Isolation Culture è, in ordine temporale, solo l’ultimo dei motivi per cui voler bene a Jonathan Clancy, apprezzare il lavoro degli His Clancyness e restare aggrappati con tutte le forze a quello che di buono rappresenta ancora la parola “indie”. Sulla carta Jonathan (nato a Ottawa l’11 gennaio del 1982) sembrerebbe pazzo da legare – uno che dal Canada decide di trasferirsi in Italia per fare musica, tirare su un festival davvero alternativo, libero (anche da finanziamenti) e ormai benvolutissimo come Handmade, aprire un’etichetta di gruppi super diy e talvolta strampalati come Maple Death Records e continuare a suonare. E magari sembrerebbe anche un po’ pieno di sé, con quel nome che fa più o meno “Sua Clancità”. Molto lucido e focalizzato su quello che è lo spirito indipendente giusto, Jonathan Clancy ha, piuttosto, trasformato il suo progetto da solista in una vera a propria band – condivisa con Jacopo Borazzo (già nei Disco Drive), Giulia Mazza (negli A Classic Education con Clancy) e Nico Pasquini (nei Buzz Aldrin e ora in solo con il progetto Stromboli). Quelli di Isolation Culture sono la “cultura isolata” ma anche “l’isolamento culturale” del 2.0, una riflessione sulla contemporaneità rispecchiata dai suoni spesso claustrofobici e oscuri, sia che si tratti di psichedelia e motorik, sia quando l’atmosfera è quella di un post punk tirato su tra riverberi e una solitudine sognante che ricorda i migliori Deerhunter. L’album è stato registrato tra gli studi Invada di Bristol (di Geoff Barrow) e quelli di Leeds di MJ degli Hookworms. E si sente.
Sabato 14 gennaio per celebrarlo arrivano al TPO un po’ di amici per una notte di concerti, dj set, proiezioni, performance e market. Oltre agli stessi His Clancyness, saranno sul palco anche HAVAHH, WOW, Matteo Vallicelli, Sequoyah Tiger, Trans Upper Egypt, Cacao, The Mountain Moon, Qlowski e SabaSaba.
Ecco cosa ci ha raccontato.
Quand’è che arrivasti in Italia e perché?
Ho fatto un po’ di salti tra varie città soprattutto da bambino, Ottawa, Toronto, Chicago, Trieste, Lecce, Napoli, Casalecchio. Diciamo che dalle scuole medie mi sono stabilito fisso a Bologna, perché mia mamma insegnava all’Università. Mi sento al 100% italiano e al 100% canadese. Tramite mia madre ho avuto la fortuna di girare e vedere tanti posti da piccolo e credo che questo mi abbia arricchito e, probabilmente, abbia posto le basi per continuare a viaggiare molto per il mondo ancora adesso.
E perché Bologna è diventata la tua città? Hai mai pensato di trasferirti altrove o tornartene in Canada?
Qualche volta l’idea l’ho avuta, però è anche vero che stando spesso in tour ho la possibilità di vedere molte altre città e alla fine mi piace sempre tornare qui. È diventata la mia città soprattutto per gli affetti (mia mamma e mia sorella vivono ancora qui), gli amici, il gruppo. Son tutte cose che poi alla fine non voglio vivere da lontano. Anzi, probabilmente è proprio la musica che mi ha tenuto qui.
Quand’è iniziata la passione per la musica? E c’è mai stato un periodo nella tua vita in cui hai fatto altro di completamente diverso?
Devo dire che dalle superiori, dai 16 anni in poi, la musica ha sempre fatto parte della mia vita. Non ricordo un anno passato a non fare concerti da allora, tant’è che ancora oggi soffro tantissimo le pause e nei momenti tra un album e l’altro dove non siamo in tour mi sento quasi inutile.
