Dietro lo styling di stelle del pop italiano come Cosmo e Levante c’è lei. Stiamo parlando di Thais Montessori Brandao; una vera e propria leggenda (e garanzia per gli addetti ai lavori) della moda meneghina. Chi la conosce bene però ne apprezza anche le doti ballerine e il suo avere idee chiarissime in materia di girl-power e black-lives. Di origine brasiliana da parte di padre, ma born&raised in Milano Thais è il punto di vista hype al punto giusto per farvi scoprire dei Navigli un po’ più vicini alla cintura dell’equatore.
Sei cresciuta praticamente sui navigli vero?
Sono nata e cresciuta in zona Navigli, la prima volta che ho traslocato non sono andata molto lontano, mi sono spostata di un solo civico, dal 43 al 45 di via Giuseppe Meda… pensa che vedo ancora il balcone della mia prima casa dal salotto di casa dei miei genitori.
Negli anni hai visto cambiare questo luogo in meglio o in peggio?
Ho visto cambiare la zona insieme a me, la gentrificazione è stata molto veloce, gli affitti si sono alzati alle stelle, i piccoli negozi di alimentari come la latteria e l’ortolano all’angolo hanno chiuso annientati dalla grande distribuzione. Tutta quell’allure autentica della vecchia Milano fatta di gossip bisbigliati tra i ballatoi delle case di ringhiera e di anziani signori dispotici che bevono caffè corretti alle 8 del mattino sta un po’ scomparendo purtroppo. E sì, ammetto che un po’ mi dispiace.
Mi ricordo per esempio la Darsena quando c’era la fiera di Senigallia, ogni sabato. Vendevano le biciclette rubate, così, se per caso te la rubavano, bastava venire qua con la tua chiave e riprendersela. Grazie a tutti e tanti saluti. Darsena era una fossa di terra, wild, il mercato comunale – che adesso sembra una grande fermata del tram – era bellissimo, piccolo, decorato da un mosaico di tag, insomma un classico mercato comunale. Io uscivo dal liceo al sabato e venivo qua a prendermi il polsino del Che, sai quelle stronzate, l’Eschimo, i pantaloni di velluto a zampa… AMAVO, era la mia tappa fissa del sabato pomeriggio. Ora s’assiste alla tendenza classica di una città come Milano, la privatizzazione degli spazi, una certa esclusione di eventi e movimenti spontanei… insomma, pare sempre che non cambi nulla, ma a guardar bene ti rendi conto che hai visto tutto e vissuto di più.
Come comincia la voglia e il percorso da stylist?
Ogni volta che mi fanno questa domanda ci metto un po’ per fare due calcoli, ma dovrebbero essere più o meno sei anni. Ovviamente ho cominciato come assistente, due annetti buoni di gavetta pesantissima dove ho imparato quasi tutto quello che so. Assistevo una stylist che era già affermata nel panorama Milanese, Rossana Passalacqua, che ai tempi era editor di Rivista Studio. Insomma, mi sono ritrovata con un mestiere in mano, nel senso che io non ho sempre saputo di voler fare moda. Sono figlia di attori di teatro, diciamo che sono figlia d’arte, cresciuta in mezzo alla preparazione degli spettacoli. Ho sempre conosciuto il backstage dei palcoscenici, quando da piccolina i miei mi parcheggiavano lì dietro, e potevo vedere tutto da quella posizione per certi aspetti privilegiata. Forse è da lì che arriva il piacere di creare qualcosa di bello per gli altri, così come la tendenza a raccontare una storia attraverso le immagini, il tutto ricercando un rapporto d’empatia. Penso sia per questo, poi, che mi piace lavorare soprattutto con gli artisti, nella musica per esempio, che tra moda e pubblicità è l’ambiente in cui riesco a esprimermi al meglio, forse proprio per l’idea di mettere in piedi un’esibizione, qualcosa che abbia a che fare con la dimensione dell’esibirsi. Certo, la moda offre una fotografia molto vivida del tempo in cui viviamo, è un fenomeno sociale, e amo osservare le persone in strada, vedere come si vestono, trovare quelle sottoculture a cui mi sento più legata e che cerco di esporre in dimensioni più ampie – vorrei dire “lusso”, ma non è un concetto a cui sono legata –, espressive. Ma ammetto che il lavoro con gli artisti è più stimolante. Lì si crea un intenso rapporto di empatia, in cui devi veramente metterti in ascolto. Lo vedo anche come un esercizio per il proprio ego: riuscire a non sovrastare l’altro con la propria visione. Sono due mondi creativi che si incontrano, dove davvero la moda può essere uno strumento espressivo potente.
