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Umberto Angelini

Per un teatro dello sguardo esposto al rischio e all'ignoto

Scritto da Francesca Rigato il 18 maggio 2023
Aggiornato il 19 maggio 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Da sempre il teatro è in relazione con la città. Il loro rapporto, pur essendo in continua trasformazione, ha dei punti fermi. Ci sono concetti che tornano e a cui ogni periodo ha cercato di dare delle risposte, come l’idea di urgenza dell’arte, la nozione di cambiamento o il rapporto tra il teatro e la comunità. Tutto questo ovviamente eleva la forma performativa a qualcosa che va oltre il semplice intrattenimento, a favore di un’arte che si vuole porre in dialogo con la società, la politica e, soprattutto, con l’essere umano. Ho coinvolto in queste riflessioni Umberto Angelini, Direttore Artistico di Triennale Milano Teatro, su una linea del tempo che dal passato arriva al futuro. Abbiamo parlato della necessità del teatro, del suo ruolo nella società e del suo lavoro come direttore, legandoci al contesto in cui è immerso adesso: una grande Istituzione e Parco Sempione.

Credo che il teatro sia profondamente necessario perché conserva uno spazio di autenticità e permette una relazione con lo sconosciuto.

Qual è la parte più affascinante del suo lavoro e quale invece quella di cui non vorrebbe mai occuparsi?

Le parti più interessanti sono due, la prima è quella di poter trascorrere del tempo con gli artisti, parlarci, discuterci, scoprire il loro pensiero, mentre la seconda è collaborare e lavorare con il resto dello staff. Quello di cui vorrei occuparmi sempre meno e che incide in maniera significativa nel mio ruolo di direttore artistico e sulle scelte di programmazione, è la parte normativa e burocratica che sta diventando sempre più soffocante.

Come si sviluppa una visione fortemente autoriale ma anche inclusiva e sperimentale come la sua?

Ci sono due filoni: da un lato c’è una sensibilità individuale, come spettatore e programmatore mi interessa molto lavorare sulla sovrapposizione disciplinare, sulle intersezioni, sui bordi, sulle marginalità. Dall’altro non sono interessato a una programmazione elitaria, desidero instaurare un dialogo forte con il pubblico e cerco di mettermi sempre nella condizione di immaginare che anche un solo spettacolo possa essere significativo per capire il pensiero e la costruzione che c’è dietro la programmazione. La difficoltà è quella di riuscire a incrociare un interesse per lavori inediti dal punto di vista dello sguardo e aspetti più pratici, come la disponibilità degli artisti e la loro compatibilità, anche con il budget.

Cosa significa fare ricerca per lei?

Da un lato, fare ricerca, significa aprirsi alla sorpresa, dall’altro vuol dire lavorare duro, approfondire, scavare e non fermarsi alla comodità della superficie. Soprattutto credo che sia fondamentale instaurare un rapporto onesto e autentico con gli artisti e con il pubblico, essere trasparenti e mettersi nella condizione di avere un grandissimo rispetto nello spettatore e non arrivare mai a pensare che non possa capire. Un altro aspetto a cui mi affido è la ricerca sul web, che mi permette di collegare con velocità punti e sbrogliare nodi e intuizioni. Centrale è però soprattutto la presenza ai festival o alle stagioni teatrali e il dialogo con i colleghi e gli artisti. Mi piace molto approfondire diversi livelli e da uno scenario aprirne altri, andando in una sfera più ampia e capendo non solo il lavoro dell’artista ma anche le sue influenze e le sue passioni.

Qual è la sua relazione con gli artisti?

Nel corso degli anni si forma una relazione biunivoca e bidirezionale. Con artisti che già conosco c’è spesso un rapporto di fiducia reciproca, invece in altri casi è un po’ una caccia al tesoro il cui punto di partenza è un sentito dire in una chiacchierata con un collega o un altro artista, o delle epifanie, delle improvvise apparizioni viste, per caso, in un festival o in un teatro.

La zona di Parco Sempione all'inizio del Novecento era il fulcro della vita teatrale milanese, cosa rimane oggi di quel bagliore e cosa c’è di nuovo nel rapporto tra il Teatro della Triennale e la città di Milano?