La passione è iniziata da piccolo, la musica era sempre accesa in casa, soprattutto Van Morrison, Marvin Gaye, Al Green, Bowie, Neil Young. Diciamo che il DNA deriva da lì. Poi ho fatto un anno di medie a Toronto veramente formativo: era il ’93/’94 e in classifica c’erano solo Nirvana e tutto l’alternative rock, ma anche Dr. Dre, il primo disco di Snoop Dog ecc. Da lì il passo al mondo Sonic Youth/Pavement/Guided By Voices/Fugaziè stato brevissimo. Bologna è stata, infine, una vera e propria manna dal cielo. Anche se spesso sono poi le persone che incontri che ti mettono sulla retta via: a 16 anni un amico mi fece scoprire la fanzine (ai tempi) Blow Up e in copertina mi pare ci fossero i Gastr Del Sol e dentro un articolo sui Nation Of Ulysses/Make Up. Beh, il mese successivo quelle band suonavano rispettivamente al vecchio Link e al Covo. Insomma leggevo di cose che potevo toccare con mano. Andavo alla Phonoteca (dove successivamente ho lavorato per un po’) e noleggiavo questi cd che poi finivano in cassette C90 con da un lato Pan Sonic e dall’altro i June Of 44, senza nessun problema di genere ecc.
Ricordo che il vecchio Link a 16/17/18 anni mi metteva veramente soggezione, ma aveva un fascino incredibile, quasi pauroso e misterioso. Forse ai tempi c’era musica un po’ meno schematica e ti capitava di assistere ai Flying Luttenbachers insieme agli UI e magari la sera dopo il primo Fennesz e poi i Cannibal Ox o qualche progetto di Ikue Mori. Pian piano anche il venerdì notte del Covo è diventato un must, tutto il vero indie rock di chitarre/noise passava da lì. Contemporaneamente c’era l’Atlantide dove suonavamo con i Settlefish e ti sentivi a casa; poi tutto il giro XM24 dove beccavi Panda Bear, Jack Rose, Sic Alps davanti a 50 persone in delirio. Mi brillano ancora gli occhi a pensarci. Detto ciò, però, non amo troppo guardare al passato e anche ora ho ritrovato tantissimi stimoli in città sia organizzando eventi, sia come spettatore di concerti e serate incredibili.
Settlefish, A Classic Education e His Clancyness: com’è avvenuta l’evoluzione?
Nessuna delle cose è in contrapposizione, sono solo anni differenti, esperienze che mutano e soprattutto interazioni con persone nuove che portano a strade diverse.
Hai mai pensato di cantare in italiano?
No, devo dire di no. Non mi sentirei a mio agio a scrivere in Italiano, non mi ci sento portato. Magari se non dovessi scrivere io le parole, chissà.
Come hai conosciuto i tuoi attuali compagni di band?
Sono super fortunato, al momento con His Clancyness suono con i miei migliori amici. Jacopo (Borazzo) l’ho conosciuto ai tempi dei Settlefish, gestiva la piccola etichetta Alice Dischi e suonava nei Disco Drive. Un giorno nel 2002 decise di organizzarci un concerto allo squat Alcova e il giorno dopo saltò in furgone con noi per venire ad una data in Francia. Finimmo a dormire nello stesso letto o per terra. Siamo amici da allora e ci sentiamo 20 volte al giorno. Nico (Pasquini) l’ho conosciuto tramite amici perché suonava in questa band incredibile, i Buzz Aldrin, che avevo aiutato un po’ agli inizi. Da allora musicalmente siamo abbastanza inseparabili, abbiamo uno studio assieme e collaboriamo musicalmente in tantissime cose. Ora faccio uscire anche i suoi dischi a nome Stromboli. È un musicista incredibile.… e anche lui lo sento 20 volte al giorno. Giulia (Mazza), che dire, è la mia compagna e migliore amica da tantissimo tempo. Nutro verso di lei un’ammirazione sconfinata e a volte sono quasi in soggezione davanti alla sua bravura. Musicalmente ci capiamo in un secondo e riesce sempre a tradurre in immagini qualsiasi cosa.
Per un periodo sei stato anche una delle colonne portanti di Radio Città del Capo. Perché decidesti di mollare?
Ho lavorato 10 anni circa in radio, gli ultimi 4 come direttore “artistico”. Sono entrato due mesi dopo il G8 a Genova, settembre del 2001. È stata una esperienza incredibile, una seconda famiglia. Ho mollato semplicemente perché non volevo fare un lavoro non fatto bene, non al 100%. L’ultimo anno in radio costantemente dovevo chiedere dei mesi di aspettativa per poter andare in tour e non mi piaceva gestire il lavoro quotidiano via mail. La radio merita sempre la massima attenzione. A febbraio 2011 ci offrirono un tour di 45 concerti in Nord America e quindi decisi di licenziarmi.
