Paolo è un bovisaro della prim’ora, ma anche un viaggiatore. Appassionato di montagne, ghiacciai, con un certo tipo di scrittura che fa paesaggio, che lo cerca e si lascia guidare. Nel suo ultimo romanzo, “La felicità del lupo”, si parla dei rifugi al Monte Rosa, di una Valle d’Aosta camuffata, di come la città, Milano, si veda bene dalla cima delle montagne. L’intervista, ovviamente, la si è fatta passeggiando ed evocando anche i paesaggi letterari della Bovisa.
«Il paesaggio è una forma di scrittura. Per noi in Italia e in Europa soprattutto: perché non esiste un paesaggio vergine, non esiste la wilderness come in America.»
Sei un grande appassionato di montagna, la vivi. Hai questa scrittura che è una scrittura-paesaggio, estremamente attenta ai dettagli e alle sensazioni dell’intorno. Perciò viene spontaneo chiederti, per cominciare: quanto c’è di inventato nel romanzo?
Non c’è bisogno di inventare molto, se uno ha una vita abbastanza movimentata. Basta saperle raccontare. Sono andato in montagna tredici quattordici anni fa e da allora vivo lì sei mesi all’anno. Per me sono i posti dell’estate, torno tutti gli anni. I luoghi dell’infanzia, non sempre la stessa vallata ma sempre la valle d’Aosta, le valli del Monte Rosa. Secondo me anche questa cosa che dici del paesaggio, non ce lo si può inventare il paesaggio. In La felicità del lupo, è quasi un ritratto en plain air quello che ho scritto. Per me la montagna, quello che ho scritto, è tutto assolutamente reale. Le vicende, le storie, più che inventare le si mescolano l’una con l’altra.
Sono tutti posti che hai vissuto?
Sì, Fontanafredda è questo villaggio dove abito. Il rifugio sul monte Rosa lo conosco da quando sono piccolo. Vado in montagna con un quaderno, quando vado a camminare, ed è come fare delle fotografie o buttare giù degli schizzi. Non faccio foto per scelta proprio per fare il fotografo con le parole. Tutte e due le cose insieme non si possono fare. Cerco il paesaggio che ho intorno, e poi queste pagine vanno a finire nei racconti.
La tua è quasi una scrittura da viaggio. Mi viene da pensare ai viaggi di Celati, verso la foce del Po, a quella scrittura-paesaggio che si dà nel camminare. Magari ti ci ritrovi, ma qual è il rapporto tra le due? Viene prima l’esigenza del viaggio o quella della scrittura?
Assolutamente prima la vita e poi la scrittura. Non farei niente se dovessi soltanto scrivere un libro. Piuttosto mi piace molto tenere un diario. A volte ho provato anche a non farlo, e mi sono reso conto che il viaggio diventa meno significativo se non c’è quel momento alla sera in cui dedicare un’ora al ricordo della giornata. Ne ho molti, e solo qualche volta sono diventati un libro. Ed è molto bello tornare a leggerli, sono molto più forti delle foto: torni proprio a quel momento, nelle macchie di un quaderno, nella scrittura stanca di una sera… La cosa drammatica dei viaggi è che ti dimentichi tutto.
Babette parla del paesaggio che si dimentica molto in fretta, sgomberare per vedere il paesaggio per com'è, citando quel proverbio zen. Davvero c'è una fuga sul paesaggio? Si possono perdere i luoghi?
Quella è una meditazione che ho fatto dal momento in cui mi sono reso conto che quel paesaggio, ma anche Milano, è cambiato molto negli anni per me. Sicuramente c’è stato un periodo in cui mi emozionava moltissimo. Significava ritorno a casa, progetti per il futuro… poi nel corso degli anni, com’è successo a Babette, ho iniziato a vederlo con un occhio più disincantato. Non dico che mi sia passata la poesia ma quasi.
Come hai costruito i personaggi? Fausto, Silvia, Babette, soprattutto Santorso: l’uomo-montagna, della civiltà montanara.
