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Riccardo Cucchi

A pochi giorni dalla sua ultima radiocronaca, abbiamo intervistato una delle voci storiche di Tutto il calcio minuto per minuto, storica trasmissione di Radio Rai dedicata allo sport preferito dagli italiani. Dalla prima partita raccontata nel 1982 all'ultima del 2017, passando anche per Roma e Lazio e i prossimi derby per le semifinali di Coppa Italia. Linea a Riccardo Cucchi.

Scritto da Nicola Gerundino il 23 febbraio 2017
Aggiornato il 27 settembre 2017

during the Serie A match between FC Internazionale and Empoli FC at Stadio Giuseppe Meazza on February 12, 2017 in Milan, Italy.

Data di nascita

31 agosto 1952 (71 anni)

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Attività

Giornalista

Su cosa rappresenti Tutto il calcio minuto per minuto si potrebbero spendere oceani di parole: è un monumento della comunicazione italiana tutta, non solo di quella sportiva. Una trasmissione che ha influenzato e tuttora influenza il nostro modo di parlare, di scrivere e raccontare. E di vivere quello che è lo sport sovrano in Italia: il calcio. Se poi si dovessero scrivere i ricordi legati a questa trasmissione da parte di tutti i milioni di ascoltatori che ha avuto dalla sua prima puntata nel 1960, non basterebbero i fogli di cento cartiere industriali. Qualche giorno fa, una delle voci storiche di questa trasmissione sulle frequenze Rai ha dato l’addio al microfono e non abbiamo saputo resistere alla tentazione di farci raccontare trenta e passa ani di lavoro sui campi di tutta Italia e di mezza Europa. Dalla prima partita nel 1982 a Campobasso all’ultima del 12 febbraio 2017 allo stadio San Siro di Milano, passando per le due squadre di Roma, che nelle prossime settimane si sfideranno in ben tre derby, con il primo fissato per mercoledì 1 marzo. Fare questa chiacchierata è stata un’esperienza unica ed emozionante: una radiocronaca di ricordi fatta da una voce di famiglia, seppure appartenente a una persona mai conosciuta. E con una spettacolare capacità narrativa e padronanza di linguaggio: abbiamo trascritto tutto per filo e per segno, senza praticamente dover fare il minimo ritocco. Ecco la nostra intervista a Riccardo Cucchi, un uomo innamorato del calcio e del proprio lavoro.
CUCCHI-SLIDE

 

ZERO: Partiamo dalla prima radiocronaca ufficiale di una partita di calcio dalle frequenze Rai. Qual è il racconto di quella giornata?
Riccardo Cucchi: Innanzi tutto devo dire che quella prima radiocronaca fu una sorpresa. Fu un Campobasso-Fiorentina, preliminare di Coppa Italia. 23 agosto – quindi in piena estate – con il Campobasso che era appena salito in Serie B e quindi era già in festa per questa inaspettata promozione, essendo una piccola realtà del Centro-Sud. La Fiorentina in quel periodo era vice campione d’Italia, quindi con tanti giocatori illustri e famosi che i tifosi viola sicuramente ricorderanno: Antognoni, Passarella, Bertoni. Non era destinata a me quella partita, ma a Ezio Luzzi, che però, nel frattempo, era stato colpito da una febbre improvvisa che gli impediva di raggiungere Campobasso. Mario Giobbe, capo dei servizi sportivi Rai di allora, mi chiamò e mi chiese se me la sentissi. Immagina soltanto cosa volle dire ascoltare la voce di Mario Giobbe, che io ancora non avevo conosciuto personalmente, ma conoscevo come grandissimo conduttore radiofonico. Già solo ascoltando la sua voce mi emozionai, puoi immaginare quanto mi tremarono le gambe di fronte a quella richiesta. Ovviamente risposi di sì, perché quello era il mio sogno. Premetto che fino all’82 – io sono entrato in Rai nel ’79 – avevo partecipato a numerosi corsi di formazione: allora la Rai formava i suoi giornalisti in maniera molto più compiuta. Avevo frequentato i corsi per radiocronista, oltre a quelli per conduttore, quindi avevo già una preparazione di base. A questo aggiungi che il mio gioco preferito dell’infanzia era quello di inventarmi radiocronache, ascoltando, ovviamente, Ameri, Ciotti e gli altri protagonisti di Tutto il calcio degli anni 60. Io sono del ’52, per cui ho avuto la fortuna di sentire le voci di Carosio, Ameri o Ciotti fin da tempi lontani. Insomma, avevo acquisito un minimo di vocabolario e di tecnica, ma avrei dovuto mettermi alla prova. Una cosa è giocare, una cosa è andare al microfono. E infatti, una volta al microfono, ho rischiato la paralisi della lingua. Poi è andata bene, per fortuna. Tra l’altro, il risultato fu curioso: il Campobasso batté la fiorentina per 1-0 con rete di D’Ottavio, che era un giocatore molisano, quindi immagina che festa ci fu nel vecchio Stadio Romagnoli. Il giorno successivo fui chiamato da Mario Giobbe, il quale si complimentò con me e mi disse di andarlo a trovare a Roma. Da lì cominciò praticamente tutto. Iniziò una lunga trafila che fu fatta anche di basket e di pallavolo: tutti sport propedeutici per essere ancora più attrezzato al momento in cui sarei arrivato al calcio.