Cosa ci racconti invece di Maple Death Records? Com’è nata, come procede e quali sono le novità?
Maple Death Records è un’idea che avevo in testa da una decina di anni e finalmente si è concretizzata nel 2015 con le prime due uscite, lo split Havah / His Electro Blue Voice ed il primo EP di Stromboli. Attualmente l’etichetta assorbe la maggior parte del mio tempo, è una vera e propria sfida, ma voglio semplicemente far uscire musica che secondo me merita di essere ascoltata fuori dai nostri confini e che in definitiva vorrei comprare. Tutto qua. Gli amici mi sfottono dicendo che è una etichetta per outsiders e forse alla fine un po’ è così.
Il 2017 sarà pienissimo, uscirà il primo LP di Stromboli a febbraio (che presenteremo al Freakout), poi un artista canadese incredibile Cindy Lee, i Dead Horses di Ferrara, Black Sagan, il nuovo album degli Havah e poi spero altre cose di Krano, Bad Meds, Holiday Inn e J.H. Guraj. Insomma sarà un anno bello carico.
E l’Handmade?
L’Handmade è un festival che organizzo con due amici, Pincio e Spino (dei Welcome Back Sailors). Negli anni la cosa ci è un po’ sfuggita di mano ed è diventato un festival abbastanza grande e impegnativo soprattutto per noi che lo facciamo nei ritagli di tempo e senza nessuno scopo di lucro. Ancora non ci posso credere che l’11 giugno 2017 sarà la decima edizione, se penso che siamo partiti da un piccolo fienile a Guastalla con 300 persone e ora siamo a 20 volte quella cifra. Pazzesco. Per i 10 anni faremo qualcosa di speciale sicuro.
Di cosa parla Isolation Culture?
Principalmente è una piccola riflessione su come viviamo la cultura al momento, e quanto poco condividiamo tutte quelle nozioni che immagazziniamo, su quel nostro essere da una parte culture-freaks ossessivi, ma isolati dalle altre persone. Lo scambio permette di migliorare le idee, di ripensarle con un altro punto di vista e in qualche modo evolverle. Il disco parla di quanto fortemente crediamo nell’arte (non sempre quella con la A maiuscola), nella cultura come di qualcosa che fa avanzare la società, la lega assieme, avvicina le persone. Molte canzoni esplorano o cercano di esplorare l’alienazione che deriva dall’isolarsi culturalmente. A volte questo isolamento diventa invece essenziale, ti permette di far viaggiare la testa, trovare connessioni meno superficiali.
E qual è il tuo modo per non isolarti?
Il furgone forse, vedere dal finestrino tutti quei km che scorrono e soprattutto poter discutere di qualsiasi argomento con i miei compagni di band. Il furgone si trasforma nel nostro bar.
Quali sono i posti in città che ti piace frequentare?
Il bar dove alla fine mi trovo più a mio agio e soprattutto dove posso andare senza dare un appuntamento ma sapendo di trovare comunque qualcuno rimane Bar Modo. La mia birra preferita si trova al Mutenye (il loro happy hour è un must!). Per i cocktail Jukebox rimane abbastanza imbattibile. La fissa per il ramen mi porta spesso da Olmo e la fissa per le Peroni a 2 euro mi porta spesso al Freakout. Poi un pezzo di cuore ce l’ho a Zoo dove lavoro 3/4 giorni a settimana e dove tra torte, panini e pure cocktail a volte non so cosa scegliere.
In questo periodo cosa ascolti?
In questo periodo sono abbastanza in fissa con Hubris di Oren Ambarchi, l’album S/T degli Anxiety, Willie Lane con A Pine Tree Shilling’s Worth of Willie Lane e 75 Dollar Bill – Wood / Metal / Plastic etc.
Qual è la tua definizione di festa?
La mia festa preferita è quella dove ad un certo punto i confini si sfocano completamente, e non intendo per via di qualche sostanza (chi mi conosce sa che sono straight edge praticamente), ma perché succedono tantissime cose contemporaneamente, il volume è altissimo e l’imprevisto è dietro l’angolo.