È una domanda che da un certo punto di vista suscita sentimenti di cara nostalgia per il mondo che fu e mi riporta a quando ormai 35 anni fa sono arrivato a Milano e ho avuto la fortuna di lavorare al CRT (dal 1999 al 2002). Ho respirato quell’atmosfera di fine anni ’90, seppur molto lontana dai fasti dei decenni precedenti, che aveva ancora, dentro di sé, l’idea del teatro come relazione con una comunità e sentiva lo strascico delle identità molto chiare e politicamente forti del teatro degli anni ’70. Io prendo la fine di questa scia e mi inserisco in una fase di passaggio tra quello che è stato e quello che poi sarà. Oggi il Teatro della Triennale si pone in continuità con il pensiero della pluridisciplinarità che caratterizza la Triennale dagli albori quando, nel 1933, fu costruito l’edificio con l’idea di creare un palazzo delle arti, contenente uno spazio scenico da mille posti e uno espositivo con le varie gallerie. Parallelamente poi c’è la storia del CRT, il teatro dell’avanguardia, della sperimentazione e della ricerca, da Bob Wilson a Grotowski, da Kantor a Barba, fino al teatro sociale e di comunità. All’epoca si poteva trovare una doppia dimensione di teatro: da un lato quello internazionale e dall’altro uno calato nella realtà, in loco, dove c’era un pensiero di relazione con la città e con la comunità creativa milanese. Poi, per vari motivi, tutto questo si ferma e oggi quello che cerchiamo di fare, come Triennale e come Teatro, è di tornare a essere una calamita per la comunità creativa milanese e, allo stesso tempo, esserne amplificatori e lente d’ingrandimento, ponendoci in ascolto e diventando portatori di sguardi della città.

Immaginando una linea del tempo teatrale, una costante è sicuramente quella del cambiamento, oggi più che mai si sente il bisogno di nuovi linguaggi, e soprattutto la ricerca di una motivazione in quello che si fa e si vede, è necessario il teatro oggi? Perché?

Credo che il teatro sia profondamente necessario perché conserva uno spazio di autenticità e permette una relazione con lo sconosciuto, che sia l’ignoto del palcoscenico o qualcuno che ti sta seduto accanto, questa è una dimensione della vita imperdibile, anche perché mette in gioco e in discussione il corpo, che in questo momento ha una connotazione fortemente politica, nell’accezione di polis. La vera domanda che dobbiamo porci oggi è: quale teatro ci interessa? Perché c’è un teatro dell’intrattenimento, che è legittimo, ma non mi avvince, e c’è il teatro della ricerca, della sperimentazione e del dubbio. Ecco questo teatro mi riguarda e lo credo necessario.

Parliamo di FOG, questa nebbia, così legata all’immaginario milanese, che confonde e mescola i linguaggi, in che direzione sta andando? Qual è il raggio di sole che la dipanerà (se mai accadrà)?

La nebbia, anche nel suo riferimento ironico all’immaginario milanese, ha un grande vantaggio: altera la percezione. Inoltre, dopo un banco di nebbia, si arriva nuovamente all’apertura e alla luce. In FOG mi interessa indagare entrambi gli stati, sia quello della percezione alterata, sia quello della chiarezza della visione. 

Il Festival vuole creare una relazione di comunità tra artisti e spettatori ed è interessante vedere il nostro giovane pubblico che partecipa osservando i linguaggi differenti: da quelli dei grandi protagonisti della scena alle giovani realtà, italiane e non, proposti in modo paritario nel programma. Nella scelta degli spettacoli non cerco la novità anzi, a volte desidero portare i lavori più vecchi sul palco, in modo tale che il pubblico possa costruire una relazione di sguardi con gli artisti e una propria narrazione. Oggi si pensa di più al singolo che all’album, a me invece interessa l’album.

Un’ultima domanda: qual è uno spettacolo che rappresenta o richiama Milano e qual è l’artista che più la sorprende?

Uno spettacolo a cui questa città ha dato tantissimo e viceversa è La classe morta di Kantor, per l’impatto che ha avuto sulla scena culturale milanese e non solo. L’artista che mi sorprende sempre e mi stravolge è Romeo Castellucci.