La Fiorentina 1981-82, vice campione di'Italia.
La Fiorentina 1981-82, vice campione di’Italia.

Ha continuato a seguire le partite del Campobasso dopo quell’esordio?
Avevo vinto il concorso nel ’79 con l’avvio della terza rete, del TG3, che all’epoca conglobava anche l’informazione regionale, per cui ero stato spedito, com’era giusto che fosse, a farmi le ossa in provincia. Sono quindi rimasto a Campobasso per diversi anni seguendo il Campobasso, ma anche altre squadre perché alcune domeniche mi mandavano in trasferta per l’Italia.

Avrà fatto un sacco di radiocronache al gelo.
Assolutamente sì! Partite nella neve, ma anche partite molto complicate. In quella stagione, 1982-1983, in Serie B c’erano anche la Lazio e il Milan retrocesse dalla giustizia sportiva a causa dello scandalo scommesse. Quindi ho vissuto anche un Campobasso-Lazio e un Campobasso-Milan. Poi le partite con la Cavese, di Cava dei Tirreni, una storia di grande rivalità sportiva e di “inimicizia” tra tifosi. Insomma, partite molto difficili da gestire: il clima era molto teso in questi campi.

Lo stadio di Campobasso era sempre pieno?
Pienissimo. Oggi è uno stadio da 30.000 persone, ma all’epoca era un piccolo impianto con i palazzi che si affacciavano sul campo e le persone che vedevano la partita dal balcone di casa. C’era una sola tribuna centrale coperta, poi delle piccole gradinate. Uno stadio di provincia, molto vicino alla sensibilità della popolazione che viveva il calcio come passione di campanile. Era molto bella questa cosa.

C’è stato un mentore tra i suoi colleghi, qualcuno che le ha insegnato i trucchi del mestiere?
Beh sì, certamente. Considera che, dopo il corso di formazione e il mio esordio improvvisato, fui inviato ad affiancare Enrico Ameri e Sandro Ciotti in cronaca. All’epoca avevo 27 anni. Noi che affiancavamo non dovevamo parlare, non avevamo il microfono: eravamo in postazione con loro, i grandi maestri, i grandi miti della radio, e prendevamo nota di quello che facevano, cercando di rubare pezzi del loro mestiere, di capire come preparavano e come realizzavano la loro radiocronaca. La sola cosa che mi era permessa era prendere nota dei calci d’angolo e a fine partita passavo quel foglietto a uno dei due, sperando di non sbagliare per non indurli in errore. All’epoca era molto importante questo dato: alla fine della cronaca era una regola fissa citare il numero dei calci d’angolo ed era un dato statistico che compariva anche nei quotidiani sportivi. L’affiancamento era un tentativo di capire, vedere e rubare pezzi del mestiere.

Sandro Ciotti ed Enrico Ameri.
Sandro Ciotti ed Enrico Ameri.

Arriviamo all’esordio in Serie A.
È stato un Roma-Ascoli dell’82, annata molto importante per la Roma di Liedholm, coronata poi con lo Scudetto. Anche in questo caso devo dire che sono stato fortunato, perché in quella giornata ci fu un altro episodio che mi aiutò. Quella partita era destinata a un altro collega, Giacomo Crosa, grandissima voce e grandissimo radiocronista dell’atletica e del basket. Non era proprio innamorato del calcio lui, il suo sport era il basket e, oltretutto, era stato olimpionico di atletica leggera. Insomma, anche lui quella volta ebbe un infortunio che gli impedì di andare allo stadio. Io ero a Campobasso, da cui era facilmente raggiungibile Roma. Così, la domenica mattina alle nove, Mario Giobbe mi chiamò e mi disse: «C’è un’emergenza improvvisa, Giacomo non può, devi andare di corsa tu a fare la Roma». Figurati! Anche in quel caso l’emozione fu grandissima: l’esordio per Tutto il calcio in Serie A!

Qual è la giornata tipo di un radiocronista?
Allora, prima c’è da dire che in passato si partiva il sabato e si raggiungeva la destinazione nel pomeriggio del giorno stesso. Negli ultimi tempi, invece, per andare incontro alle esigenze aziendali di contenimento costi, si partiva la domenica mattina. Io personalmente avevo dei riti – non scaramantici, perché non sono scaramantico – che ritengo siano utili per preparare meglio la giornata. Mi svegliavo abbastanza presto e facevo una sana colazione perché poi, normalmente, saltavo il pranzo: ritengo che allo stadio si debba andare leggerei per non avere intoppi di nessun tipo. Quindi, una bella colazione abbondante, stile americano. Quando i primi anni partivo il sabato e la domenica ero già sul posto, mi preparavo attraverso una lettura sistematica dei quotidiani e prendevo una piccola pagina di appunti. Non troppi, perché in radiocronaca non bisogna andare troppo preparati, altrimenti c’è il rischio di abbassare l’occhio sull’appunto e perdere l’azione sul campo. Solo le cose essenziali. Nel tempo, oltretutto, ho capito che i nostri ascoltatori – specialmente nei tempi più moderni, con tutti i siti disponibili su internet – alle volte sono molto più preparati di noi. È facile che l’ascoltatore abbia già molte informazioni a disposizione. Dopo la colazione e la preparazione, c’era il percorso verso lo stadio. Io arrivavo sempre molto presto, ma veramente presto. In qualche occasione mi è capitato addirittura di trovare i cancelli chiusi. Lo facevo per diverse ragioni: innanzitutto, per me entrare in sintonia con l’ambiente era fondamentale. Ho sempre sostenuto che bisogna essere emozionati per poter trasmettere le emozioni. E l’emozione nasce dalla sintonia: arrivare presto, vedere i tifosi che aumentano, captare l’atmosfera. Nei primi anni poi, era ancora più importante andare presto perché le notizie dell’ultima ora le apprendevi solo andando allo stadio. Oggi siamo aiutati dai social, ad esempio twitter è molto utile per questo. Ma all’epoca non c’era niente, le notizie le dovevi andare a prendere e dovevi avere l’intelligenza e la sensibilità per trovarle. Pensa che alcuni pezzi li mandavamo via telefono, con i gettoni o con la scheda, prima dall’avvento del cellulare. La prima cosa da fare in trasferta era trovare una cabina telefonica. In alcuni pezzi si sentiva addirittura la moneta che cadeva!

