Mai come oggi dimensione locale e globale sono elementi distinti e allo stesso tempo in fortissima comunicazione. Si alimentano a vicenda, traendo ispirazione, per affinità o contrasto, l’una dall’altra, grazie soprattutto al modo in cui la cultura può viaggiare online in un secondo, da una parte all’altra del mondo. Da questa interconnessione costante nasce Urban Talks: una finestra che ZERO apre sul mondo, racchiudendo sguardi e riflessioni su città e territori. Conversazioni con musicisti, dj, performer e artisti – quelli bravi veramente, che non manchiamo mai di segnalarvi quando passano dalle nostre parti – per riflettere insieme su passato, presente e futuro delle nostre metropoli, sul concetto stesso di città e su come la dimensione urbana finisca per legarsi indissolubilmente ai diversi percorsi disciplinari. Un tentativo di disegnare una mappa globale di luoghi, tendenze artistiche e dinamiche socioculturali che, prima o poi, confluiranno anche qui da noi, se non l’hanno già fatto.
La prima chiacchierata l’abbiamo fatta con Orieta Chrem e Selvagia, producer e dj peruviani di base a Lima che a fine settembre hanno suonato al 30Formiche, invitati da La Diferencia. Elettronica creativa che passa agilmente dall’ambient contemplativa alla bass music da dancefloor. Nella loro musica c’è un’oscurità capace di assorbire la luce e trattenerla, restituendola poi piano piano: uno sciame di pulsazioni sottocutanee per guidare l’ascoltatore attraverso un rito esorcizzante. Senza diventare mai fine a se stesso, mantenendosi invece sempre ricco di sorprese e stimolante.
Dove siete nati e qual è la vostra città oggi?
Orieta Crem: Sono nata a Lima e ci vivo tutt’oggi. Per un po’ ho vissuto a Barcellona, mentre studiavo, ma la mia città è Lima.
Selvagia: Io sono nato a Iquitos, nella parte della giungla peruviana. Per sette anni ho vissuto a Los Angeles, ma da anni ormai sono stabile anche io a Lima.
Qual è la città che pensate vi abbia modellato, come persone ancora prima che come musicisti?
OC: Barcellona è stata come una seconda casa, anche per la possibilità di conoscere persone da tutta Europa e iniziare con loro ad organizzare eventi. Però sicuramente la città più importante per me è Lima. Tra l’altro, penso che negli ultimi anni la sua scena musicale sia cresciuta molto, e in generale anche in America Latina. Ci sono più connessioni, più progetti editoriali, più collettivi.
S: Sembrerà una risposta completamente a caso, ma la Papa Nuova Guinea. È un posto che vive nei miei sogni, ci scherzo sempre. Comunque è difficile connettersi con un luogo in modo così forte, Roma stessa mi ricorda tanti posti. Non so se ho una risposta…
OC: Se valgono i sogni allora io dico il Giappone! [ndr. ride]
Rimanendo nel reame dei “sogni” e delle possibilità: un luogo che invece avete sempre ammirato da lontano e che vi ha ispirato al pari di quello in cui siete cresciuti?
OC: Per diverso tempo sono stata affascinata da Porto e dal Portogallo, mi ispirava molto la musica che si produceva lì. Infatti, quando ci sono finalmente andata ho avvertito una connessione speciale: una sensazione di déjà-vu, come se ci avessi già vissuto.
S: Cazzo che domande difficili! [ndr. ride]. Pensandoci, mi viene in mente l’Africa. Siamo appena stati a Kampala, in Uganda, per il Nyege Nyege Festival e con un ragazzo incontrato lì parlavamo di quanto i ritmi africani e sudamericani fossero simili. Tanti di noi guardano all’Europa un po’ come se fosse la terra promessa, ma in realtà potremmo entrare in uno studio e produrre roba fra di noi e con tutta probabilità sentirci più “a casa”.
OC: Questa è la cosa bella di Lima e del Perù, ci sono così tante influenze, specialmente dall’Africa.
Andiamo su una domanda forse più semplice: com’è oggi la scena musicale di Lima?
OC: È cambiata tanto. Ci sono più collettivi che si danno da fare, prima era tutto più frammentato. Storicamente c’è una grande scena tech-house, un po’ come a Roma, però le cose adesso sono più interessanti. Il problema è che è molto difficile trovare i posti giusti dove suonare. Puoi provare ad andare nei locali nel centro di Lima, ma chiaramente poi devi adattarti ad un certo tipo di stile, di luogo.