Sono dei grandi amici che ho lì. I montanari esistono ancora, sono in via d’estinzione, ma esistono. Sono persone che sono nate e cresciute lì, che non se ne sono andate per scelta. D’altronde nessuno è obbligato a rimanere. C’è veramente una profonda cultura in chi conosce le montagne così bene come questi uomini. Potrei ascoltarli per anni, e li ho ascoltati per anni. Santorso era questo montanaro che ho raccontato anche altre volte, già nel Ragazzo Selvatico (che era il mio primo libro sulla montagna) e anche nelle Otto Montagne, dove c’è Bruno. Continuo a girare attorno a questo personaggio dell’albero, dell’uomo radicato. Alla fine del libro c’è un’immagine dei lupi e degli alberi, e lui è sicuramente un albero: quello che resta, quello che comunque vada deve stare lì, dov’è caduto il suo seme e cercare di essere felice lì dov’è. Silvia e Babette sono lupi, tutti lo sono, meno che Santorso e Fausto, che forse sta cercando di diventare un albero. Anche Venerdì esiste: lavora davvero nei rifugi del Monte Rosa. Con lui sono andato anche in Nepal un paio di volte poi ho scritto un libro. Diciamo che in questi quattro personaggi ho messo dei momenti diversi della mia vita, e di Babette conosco molto bene la stanchezza di un paesaggio nel momento in cui non ti dice più niente. Conosco anche la commozione di un ritorno, il senso di appartenenza… sono età diverse.
Alternanza Milano Valle d’Aosta, com'è? C'è novità quando torni?
Sono stato combattuto per un po’ di tempo se andare o meno a vivere in montagna. In quel periodo lavoravo al ristorante, due anni da cuoco in un rifugio, proprio come Fausto. Poi ho scoperto che sono due metà di cui ho bisogno, forse anche perché queste metà fanno parte di me da sempre. Negli anni ho cercato un equilibrio: per me la città è l’inverno e la montagna l’estate. Abito a 2000m quando sono su. La fase di passaggio è difficile, cambia l’uso della giornata, l’uso del corpo. In montagna lavoro anche molto con le mani, e oramai da un po’ di anni scrivo e basta. Anche per questo mi piace stare lì. Può diventare mortificante fare soltanto un lavoro intellettuale. Un po’ scrivo, un po’ costruisco cose con il legno, un po’ vado a camminare, un po’ pianto alberi… in città questa seconda parte è fatta di grandi camminate per la città con Lucky [il cane], una decina di chilometri tutti i giorni. Almeno due lunghi giri da un’ora, perciò ovunque vada ad abitare comincio a fare tutta la mia mappa dei dintorni. Si soffre molto l’immobilità scrivendo, e quindi cammino per dare aria ai pensieri. Alla mattina lavoro un’oretta prima di uscire e poi passeggio con Lucky, e quello è il momento in cui rifletto sulle cose che ho scritto.
Essendomi abituato alla presenza della montagna, quando sono qui mi manca molto l’assenza della “natura” – sono sempre restio a usare questo termine, mi sembra troppo vago. Diciamo che sento la mancanza del torrente, dell’acqua che scorre. Che è il pulsare della vita, sono le vene della terra. O la roccia nuda e semplice, così com’è. Ecco, il fatto che in città sia tutto artefatto, forse tutto meno che gli alberi, questo lo soffro un po’.
Però ecco, anche in montagna non c’è più quella presenza armoniosa dell’uomo sulla terra. Dove anche quello che l’uomo fa sta bene nel paesaggio. È bello. Invece il brutto, diciamo l’uomo che fa qualcosa di brutto alla terra per me arriva con la città.
Montagna e città, città e montagna. Anche Silvia, Fausto e Babette si alternano tra un posto e l’altro. Cos’è il paesaggio per te, cos’è un luogo?
Il paesaggio è una forma di scrittura. Per noi in Italia e in Europa soprattutto: perché non esiste un paesaggio vergine, non esiste la wilderness come in America. Sono stato in Alaska e in Canada e ho visto che cos’è. Nemmeno sulle Alpi abbiamo un posto che non è stato toccato dall’uomo, e per questo, per noi, il paesaggio è la storia della presenza umana sulla terra. In tutto questo, città e montagna non li vedo come due paesaggi completamente separati. In montagna c’è tanto abbandono, lo si vede nella fine della civiltà alpina, i ruderi ovunque – anche se sono molto più belli che un capannone dismesso. Ti raccontano di una civiltà scomparsa, di un’epoca finita.
Quest’attenzione ai luoghi è forse molto legata al tuo aver studiato alla Civica, a essere un appassionato di documentari?