E dall’altro lato la telefonata veniva registrata?
Sì, veniva registrata da un tecnico in regia e poi messa in onda, pulita e filtrata affinché fosse di maggiore qualità. Oggi non c’è più bisogno, abbiamo dei pc nei quali inseriamo i nostri pezzi, li montiamo noi stessi e li mandiamo direttamente online, in una sorta di pozzetto dal quale poi il tecnico pesca quello che serve per essere mandato in onda. Ti racconto un altro dettaglio. Oggi, quando devi affrontare una partita e hai di fronte una delle due squadre che non conosci bene – o tutte e due addirittura – perché non le hai mai viste giocare dal vivo, basta che vai su internet e hai tutto quello che vuoi: puoi sapere vita, morte e miracoli di ogni giocatore. All’epoca non era possibile, per cui capitava di fare partite delle coppe europee in cui ci si ritrovava di fronte a squadre delle quali non si sapeva niente. In quelle circostanze ci si aiutava con il fax: si mandava un fax alla società estera in cui si chiedeva di avere una cartellina con i nomi dei giocatori, possibilmente le loro facce, si leggeva quel materiale e si portava con sé la cartellina allo stadio per avere qualche dettaglio in più. Naturalmente, questo non era sempre sufficiente per saper riconoscere un giocatore che non avevi mai visto giocare, per cui si andava spesso uno o due giorni prima all’estero per poter vedere gli allenamenti della squadra ospitante. Si faceva un accredito per entrare nel campo d’allenamento, ci si metteva a bordo campo e si guardavano tutti i giocatori, cercando di fotografarli mentalmente per poi essere sicuri di poterli riconoscere. Inoltre, negli anni 80 non c’erano i monitor in postazione. A dirla tutta capita ancora oggi, da qualche parte… In ogni caso, all’epoca quello che vedevi con i tuoi occhi era il solo “materiale” che avevi a disposizione.

Immagino che anche la pronuncia dei giocatori stranieri fosse un problema.
Esattamente, era la prima cosa che facevo non appena arrivato a destinazione. Mi mettevo in contatto con un collega oppure andavo al campo il giorno prima, portavo con me la formazione e mi facevo dare la pronuncia esatta in spagnolo piuttosto che in ungherese o in polacco. Oggi questo tipo di problema è relativo perché con tutto il calcio che passa in televisione e con tutte le squadre che si possono vedere in qualunque momento, di qualunque campionato, le pronunce si apprendono attraverso il lavoro di tanti altri colleghi.

Come venivano scelti gli inviati per le trasferte?
C’era una gerarchia molto precisa. Per prima cosa, le partite non erano divise in tanti giorni della settimana come succede oggi: si giocava la domenica il Campionato di Serie A e di Serie B. In Tutto il calcio c’era anche il cosiddetto ultimo capo che era destinato ad Ezio Luzzi, la voce della B. La gerarchia era: Ameri, Ciotti, Provenzali, Ferretti, Foglianese e poi Ezio Luzzi. Man mano siamo arrivati anche noi: io, Emanuele Dotto, Bruno Gentili etc. Nel tempo si è anche allargato il numero di campi, ma sapevamo perfettamente che fino a quando ci sarebbe stato qualcuno di loro al microfono, noi non saremmo potuti andare oltre il quinto posto. Il mercoledì si giocavano le coppe europee: la Coppa dei Campioni era destinata ad Ameri o a Ciotti, perché allora c’era una sola squadra italiana che poteva partecipare. Poi c’era la Uefa, la Coppa delle Coppe e altri tornei poi scomparsi, per cui ho avuto all’inizio la possibilità di fare anche qualche partita europea e ho cominciato a farmi le ossa all’estero, ovviamente con partite non decisive: un Juventus-Real Madrid, ad esempio, sarebbe sempre andato ad Ameri. Questo lavoro mi ha insegnato, oltre alla capacità di stare al microfono, anche quella di stare al Mondo, rispettando le gerarchie, l’anzianità e i capelli bianchi. C’era una disciplina cosciente, ci “autogestivamo” in questo senso: sapevamo quale era il nostro posto.