La domanda successiva sarebbe stata proprio questa, quali sono i club che consigliereste a qualcuno che viene da fuori.
S: Sinceramente, non ce ne sono. Le cose emergono sporadicamente. Ad esempio, noi due facciamo parte di un collettivo, La Rara, e per realizzare eventi collaboriamo con altri: abbiamo tutti bisogno di aiuto reciproco. Non c’è un locale stabile e storico. Tra i collettivi però possiamo citare Lima Dub Club, Matraca, Sacrilejo label e Casa locasa.
OC: Lima cambia sempre pelle. Si tratta quindi di fare brainstorming con altri collettivi, chiedere se conoscono un posto dove fare una cosa di un certo tipo. Poi magari succede che per qualche mese quel luogo diventa IL posto dove andare.
S: Sì e tutti gli eventi si concentrano lì, fin quando non arriva la polizia e allora avanti il prossimo! [ndr. ride]
Beh alla fine è così anche qui a Roma, con qualche posto che è l’eccezione e riesce a resistere per anni, spesso cambiando pelle
OC: Pensi sia cambiata la situazione quindi? Io sono venuta a Roma nel 2004 per motivi di studio. Ricordo che ogni notte suonavamo in club diversi, ne ero rimasta incredibilmente colpita.
Diciamo che negli ultimi dieci anni le cose non sono andate migliorando ecco…
OC: Sono scomparsi i club? C’entra la pandemia?
Sì, hanno chiuso diversi luoghi importanti. C’entra sicuramente anche la pandemia per quanto riguarda gli ultimissimi anni, purtroppo però si tratta du un processo iniziato molto prima… Ma parliamo di Lima. Quali sono i generi e suoni che dominano in città, mainstream e underground?
S: Se parliamo di mainstream tutti ascoltano salsa e cumbia. Le feste in cui viene suonata sono assurde, pienissime.
OC: Poi tanto reggaeton chiaramente. Se parliamo di cose più underground dico di nuovo la tech-house, bass music ed elettronica in generale.
S: C’è una nuova ondata di musica sperimentale in Sud America, penso che stiamo crescendo insieme, cercando un’alternativa…
OC: Un’idea che abbiamo avuto con il nostro collettivo è stata quella di iniziare gli eventi prima, soprattutto durante la pandemia. A Lima siamo abituati a uscire veramente tardi, per cui abbiamo cercato di creare dei momenti anche di semplice relax, dalle cinque del pomeriggio fino a prima della mezzanotte. Con grande alternanza musicale.
Beh interessante
S: Sì è stata una cosa recepita molto bene. Gli eventi mainstream di cui parlavamo prima sono incentrati su un solo genere, qui le persone accettavano di venire a scoprire cose nuove.
OC: Poteva capitare di venirti a sentire un selezionatore di cumbia e uno di ambient. Avevamo anche un mercato dove vendere vinili, vestiti.
Una vera e propria “esperienza” totale più che un evento classico.
OC: Sì, c’era un’idea comunitaria dietro.
S: Veniva chiunque ad ascoltare, non solo altri musicisti.
Visto che abbiamo parlato tanto di mainstream e underground mi viene spontaneo chiedervi come interagiscano i due mondi a Lima.
S: Penso che i confini siano molto sfumati.
OC: Per me è una questione molto interessante relativa sia a Lima che al Perù. È sempre difficile capire cosa interessi a una persona: non c’è mai tanta rappresentanza, ad esempio, nel modo di vestirsi. Siamo sempre stati un mix, qualcosa che è ben rappresentato dalla nostra cucina. Amiamo tutto ciò che è “fusion”.
Quindi c’è mescolanza, anche in termine di pubblico?
S: Penso di sì e penso anche che sia nostro compito portare le persone fuori dalla loro comfort zone, fargli esplodere il cervello qui e ora. È quello che proviamo a fare con la musica.
Continuando a parlare di massimi sistemi, trovo che gli stereotipi siano molto divertenti. A volte sono completamente falsi, altre poggiano su un fondo di verità – per dire io sono un italiano che non mangia la pizza. Quali sono quelli “veri” e quelli “falsi” che girano su Lima?
S: Ci vestiamo tutti uguali! [ndr. ride]
OC: Il discorso sugli stereotipo lo collegherei a quello che abbiamo detto sui pubblici diversi, che magari vanno in un posto e non nell’altro basandosi, appunto, solo su stereotipi. Stereotipi che poggiano soprattutto sulle differenze socio-economiche, che in Perù e a Lima sono molto più marcate che in Italia. Da un “pituco” – una persona un po’ snob – magari ci si aspetta che vada in un club gigante in cui c’è del reggaeton e che non abbia l’apertura mentale per infilarsi in una situazione un po’ casuale in cui si suona roba particolare.