Quali sono i tuoi riferimenti, percorsi e tragitti, insomma, le storie che racconti nei tuoi set?
Guarda, ogni percorso è fedele al nome che ha, è sempre una scoperta. Ogni anno capisco qualcosa di nuovo, qualche aspetto di me che non conoscevo, dal gusto ai riferimenti. Per afferrare uno stile ci vuole tempo e confronto. Certo, so cosa mi piace. Sono molto legata alle sottoculture e attraverso queste c’è un tentativo di ricercare le mie origini, in continuazione, la mia afro-discendenza. Io sono italo-brasiliana, mio papà è di Salvador de Bahia, nel nordest del Brasile, lo stato più nero del paese. Era dove portavano e vendevano gli schiavi, e ancora oggi si sentono molto l’Africa e le sue influenze. Insomma, io sono nata e cresciuta qua, nel contesto socioculturale di Milano, per certi versi sono una milanese imbruttita, e se questa è la mia vita e la mia storia, tutto quello che appartiene alle mie origini mi sfugge, rimane una questione aperta con parecchie pagine che sto scrivendo piano piano.
Un racconto di queste pagine?
Ti dico, mio padre mi ha cresciuto senza parlarmi in portoghese. Lo capisco perfettamente ma lo parlo male. Ho un blocco che è un miscuglio tra timidezza e assenza di pratica. So che la sua scelta di non crescermi bilingue, senza passarmi la cultura brasiliana fino in fondo, era un modo per proteggermi. Lui stesso si staccò dalla comunità brasiliana per difesa, per evitare di ghettizzarsi, di finire a frequentare solo altri brasiliani. La sua scelta è stata la mia, ecco, e io sono cresciuta sentendo questa mancanza. Pochi anni fa ho fatto un viaggio con un’amica e sono tornata lì. Era un viaggio che avevo caricato di aspettative, smisurate. Diciamocelo, viaggi così non le rispettano mai, le aspettative! Bisogna lasciare che gli eventi ti piombano addosso, ma puntualmente lo capisci dopo. Pensavo che quella sarebbe stata la volta in cui sarebbe successo qualcosa, sai quella sensazione per cui sai che da un momento all’altro qualche pianeta si allineerà, e lì comprenderai delle cose importantissime… bene, niente. Non è successo niente, come al solito. Per certi versi, è anche importante che le persone con cui affronti questi viaggi abbiamo la sensibilità per capire l’importanza che un evento simile ha per te, e nemmeno quello è stato il caso! Per dirti, io volevo a tutti costi andare a vedere il candomblé. Sono le cerimonie nei quali dei “santoni” richiamano gli spiriti del culto sincretico brasiliano, che nasce dalle restrizioni di fede imposte durante colonizzazione portoghese. Come per il voodoo o per la santeria cubana, le divinità del candomblé, gli Orixas, s’identificarono piano piano nelle figure cristiane. Per farti capire, Jemanjá che è la dea del mare, è una madonna nera vestita in azzurro. Durante le cerimonie, che durano ore e ore, si sentono i tamburi, si mangia, si balla, e a seconda dell’Orixas che si chiama la scena cambia: per Jansã, dea della guerra, che è il mio Orixa (funziona banalmente come l’oroscopo), s’accende un fuoco, e s’aspetta la chiamata. Io aspettavo la chiamata, ovvero la gente che va in trans, che viene “cavalcata” dallo spirito. Ci sono stati casi in cui anche turisti sono stati presi da spasmi, insomma, è una cosa molto intensa.