Uno dei momenti topici di Tutto il calcio è sicuramente l’interruzione della cronaca da parte di un collega, perché sta a significare gol o quantomeno calcio di rigore. Mi sono sempre chiesto come tutto questo si realizzi da un punto di vista tecnico.
La tecnologia è cambiata molto rispetto al passato. Quando ho iniziato io e non c’erano i sistemi digitali, si utilizzava il cosiddetto “quattrofili”, una linea telefonica andata e ritorno “privilegiata”, cioè un numero destinato soltanto a noi, inutilizzabile da altri utenti. Due fili erano per trasmettere, altri due per ricevere il ritorno dalla regia di Roma e ascoltare gli altri campi. Oggi abbiamo un sistema digitale, più semplice e sicuro, ma non è cambiato nulla nel meccanismo: la nostra voce arriva alla regia insieme a tutte le altre da tutti gli altri campi, ma l’apertura del microfono sul campo da dove si trasmette è autonoma, la facciamo noi radiocronisti, da soli o con il tecnico (quando c’è), il quale, al nostro segnale, apre il microfono. Noi siamo tutti in onda in contemporanea, ma il potenziometro di chi non trasmette in diretta in quel momento è a zero, alzando il potenziometro si può entrare su chiunque sta parlando. Quello che è importante in questa trasmissione è avere una qualità particolare, oltre a quella di saper raccontare il calcio: bisogna potere e sapere ascoltare i colleghi in onda, bisogna essere certi che nel momento in cui si entra non stia succedendo qualcosa di importante sul campo del collega che si deve interrompere. Ad esempio, sarebbe un errore madornale entrare su un collega che sta raccontando un calcio di rigore, sarebbe un danno enorme per la trasmissione e per l’ascoltatore. L’entrata deve essere sempre ragionata e per esserlo bisogna ascoltare il collega che si sta per interrompere. Protagonisti al microfono, ma soprattutto ascoltatori. Tutto il calcio è un lavoro di equipe.

Come avete vissuto l’arrivo del calcio in tv?
Io ero tra i pochi a non essere molto preoccupato. Quando sono apparse le prime dirette televisive e lo scorporo delle partite sapevamo che lo sviluppo sarebbe stato veloce. Molti pensarono che quella sarebbe stata la fine della radio. Io, invece, sostenevo che tutto sommato – e paradossalmente – questo sviluppo avrebbe portato dei piccoli vantaggi. È chiaro: non c’è più Tutto il calcio degli anni 60 che faceva 20.000.000 di ascoltatori, visto che era l’unica trasmissione in diretta dai campi di gioco: nessun’altro poteva trasmettere le partite, dato il monopolio della Rai. Chi voleva sapere qualcosa e non era allo stadio poteva farlo solo attraverso la radio. Oggi Tutto il calcio forse ha perso qualcosa nella qualità delle partite, perché l’incontro clou si gioca quasi sempre di sera alle 20:45 – o della domenica o del sabato – e si è ridotto il numero di partite, per cui ci sono state giornate con solo tre partite di Serie A la domenica pomeriggio. D’altra parte, abbiamo trasmesso e trasmettiamo ancora tutte le partite che si giocano dal venerdì al lunedì. Sostanzialmente, il calcio – e con lui Tutto il calcio – si è allungato a quattro giorni: trovare uno spettatore che possa sedersi su divano al venerdì e alzarsi al lunedì è quasi impossibile. Quindi, qual’è il mezzo che si incolla addosso e si può portare ovunque durante quattro giorni di vita in cui non hai sempre la possibilità di stare seduto davanti alla televisione? La radio. La televisione ti ruba, non puoi fare troppo altro, ti devi concentrare sulla partita. La radio, invece, ti permette di fare quello che vuoi.

Com’è cambiato dal suo punto di vista il linguaggio della cronaca sportiva con l’avvento della televisione? Quello che si nota ultimamente è un ricorso massiccio, forse addirittura eccessivo, all’emotività. Uno stuzzicare sottile, ma continuo e sistematico.
Certamente la tradizione deve rimanere, ma questo non le deve impedire di adattarsi a quella che è la sensibilità contemporanea. Se mi chiedi la differenza tra radiocronaca e telecronaca io ti direi questo. Immagina una fotografia in prima pagina su un giornale. La didascalia sotto, che ti dà poche notizie perché il resto si vede, è la telecronaca. La radiocronaca è il racconto della fotografia: devi dire i colori, chi sono le persone nella fotografia, come sono vestiti, qual è il luogo in cui la fotografia è scattata. Questo è un esercizio che facevamo nei corsi di formazione. All’improvviso ci mettevano davanti una fotografia e in un minuto bisognava descriverla in tutti i dettagli, in modo che chi fosse all’ascolto potesse capire perfettamente cosa ci fosse. È del tutto evidente che nella radiocronaca devi usare un maggior numero di parole, ma lo devi fare, paradossalmente, con parsimonia: la palla è veloce, più parole usi più la palla corre e rimani indietro. Usare tante parole, ma nel tempo giusto e calibrate al tempo di gioco. Alla radio è importante anche molto la localizzazione: ai colleghi dico sempre: «Dite dov’è la palla!», perché questo consente all’ascoltatore di raffigurarsi il campo e capire dov’è l’azione. Un’azione d’attacco può partire anche dalla metà campo difensiva, come si fa a capire che poi si arriva al limite dell’altra area di rigore? In televisione non è necessario, vedi tutto. Ecco, secondo me gli ultimi sviluppi del linguaggio televisivo tendono a emulare la radio, il telecronista tende a usare molte parole. Se tu ascolti una telecronaca di Nando Martellini – sicuramente sarà capitato a tutti di sentire quella dei Mondiali dell’82 – sentirai solo i nomi dei giocatori: «Tardelli… Cabrini… Rossi». Che senso ha dire “fuga sulla fascia da parte di”? Lo vedi in televisione, non c’è bisogno di dirlo. Oggi invece si tende a usare molte parole: non ci sono buchi, si parla sempre. Perché? Io penso per una ragione molto semplice: tutti i telecronisti bravi sanno che l’emotività e l’emozione che trasmette la radio è di altissimo valore. C’è un tentativo di emulare il linguaggio radiofonico in televisione. E dico eccessivamente alle volte, perché alcune parole si potrebbero davvero evitare.

