrà ripartire e della sua immagine ne rimarrà forse il ricordo, il mistero del messaggio. Se tutto nell’Universo si decompone e scompare, è relativo se la pittura duri 10 secondi o 10.000 anni. In questo senso, l’arte “effimera” e quella più “duratura” si avvicinano: è il mistero del messaggio che supera la durata della materia che la contiene.
Che sensazioni dava realizzare opere d’arte nella New York degli anni 70/80 con il fuoco? La città era molto diversa da quella di oggi, molto più cruda. Ecco, mi chiedo se anche in quegli anni là il fuoco destava stupore ed emanava calore.
Non ho mai chiesto permessi. Certo, la cttà era molto più aperta: ora sono paralizzati dalle loro paure, ma in quel momento c’era più spazio per agire fuori dalle regole. Sopratutto, c’era una vera necessità alla base del gesto, quella di ribellarsi all’egemonia del mercato dell’arte. Una necessitaà che in questo momento storico, dove è proprio il mercato a gestire l’aspetto nostalgico della disubbidienza, sembra mancare. Vorrei comunque fosse chiaro che la mia disubbidienza non è un capriccio infantile, ma è una “ribellione fisica e simbolica” contro le continue restrizioni che ci limitano e anche la chiave di lettura che circoscrive le regole dentro la tradizione imposta da chi comanda. Tali sistemi, striscianti ma ricorrenti, riducono le naturali libertà umane in spazi chiusi, simili a cubi di cristallo, trasparenti alla vista, ma impenetrabili alla libera comunicazione. Se riuscissimo a saltare in quella che io chiamo la “realtà parallela”, attraversando con il pensiero il cristallo, potremmo essere e fare qualunque cosa, trasformando la “rivolta” in “libera creazione”. È nella mia più totale disobbedienza rispetto a leggi e restrizioni che il mio impulso creativo mi ha fornito la libertà di esprimere i miei desideri comunicativi…. Fino al punto di inginocchiarmi letteralmente davanti ai poliziotti, promettendo di essere più buono per evitare l’arresto: li lasciavo sbigottiti e confusi. Alcuni diventavano amici.
Cosa ti ha colpito di più la prima volta che sei sbarcato in quella città?
Il mio primo soggiorno a New York inizia nel ’62 e ci rimango fino al ’68. Arrivando dall’Europa, rimango immediatamente colpito da come il passato viene divorato senza rimpianti. il ritmo della vita, più veloce, mi cambia la percezione del tempo, che, dopo l’arrivo in questa metropoli, diviene una questione sempre più evidente nel mio lavoro. Le strade erano piene di sbarramenti, luci alternanti, frecce direzionali e divieti. Tutti elementi che vengono incorporati nei quadri di quel periodo. Inizio in quegli anni la mia ricerca sull’intuizione del tempo, con una serie di sculture dove l’impronta inscrive nello spazio una posizione\attimo, talvolta nella sequenza necessaria a un passo: tutto è contenuto in una scatola di plexy che, nella sua trasparenza, include il mondo che la circonda. Poi c’è l’inizio del “captured space”, lo spazio che contiene la “realtà parallela” entrata nel paesaggio dove la vita si trasforma. Una ricerca che continua dopo il ritorno in Italia nei “dipinti sulla realtà”, iniziati nel ’74 su un plexiglas interposto tra la Nikon e il soggetto, che muta lasciando la traccia pittorica. Ritorno a New York nel ’78 con lawearable art, dove la pittura esce dal quadro ed è indossata sul corpo in movimento.
È in questo momento che inizi a sfrecciare nel traffico con rotelle e vele. Qual è il tuo racconto di quei lavori?
Dopo il ritorno a New York nel ’78 comincio una serie sulla mitologia urbana. Vedevo la città come un moderno labirinto dove un Minotauro di fuoco insegue Arianna nel traffico, un Icaro sui pattini attraversa il ponte di Brooklyn in cerca di libertà, rettili meccanici affiorano dalla preistoria verso un futuro. La presenza e le apparizioni di certi simboli, oltre allo stupore, ricevevano un’approvazione immediata, come se dentro la gente si risvegliassero reminiscenze del passato che avevano diritto di riapparire nel presente. È la sovrapposizione dei molteplici tempi nello stesso spazio che mi permette di entrare in questa dimensione che io chiamo “realtà parallela”: portare questa possibilità nel quotidiano è il desiderio che mi ha messo sulla strada, dove può entrare chiunque ne sia incuriosito. Il laboratorio diventa la strada, l’arte e la vita inseparabili.
Com’era la New York degli anni 70, sia come città che come scena artistica? Qual è il tuo
ricordo?
In quel momento non ci dicevamo che stavamo facendo “street art”. Forse nell’aria era maturata la necessità di dialogare più chiaramente con la gente comune nella sua totalità. Ogni artista che cercava un contatto umano, fuori dalle gallerie, ha iniziato il suo percorso in luoghi diversi. Richard Hambleton cominciò con le sue ombre nere sui muri liberi, già scoperti da chi faceva graffiti, Ken Hiratsuka scolpiva sui marciapiedi, Keith Haring disegnava sulle carte nere dei manifesti scaduti della metro, Jenny Holzer attaccava i suoi manifesti a sfondo sociopolitico nella città, mentre io sui pattini mi trasformavo in apparizioni mitologiche dentro il traffico metropolitano. Questi sono alcuni pionieri di quella che in seguito venne chiamata “La New York Street Art” e ho voluto portarli con me alla mostra di Outdoor, come testimonianza fisica di questa Realtà.
Parliamo allora del lavoro che porterai ad Outdoor.
Ci sono tre immagini che parlano di tre diverse disubbidienze. L’attacco senza successo al World Trade Center è un gesto simbolico di irriverenza verso il potere economico che rappresentavano le Torri Gemelle in quel momento. Un impulso da Don Chisciotte appeso a una corda sopra il traffico della città. Lo scatto è del 1979. Ora accade spesso che le persone, vedendo questa foto, pensino sia una manipolazione digitale e devo spiegargli che non è così. La seconda foto è del 1981, con il Minotauro di fuoco che insegue Arianna su Houston Street. Quel giorno sono quasi stato arrestato, non solo per il fuoco, ma anche perché Arianna, da lontano, sembrava nuda. Nella terza foto, scattata da Roberto Bastianoni nel 1986, sono il Minotauro nel suo elemento di fuoco. Ogni tanto lo devo fare, non posso resistere, l’intervento pittorico sul plexy è del 2018.
Oltre al lavoro per Outdoor realizzerai a breve qualcos’altro qui a Roma?
Sì, questa estate mi piacerebbe organizzare una battaglia circense sul Tevere con le mie barche metamorfosate che ridicolizzano le vere armi della morte, nella speranza che queste vengano rottamate.