Il bello del documentario è che invece che raccontare i fatti tuoi – che possono essere rielaborati nella narrativa, ma in fondo si è sempre sé stessi – racconti le storie degli altri: ascolti, conosci ed esplori, insomma è un linguaggio molto più aperto. Quando scrivi romanzi in un modo o nell’altro sei sempre nella tua stanza con le tue cose, per quanto uno ci possa mettere della fantasia. Ci sono sempre i tuoi ricordi, le tue ossessioni… C’è sempre abbastanza odore di chiuso devo dire. Oltretutto la Bovisa era la cinecittà milanese, con l’Armenia Films. C’era Luca Comerio, uno dei primissimi cineoperatori italiani. Lavorava direttamente per i fratelli Lumière, che dopo l’invenzione della macchina da presa assumevano operatori/reporter da spedire in giro per il mondo perché tornassero con immagini da far vedere. La grande muraglia cinese, le isole tropicali agli europei che non le avevano mai viste. E Comerio era uno di questi.
La tua città è Milano, il tuo quartiere la Bovisa. Ci hai vissuto per vent’anni, attraverso quali luoghi lo racconteresti?
È dal 2003 che sono qua. Da allora il quartiere è cambiato molto. Andavo sempre sul ponticello sopra la ferrovia. Uno dei tanti posticini segreti della Bovisa. Mi è sempre piaciuto tanto camminare per la città. Le periferie sono piene di sorprese. Avevo letto il Ragazzo della Bovisa di Ermanno Olmi, e sai, lui aveva passato qui gli anni della guerra e raccontava di loro da ragazzini quando venivano a rubare il carbone dei treni. Lo scaricavano qui per l’azienda del gas, che veniva fatto con una raffinazione del carbon fossile. Olmi mette insieme tutti questi pezzi, i gasometri, la ferrovia… oppure Testori con i racconti del ponte della Ghisolfa, ma anche Rocco e i suoi fratelli parla moltissimo di questa parte di Milano.
Tra l’altro Ermanno Olmi, aveva anche una scuola di documentari, con cui aveva prodotto questo film che era Milano ’83 in cui c’era un amico fabbro di Bovisa, Christian, bambino. Allora avevano l’officina in via Varé, dove adesso c ‘è la buca. Raccontava di tutto il suo mondo dell’officina che s’era inventato. Un mondo immaginario di un bambino pieno di fantasia, bellissimo: mezz’ora di monologo. Poi l’ho ritrovato che faceva ancora il fabbro.
Ma anche l’architettura industriale, come il pennacchio della cristalleria, dello Spirit de Milan, che se non ricordo male compare nel libro di Gabriele Basilico, che per me è stato fondamentale. Mi ha insegnato ad apprezzare la città industriale, una cosa che quando sei ragazzino non ti viene in mente che ci possa essere una poesia nella fabbrica.
Anche la Cascina Albana: la sua esistenza sembra miracolosa. Con la sua Madonna della Frutta e i nuovi grattacieli dietro.
Poi la Scighera, con cui ho collaborato per tanto tempo, per anni, in maniera molto attiva nel gruppo di lavoro. Un luogo veramente importante, anzi: non credo ci sia luogo più significativo alla Bovisa. È la prova che nelle periferie ci sono possibilità che nei centri non ci sono. Perché esistono degli spazi possibili di azione. Non si sarebbe mai potuto aprire un posto così nel centro di Milano. Sarà anche perché qui ce n’era il bisogno. Per quanto mi riguarda, sono molto legato all’idea che si debba fare qualcosa nel posto dove abiti, non si può soltanto dormire e mangiare. È quasi un dovere politico, e questa cosa in periferia è proprio urgente, certe cose o le fai tu o non le fa nessuno.
Ultima domanda per aspiranti: com’è vivere di scrittura?
Era un grande desiderio. Per anni ho dovuto fare tanti lavoretti necessari per campare – come dice Fausto a un certo punto. Una volta i corsi di scrittura, un’altra a procacciarsi gli articoli da scrivere di qua e di là… un po’ frustrante pensare che la tua vera passione non ti dia da vivere. Vivo così da qualche anno, dalle Otto Montagne. Ma ho anche capito che resta il bisogno di una seconda metà della vita con cui fare qualche cosa con gli altri, con le mani. Perché alla fine scrivere è stare da soli con la propria testa. Sempre a un passo dalla depressione, con tutta la propria solitudine. Da poco ho messo a posto una vecchia stalla che è diventata una residenza per artisti, scrittori, studiosi che vogliono venire a passarci dei periodi. Sto aprendo una fondazione che gestirà questo posto. Alla fine è un po’ un pretesto per starci. Perché poi il luogo della solitudine lo esaurisci quando lo esplori in lungo e in largo. Magari te lo tieni come un angolino in cui stare tranquillo, però se è il luogo dove vuoi abitare deve diventare un luogo di relazioni.