Qual è il suo stadio preferito? Non necessariamente il più bello, ma quello a cui è più legato o quello dove è sempre tornato volentieri.
Io sono un cultore degli stadi: per me sono tutti belli! Mi è piaciuto da matti andarci, in Italia e per il Mondo. Tutti gli stadi hanno il loro il fascino. L’Ardenza di Livorno (meglio noto come Armando Picchi, nda), lo stadio di Firenze, bellissimo anche da un punto di vista architettonico. Il Menti di Vicenza anche è bellissimo, ricorda un calcio antico: il Vicenza è stata la prima società ad avere uno sponsor, si chiamava Lanerossi Vicenza ed era una grande azienda di tessuti vicentina. Ogni stadio ha una sua storia, per cui ogni volta che uno stadio viene abbandonato, abbattuto o riammodernato mi avvolge un senso di tristezza, perché è un pezzo di storia che va via. Se devo sceglierne qualcuno in particolare, te ne cito due che mi hanno dato tanto sul piano della passione che sono capaci di sprigionare, la passione dei tifosi che ci sono dentro. Uno è italiano, uno è europeo. Lo stadio italiano nel quale un radiocronista lavora meglio – perché più passione ed entusiasmo senti attorno a te, più ti emozioni e la tua telecronaca diventa eccitante, emozionate, brillante e veloce – è il San Paolo di Napoli.

Il San Paolo di Napoli nell'era Maradona.
Il San Paolo di Napoli nell’era Maradona.

Non l’avrei detto.
Perché?

Per la visibilità, che è tra le peggiori.
Sì, il San Paolo è uno stadio in cui si vede malissimo. Noi, tra l’altro, siamo attaccati alla copertura dello stadio, in una sorta di “dirigibile” – come lo abbiamo soprannominato – che vibra a ogni vibrazione della tribuna. Sei altissimo, lontano, non vedi i giocatori. Ma questo è un altro problema. Io parlo di passione: entrare al San Paolo, sempre stracolmo di gente, anche con partite meno importanti, è veramente bello, perché ti trasmette passione, percepisci la forte emozione che il pubblico sente e che tu poi ritrasmetti. Per la stessa ragione cito il Bernabeu di Madrid, che è uno stadio fantastico. L’ho conosciuto prima della ristrutturazione, quando era un muraglia di 100.000 persone che ti si piazzava davanti agli occhi. Mi ricordo una partita con Ameri, un Real-Juve, in cui io ero destinato a una cosa che si faceva una volta: le interviste in tribuna stampa con i colleghi per avere, nelle pause di gioco, dei giudizi sulla partita. Ebbene, era talmente alto il clamore che veniva dagli spalti che non riuscivo a sentire la voce dei colleghi che stavo intervistando! La visibilità comunque è un problema effettivo: oltre al San Paolo, ad esempio anche l’Olimpico di Roma è uno stadio bellissimo, ma le partite si vedono male. Lo Juventus Stadium è uno stadio perfetto per il calcio. Anche Marassi, uno stadio stupendo, molto inglese, dove i cronisti, ma anche gli spettatori, possono vedere la partita in maniera spettacolare. L’Olimpico di Torino è un ottimo stadio, poi il Comunale di Firenze o ancora il nuovo stadio di Udine: è diventato uno stadio dove si può veramente godere di una partita.

Il muro umano del Bernabeu.
Il muro umano del Bernabeu.

Facciamo il gioco dell’isola deserta, ma con le partite. Se dovesse portare solo qualche incontro con lei, quale sceglierebbe?
È molto complicato. Sicuramente la finale dei Mondiali: quella è la partita delle partite, anche per ogni radiocronista che ha la fortuna di raccontarla. Io non so quante partite abbia commentato, mi ricordo che Sandro Ciotti, quando lasciò, citò in modo preciso tutte le radiocronache effettuate, di cui ora io non ricordo il numero. Delle mie io non saprei dirlo, per Sandro era più facile fare il conto perché bastava sommare le domeniche e i mercoledì di coppa. A me invece è capitato anche di fare tre o quattro partite in una settimana, tra coppe, campionato e nazionali. Tutte le partite, ma veramente tutte, le ho vissute allo stesso modo: ogni volta che sono entrato in uno stadio, qualunque fosse la partita, ho sentito un’emozione, anche per le partite meno interessanti per il pubblico. Mi sono emozionato perché mi emoziona il calcio, quando vedo una palla che si muove mi emoziono. La stessa emozione che provavo calciando una palla – ho giocato a pallone da dilettante, assolutamente scarsissimo – ce l’ho avuta vedendo un calciatore toccare un pallone, fino alla domenica dell’ultima radiocronaca. Non ho quindi una partita in particolare. Certo, ci sono partite straordinarie. Mi ricordo la finale di Champions di Istanbul, Milan-Liverpool, con il Milan che aveva già la coppa in tasca nel primo tempo e poi finì in quel modo incredibile, con la rimonta e i calci di rigore. Berlino, però, rimane la partita nella quale ho avuto l’emozione più forte, ai limiti dell’ebrezza. Vivere una finale mondiale e poter gridare “Campioni del Mondo!”…. Prima di me soltanto Niccolò Carosio, ’34 e ’38, ed Enrico Ameri, ’82, hanno gridato alla radio “Campioni del Mondo!”. Non c’è riuscito Sandro Ciotti che fece la finale del ’94 a Pasadena, Italia-Brasile. Gridare “Campioni del Mondo” non è poco.