S: Probabilmente perché non è a conoscenza di quest’altro tipo di situazioni. È per questo che penso che la musica che facciamo io e Orieta sia così necessaria in un posto come Lima e il Perù. Producer più giovani spesso si scoraggiano perché non vedono alternative, mentre si accendono quando finalmente vedono una crew che porta avanti un discorso interessante.
OC: A Lima servirebbe tantissimo un progetto come ZERO perché è sempre difficile scoprire dove sono gli eventi, voi fate una mappa veramente completa di tutti i generi e locali della città.
Com’è stato crescere a Lima? Avete avuto dei modelli cittadini a cui ispirarvi?
OC; In questo senso Lima è cambiata moltissimo. Quando ho iniziato a suonare, all’incirca nel 2002, c’erano forse cinque donne dj in tutta la città. Per questo guardavo più all’estero e ho dovuto imparare a fare la dj da sola, in camera mia, inventandomi come far funzionare le cose. In un certo senso è stato divertente: non avere guide o modelli mi ha costretto a sviluppare creatività, uno stile personale. Adesso sicuramente ci sono più luoghi dove studiare e persone a cui guardare.
Dal 2002 al 2022 sono vent’anni precisi. Vi sentite un'ispirazione per le nuove leve?
OC: Sì, abbiamo anche fatto alcune lezioni in studio. È stato interessante osservare le nuove generazioni, che magari già hanno familiarità con software di registrazione etc.
S: Anche perché si può effettivamente imparare tutto su Youtube, io stesso spesso mi guardo i tutorial. Ti viene quasi da dire: che cazzo ci vado a fare a scuola!
Ci sono delle tematiche, dei topoi che sono propri della vostra città e che pensate si siano trasferiti nella vostra musica?
OC: Ci sarebbe tantissimo da dire in questo senso. Ultimamente sono stata molto influenzata da un amico che fa parte di una comunità nella giungla: è un maestro di Ayahuasca da generazioni. Conosce molto bene gli Icaros, i canti che ti guidano quando prendi la pianta. Producono energia, ti guidano nel trip: la sua voce è incredibile, trasfigurante. Mi vengono i brividi solo a pensarci. Mi è venuto spesso a trovare in studio e abbiamo iniziato a collaborare, l’ho registrato mentre cantava ed è stato magico, non mi aspettavo che sarebbe stato così potente.
S: Questa è un po’ la magia di Lima e del Perù. Il sistema che usiamo di sampling ed elettronica decomposta ci si sposa benissimo. Possiamo andare sulle Ande e parlare con un signore che suona una musica tradizionale, che sarà poi diversissima da quella di un altro punto dove si fabbricano strumenti a mano unici, riportare tutto in studio e mescolarlo con l’elettronica. Per dire, la stessa scena jazz in Perù non è jazz, ma è più vicina alla sperimentazione e al noise.
È un fare “digging” nella vita vera in pratica, invece che in un negozio di vinili…
S: Sì ed è infinito! C’è una varietà incredibile. Spesso parliamo di musica che non era neanche stata concepita in quanto tale, ma per essere un’espressione fisica, corporea, per visitare altre dimensioni. L’aspetto mistico in questo senso è vastissimo ed è simile a quello che uno prova quando suona e scrive musica: cercare di esprimere qualcosa che non si riesce a mettere in parole. Avere il privilegio di poter portare in giro per il mondo tutto questo è enorme.
OC: Sì è vero, a Lima e in Perù il suono e la musica sono direttamente collegati all’aspetto rituale, guaritore. Per me questo è anche il senso di essere un dj: connettere energie e persone, guidarle in un viaggio, nel presente.
S: Anche l’elemento della natura e dei suoi suoni è fortissimo. Ricordo che da bambino avevo questi incubi ricorrenti che non erano mai messi a fuoco, ma avevano questi suoni organici strani [ndr. mima con la bocca quello che sembra un mix tra l’accartocciarsi di un pezzo di carta e un ruscello che scorre solitario in una grotta]. Ne ero terrorizzato e invece ora mi rendo conto che la mia musica in realtà è molto simile al suono dei miei sogni. È come se fossero la più diretta manifestazione del mio inconscio e dell’ambiente in cui sono cresciuto e in cui mi sono formato. Penso sia la cosa più vicina a un discorso sul “divino”: cerco di tenermela stretta.