Come entrano allora queste storie, la ricerca della propria identità, della tua discendenza afrobrasiliana nel tuo lavoro?
Allora, uno degli ultimi lavori, molto legato a questa estetica africana, è il video di David Blank, Foreplay, assieme a Pink Sand, un’altra ragazza di italiana ma con origini africane. Camera Moda ha supportato il progetto, e abbiamo fatto un fashion film per il video clip, chiamando diverse eccellenze nere italiane: artisti, fotografi, modelli, attivisti, di tutto e di più! Abbiamo creato dei tableaux vivant con pose ispirate ai quadri rinascimentali, con l’intento di reinserire la figura nera in contesti storici e artistici dai quali è stata puntualmente esclusa. Mi sono sbizzarrita. In pochi minuti abbiamo condensato un film. Un lavoro che è stato quasi una seduta di psicanalisi. Per questo mi piace lavorare con gli artisti, per una questione espressiva ed empatica, ma anche perché la dimensione umana che si respira su un set di musica è un’aria che spesso manca alla moda, che ha poco i piedi per terra, gente a cui scattano in continuazione fashion drama per cose veramente superflue.
Quali sono i tuoi spot imperdibili di questa zona soprattutto, visto il tuo lavoro, in fatto di moda, ma anche, dai, in fatto di food & beverage?
Ho un rapporto di amore profondo con Corso di Porta Ticinese e le Colonne di San Lorenzo; sono stati i primi posti in cui ho iniziato a bazzicare con le amiche durante l’adolescenza, prime sbronze con vodka alla pesca scadente acquistata al minimarket cinese in Sant’Eustorgio e, mea culpa, primi agghiaccianti outfit nei quali mi sentivo super cool e all’avanguardia. In Vicolo Calusca, invece, si radunavano sempre i punk, la prima volta che ne ho visto uno è successo lì, era bellissimo passare in quel vicolo e vedere quelle creste e quei Tiger-tartan di tutti i colori. Invece, per quanto riguarda il food uno dei miei posti preferiti in zona è il brutto anatroccolo, se sei un nostalgico della Milano autentica come me e sei freelance nel tuo periodo di povertà è perfetto; mentre Bebop in viale col di lana è un po’ posh ma buonissimo. Per il beverage non ho molte pretese, ma, anche se non dico niente di nuovo lo ribadisco: i cocktail del Rita sono spaziali.
L'oggetto più pazzo che hai acquistato al mercatino dell'antiquariato della domenica?
Una Peacock chair che troneggia ormai da anni sul mio terrazzo (ride).
Hai mai fatto dei lavori che usavano i navigli come set?
Yes! Tantissimi devo dire; specialmente spot pubblicitari. Quando dici Milano, soprattutto nei lavori commerciali, vedi Navigli!
Se i Navigli fossero un capo cosa sarebbero?
Probabilmente una camicia da notte ricamata, bianca in cotone grezzo e spesso come quelle che usava mia nonna, come quelle che lavavano le lavandaie al Vicolo Lavandaie, per l’appunto.
Come ti immagini lo street-style tra dieci anni? Mi spiego meglio; secondo te il cambiamento delle nostre abitudini di vita che stiamo esperendo, porterà anche a un cambiamento del modo in cui ci vestiamo e banalmente scendiamo per strada?
Non riesco a prevedere come sarà lo street style tra 10 anni, la moda è un fenomeno sociale così mutevole che ho serie difficoltà anche a fantasticare su un possibile scenario futuro. Solo pochi mesi fa non ci saremmo mai immaginati di trovarci in mezzo ad una pandemia di misura globale, questo a cambiato un po’ di carte in tavola e lascerà un evidente segno anche nel modo in cui viviamo, comunichiamo e percepiamo la moda. In generale penso che la cultura di internet e la tecnologia faranno sempre più parte del nostro approccio alla moda e al modo di vivere le nostre città e dunque sì, anche allo street-style.