Ci saranno sicuramente state anche giornate difficili da raccontare. Ne ricorda qualcuna in particolare?
Sì, purtroppo sì. Una in particolare, che mi dà ancora tanta amarezza e tristezza, è quella successiva alla morte di Raciti (Filippo Raciti Ispettore capo della Polizia di Stato, morto in servizio durante degli scontri tra tifosi e polizia il 02/02/2007 fuori dallo stadio Massimino di Catania, nda). Venerdì 2 febbraio ci fu Catania-Palermo con la morte assurda di Raciti; la domenica, assieme a Provenzali, che all’epoca era conduttore della trasmissione, decidemmo di comune accordo di andare comunque nei nostri stadi: ognuno sarebbe partito per la sua destinazione prevista. Trasmettemmo Tutto il calcio – con la sigla – e ognuno fece un collegamento dall’esterno dello stadio, perché dentro non era possibile entrare. Raccontammo l’impianto vuoto, il silenzio, la tristezza di quella giornata, del calcio che usciva sconfitto. Quella è stata una giornata che non avrei mai voluto vivere.

Passiamo alle due squadre di Roma. Prima di parlarne dal punto di vista tecnico però, le chiedo se esiste in voi cronisti un conflitto, magari anche forte, tra la propria professionalità e un sentimento che può essere molto viscerale, come quello della fede calcistica.
No, nel mio caso no. Te lo dico con estrema sincerità. Mi ero preparato, la Rai mi aveva preparato, i maestri mi avevano preparato a gestire ogni tipo di situazione. Nel servizio pubblico una regola ferrea è quella del rispetto degli ascoltatori. Gli ascoltatori pagano un canone, pretendono dal servizio pubblico l’imparzialità e l’obiettività. Noi parliamo a chi abita a Trento come a chi abita a Caltanissetta. Io ho fatto di tutto nella mia vita affinché qualsiasi tifoso si sentisse rispettato: quelli che prendevano il gol e quelli che lo segnavano. Quelli che gioivano e quello che sbraitavano, magari proprio contro di me che gli davo quella notizia terribile. Ho celebrato tutti gli scudetti che ho raccontato, tutti con la stessa identica gioia, perché raccontarlo è una gioia, anche per il radiocronista, perché un radiocronista sa che ci sono milioni di persone che pendono dalla sua voce, che aspettano di sentire “Campioni d’Italia!”, la fatidica frase “Sono le x del giorno x, il Milan, l’Inter, la Juve, la Roma, la Lazio è Campione d’Italia”. La mia passione per la Lazio nasce da bambino. Io sono di Roma, mio padre era di Torino e tifoso del Torino. Mi portò per la prima volta allo stadio negli anni 60 a vedere Lazio-Vicenza: uno stadio gremitissimo, 80.000 persone per Lazio-Vicenza! Una cosa impossibile oggi! La partita finì 1-1. Nel ’74, quando la Lazio vinse lo scudetto con gol di Chinaglia su rigore contro il Foggia, io ero allo stadio e ascoltavo in radio Enrico Ameri. Ero ancora uno studente e dissi tra me e me: «Sarebbe veramente bello fare questo mestiere e magari avere anche l’occasione, un giorno, di dire Lazio campione d’Italia». Quando mi sono messo al microfono, però, tutto questo è venuto meno. Anzi, ti racconto questo aneddoto: ci fu solo un presidente che alzò il telefono il lunedì mattina con il mio capo, Mario Giobbe, per protestare contro una mia radiocronaca ed è stato il presidente Calleri della Lazio, dopo una partita con la Sampdoria. Al mio capo disse: «Ma quando la finisci di mandarmi dei terroristi romanisti a fare la Lazio?!». Questo dice meglio di qualunque altra cosa quanto fossi severo con me stesso. E anche con la Lazio, quando la raccontavo.

Ha seguito Roma e Lazio quest’anno? Che squadre sono?
La Roma è una bellissima squadra e una bellissima realtà. Sono convinto che la lotta tra Roma-Napoli sarà bellissima fino alla fine. Spalletti è molto bravo, la squadra è tecnica e ha dei giocatori importanti. Džeko quest’anno è esploso e ha messo in mostra tutto il suo valore, che è reale. Il primo anno a Roma è stato molto criticato, ma io sapevo che non poteva essere quello il Džeko che avevo visto altrove. Adesso mi pare siano tutti d’accordo nel considerarlo un grandissimo attaccante. La Roma è una grande squadra e gioca un bel calcio davvero. Come il Napoli, d’altra parte. Il problema della Roma e del Napoli è che hanno davanti una Juventus spietata, meravigliosa, che riesce a vincere ogni partita con quella determinazione e quella qualità tecnica che sono proprie dei bianconeri. Io credo sarà complicato, se non impossibile, raggiungere la Juve quest’anno.

La Lazio è una meravigliosa sorpresa, nessuno di noi sinceramente si aspettava una Lazio così bella, vibrante, competitiva, sicuramente in grado di ottenere un piazzamento europeo. Merito di Inzaghi: mi permetto di dire che è stato veramente bravo, è stato una seconda scelta, ma poi ci si è accorti di avere un grande allenatore in casa. Io l’ho visto giocare, ho raccontato anche i suoi quattro gol all’Olympique Marsiglia, ma non avrei mai pensato che un giorno sarebbe stato anche un grande allenatore. Secondo me la Lazio rappresenta, assieme all’Atalanta, la vera sorpresa del campionato.

Immagino che avrà seguito decine di derby tra Roma e Lazio. Ce n’è qualcuno che ricorda più di altri?
Tutti i derby li ho sempre vissuti con questa emozione, con questa passione, da romano, soprattutto, ma con quel distacco necessario affinché la gente non sapesse nulla delle mie emozioni. Il derby è una partita meravigliosa. Ho vissuto derby in epoche lontane nei quali lo stadio era gremito, come diceva Ciotti, in ogni ordine di posto. Lo stadio traboccava gioia. Ho vissuto da spettatore, da ragazzino, derby nei quali i tifosi erano mescolati assieme: all’epoca non erano divisi, erano l’uno accanto all’altro e sventolavano bandiere dell’una e dell’altra squadra in ogni settore dello stadio. Ho visto gli ultimi derby con poca gente e questo mi dispiace moltissimo: 20.000, 30.000 persone, una tristezza infinita. Ogni derby che ho fatto comunque è stato bellissimo ed è stato anche difficile da raccontare perché a Roma c’è molta sensibilità, molto senso critico nei confronti di chi parla al microfono. Ogni volta che ho fatto un derby, non solo a Roma, ho cercato di essere sempre più attento nell’uso dei vocaboli, degli aggettivi e delle parole.

Direttamente e indirettamente, le sue radiocronache hanno accompagnato gli ultimi scudetti vinti da queste due squadre. Inizierei raccontando il primo, quello della Lazio nella stagione 1999-2000.
In quel campionato la Juventus era stata a lungo in vantaggio sulla Lazio. Anche nell’ultima giornata lo era, quindi scegliemmo Perugia come campo principale perché era quello in cui, con maggior probabilità, si sarebbe raccontato lo Scudetto. Quello che invece è successo penso non lo sarebbe riuscito a immaginare neanche un esperto scrittore di noir. Una trama sorprendente e avvincente. Il nubifragio… La mattinata a Perugia quel 14 maggio era stata meravigliosa: faceva caldo e c’era un sole spettacolare. Improvvisamente si addensarono dei nuvoloni alla fine del primo tempo e si abbatté sullo stadio un acquazzone di proporzioni bibliche. Il campo diventò una piscina, letteralmente. Tutti noi immaginavamo una partita sospesa e rinviata. Nel frattempo la Lazio vinceva a Roma, battendo per 3-0 la Reggina, se non ricordo male. Fu tutto sorprendente, invece. Collina ci ha fatto aspettare quasi un’ora – noi, ma soprattutto le squadre – prima di decidere se si potesse continuare a giocare o meno. Nel frattempo noi cercavamo di spulciare il regolamento, perché nessuno sapeva quale fosse la regola, che poi abbiamo scoperto lasciare un ampio margine di discrezionalità al direttore di gara. Poi la ripresa della partita, il gol di Calori al quarto minuto di gioco e la gente all’Olimpico che attese l’esito della partita dentro lo stadio fino alle 18:00. Una cosa assurda. Solo dopo ho saputo che all’Olimpico avevano mandato in onda la mia voce che raccontava la gara di Perugia, che i giocatori che avevano invaso il campo e ascoltavano al suo interno quello che stava avvenendo tra Perugia e Juve. Una cosa straordinaria. Poi l’esito, il fischio finale e così alla fine ho potuto dire anche io quella frase, “Lazio campione d’Italia!”, che avevo ascoltato nel ’74, allo stadio, dalla voce di Enrico America. Una cosa meravigliosa.

Poi ci fu lo scudetto della Roma l’anno successivo.
Eh sì. Ti racconto un particolare. Io sono sposato e ho due figli. Mia moglie è romanista, i figli, uno laziale e uno romanista, quindi io il derby lo vivo in casa, molto simpaticamente e molto amichevolmente. Sono riuscito a rendere felice nel 2000 uno dei due figli e nel 2001 l’altro. Quindi puoi capire come ho vissuto questo derby di titoli! Come ti ho detto, ho vissuto ogni scudetto con gioia, anche quello della Roma e c’è quella mia frase che i romanisti si ricordano e ogni tanto mi fanno ricordare: «Mai scudetto fu più meritato!». Ci credevo in quel momento e ci credo ancora oggi perché la galoppata della squadra di Capello fu straordinaria in quella stagione e sono sicuro sia ancora nella mente di tutti i romanisti. L’entusiasmo di tutta Roma portò quel giorno a un’invasione prematura di campo e ricordo la grande preoccupazione di tutti, degli addetti al campo e di Capello stesso, preoccupatissimo che l’arbitro potesse interrompere la partita perché non c’erano più le condizioni di sicurezza. Tantissime le emozioni in quella domenica straordinaria.

Abbiamo iniziato con il racconto della prima giornata di radiocronaca, arriviamo a quello dell’ultima: il 12 febbraio 2017, Inter-Empoli.
Faccio una premessa. Noi non ci conosciamo, ma ti posso assicurare, lo sanno tutti i miei colleghi, che sono una persona abbastanza riservata, non amo i riflettori, per cui non era mia attenzione scatenare questo meraviglioso cataclisma che in qualche modo si è riverberato su di me, con grande piacere ovviamente. La mia idea era di non dire niente a nessuno e di salutare la domenica al microfono, anche un po’ a sorpresa, gli ascoltatori. Una fuga di notizie ha consentito alla Gazzetta di pubblicare online giovedì sera la notizia che quella di Milano sarebbe stata la mia ultima radiocronaca. Da quel momento è successo di tutto, a cominciare dalla meravigliosa accoglienza dell’Inter che mi aveva preannunciato la volontà di premiarmi in campo. È stato un crescendo di emozioni ed è stato molto difficile impormi di stare calmo. Due cose io non ho mai voluto mai mettere al microfono: la retorica e le emozioni eccessive. Ricorderai l’addio di un mio collega, Ugo Russo, che si mise a piangere il giorno del suo addio: io volevo evitare questo tipo di emozione. Ovviamente, con tutto quello che è successo dopo la pubblicazione della notizia, controllarsi è diventato molto più difficile, ma credo di esserci riuscito.

Lo striscione esposto dalla Curva Nord di San Siro per salutare l'ultima radiocronaca di Riccardo Cucchi.
Lo striscione esposto dalla Curva Nord di San Siro per salutare l’ultima radiocronaca di Riccardo Cucchi.

C’è stato solo un momento in cui ho temuto di crollare: quando, con mia sorpresa, la Curva Nord dell’Inter ha esposto uno striscione per me – mai avrei immaginato che me ne sarebbe stato dedicato uno. Quando ho girato lo sguardo e ho visto quello striscione ho cercato di far capire ai tifosi dell’Inter, alzando il braccio, che l’avevo visto: mi sono sentito rispondere con un applauso scrosciante e qualcuno si è addirittura alzato in piedi. Beh, lì ho temuto che non sarei riuscito a controllare le mie emozioni. Per fortuna è andata bene. È stata una giornata incredibile, fatta di tanta emozione e di tante testimonianze. Ma voglio dirti che quella partita l’ho preparata esattamente come tutte le altre e che Inter-Empoli mi ha emozionato come tutte le partite che ho raccontato, perché questo era quello che volevo, niente di più e niente di meno. Una giornata come quella rimarrà per sempre nella mia memoria.

Cosa farà domenica prossima, la prima senza radiocronache?
Ho un appuntamento importantissimo… con mia moglie! Per il nostro pranzo domenicale, il primo dopo tanti anni che faremo finalmente assieme a casa. Naturalmente con un menù che abbiamo già predisposto: fettuccine al ragù! Mi sembra una bella cosa la domenica.

Sicuramente un ottimo motivo per non andare allo stadio.
Assolutamente! Mangerò assieme a mia moglie e dopo accenderò la radio perché, ovviamente, ascolterò Tutto il calcio. Tornerò quello che ero quando avevo 8-9 anni: un ascoltatore di Tutto il calcio.

C’è una squadra che in tutti questi anni l’ha impressionata di più per il gioco espresso?
Sì, debbo dirti di sì. E naturalmente è il Milan di Sacchi. Quella squadra ha fatto sognare non soltanto i milanisti, ma tutti gli appassionati di calcio. Quel gioco spumeggiante, quella ricchezza creativa che Sacchi aveva dato a quella squadra, tra l’altro con quei giocatori straordinari. Quel Milan era veramente uno spettacolo.
https://www.youtube.com/watch?v=UursGL-Up3I

Io ho amato due allenatori, perché a me piace il gioco spettacolare, lo dico molto francamente: quando il gioco è bello e piacevole da vedere per me è gioia, gioia vera, gioia pura. Il calcio è gioia pura, quando poi ci sono squadre che lo giocano bene lo è ancora di più. Ecco, oltre Sacchi credo che anche Zeman meriti una citazione. Zeman non è stato fortunato, non ha mai concretizzato la sua utopia. Sacchi era più pratico di Zeman, ma aveva anche grandi giocatori a disposizione. Zeman non è stato fortunato come Sacchi, ma secondo me il suo calcio era ancora più utopistico. Magari non ha raggiunto risultati, non ha vinto, ma il suo Foggia – che ho visto giocare tante volte, quello con il tridente strepitoso Signori-Rambaudi-Baiano – la sua Roma, la sua Lazio, anche il suo Pescara, hanno giocato un calcio straordinario. Mi ha fatto molto piacere sapere che il Pescara lo abbia richiamato: è pazzesco, a 70 anni! Dato che il Pescara vive un momento molto triste almeno speriamo che Zeman riesca a far divertire un po’ i suoi tifosi, perché lo meritano. C’è tanta passione anche là.