Attraverso Piazza Luigi di Savoia nel vivo di una sinestesia percettiva. Col timpano sento il sapore rosso del sangue direttamente dalle auricolari. Arrivo all’incrocio via Scarlatti – via Settembrini. L’indirizzo è quello de La Cùpa, dove Vinicio Capossela, come un Faust cantautore, produce i suoi concept.
«Salvatore, che da dieci anni grida contro il mondo dal marciapiede. Ruben, il poeta, appostato discretamente all’angolo con via Settembrini. La signora Amalia, la fiorista, memoria vivente del quartiere dai tempi del dopoguerra.»
Vinicio, ho sempre sospettato non fosse un caso la scelta di collocare La Cùpa, la tua casa di produzione, in via Domenico Scarlatti, clavicembalista del XVIII secolo dal cognome fiammeggiante. La Cùpa è anche il nome del tuo album del 2016. Raccontaci come hai maturato questa ispirazione e come si è evoluta.
A dire la verità la caduta in Via Scarlatti è stato proprio un atto del fato. Venerdì 17 novembre 1998, mentre mi recavo a visionare una possibile casa in affitto nella via, sono stavo investito in modo lieve da un’auto e ho avuto la mia prima visione del quartiere da sdraiato sull’asfalto. Una frattura trimalleolare. Davanti al mio campo visivo si è affacciata una piccola folla: il salumiere, l’edicolante, qualche passante, di quello che sarebbe poi diventato l’incrocio di strade in cui mi sono radificato più a lungo. Da terra ho guardato bene il nome della strada e mi è piaciuto: Domenico Scarlatti, il grande innovatore del clavicembalo. È in buona compagnia. Incrocia con Benedetto Marcello e altri insigni musicisti. Dunque è stato il fato. Altri lo avrebbero preso come un cattivo presagio, io pensai che se lì ero caduto era segno che lì avrei dovuto fermarmi. Più tardi, dieci anni dopo, presi quello che era stato uno dei molti negozi smessi di tessuti all’ingrosso. Prima doveva essere stata una drogheria, c’è ancora l’insegna. Lì dentro abbiamo stabilito la sede di questa creatura corvide e notturna che abbiamo posto nel logo de “la Cupa”.
Nel paese di mio padre, in alta Irpinia, c’è un luogo in cui sono ambientate diverse leggende, dove si nascondono le creature che non vogliono chiarirsi allo sguardo. La Cupa è la parte in ombra, del paese, quella che appartiene più al mondo della Verità che a quello della Realtà. La cupa è in un certo senso il mondo al rovescio, la parte oscura e inconscia di noi.
Per questi motivi le canzoni raccolte nel disco doppio ambientato da quelle parti si chiamano “Canzoni della Cupa”. Ma la Cupa è anche il logo e il nome dell’entità giuridica con la quale intraprendiamo produzioni musicali ed editoriali.
Sei partito dal jazz e dallo swing per poi esplorare più a fondo il blues delle radici con Tom Waits come riferimento. Hai poi virato con originalità verso la canzone italiana d’autore, rifacendoti alle musiche regionali italiane e non solo. Ci sono dei luoghi della musica ai quali senti di appartenere di più?
Il jazz, lo swing sono stati una famiglia. È un tipo di mondo in cui incontri dei maestri, qualcuno che si prende la briga di insegnarti qualche trucco, soprattutto da giovane. Quando si hanno riferimenti così ingombranti, che vengono da una cultura lontana, è difficile trovare una strada per parlare, per cantare delle cose che hai vicino. Con il passare del tempo i maestri si sono fatti minimi, gente con la quale potevi fermarti a parlare, oppure completamente astratti. I luoghi della musica che mi hanno sempre interessato sono quelli dell’inquietudine, dell’euforia e della melancolia. Tutte le musiche che stanno dal lato buio della strada, quello in cui è possibile perdersi nelle deviazioni e allungare la strada. Le musiche che necessitano di un sacrificio per essere apprese.
Come un rapsodo, ricuci i regionalismi musicali equilibrandoli in un centro che li irradia poi verso pubblici universali. Cosa significa geolocalizzarti in questa città e nello specifico in questo quartiere a ridosso della Stazione Centrale?
Questo quartiere ha una natura cosmopolita. Potrebbe essere una strada di una qualsiasi metropoli, anche estera. Gli stranieri, la gente di passaggio, i tram, i senzatetto, i mendicanti, i nomadi, il mercato, i negozi di telefonia, e poi il grande magnete della stazione centrale che trattiene a sé le esistenze che hanno perso il ritorno. I primi tempi stavo a lungo di notte a guardare le strade vuote. Sembrava un film di Jarmush o di Kaurismaki. Ci si può confondere e osservare la vita della città, le sue esistenze minime. Come nel film “Smoke” piazzare una macchina fotografica e fotografare lo stesso angolo tutti i giorni per trovarlo sempre impercettibilmente diverso.
Una specie di non luogo brulicante di umanità.
Ludico, grottesco, meticcio… il tuo repertorio descrive una personalità coerente nel suo eclettismo. La sostanza delle figure retoriche da te esibite, come cantautore ma anche come scrittore, ha gestazione dentro immaginari legati alle storie e alle letterature dell’uomo, alle tradizioni dei popoli mediterranei e non solo. Ci sono storie che fanno a caso tuo anche in via Scarlatti e dintorni?
Tutto il libro Eclissica inizia con l’umanità e poi l’assenza di umanità osservata da quell’angolo. Più che le storie vere e proprie, che pure sono venute, è il punto di vista, lo stato d’animo in cui questo luogo pone a fare al caso mio.
Poi naturalmente ci sono le storie di umanità. Salvatore, che da dieci anni grida contro il mondo dal marciapiede, Ruben, il poeta, appostato discretamente all’angolo con via Settembrini. La signora Amalia, la fiorista, memoria vivente del quartiere dai tempi del dopoguerra.
Nella tua Petite Planèt di quartiere quali sono i posti da non mancare?
Mi contento di guardare passare il tram Uno cercando di inseguirlo con il miraggio di finire al cinema Beltrade, oppure, per l’altro verso, ai giardini di Porta Venezia, a tutta la sfilata dei bastioni tra i quali passa con la grazia di un trenino elettrico dell’infanzia. Andare al mercato di Benedetto Marcello di sabato o di martedì mattina, quella è sempre una festa. L’osteria del Treno in via San Gregorio, e il suo grande salone che fu del sindacato ferrovieri. Tutta la struttura della stazione Centrale, la libreria popolare di Via Tadino, la vineria naturale Hic in via Lazzaro Spallanzani, la cricca del Bar Scarlatti e la fioreria da gruppo Tnt che ci sta a lato.
Da anni sei ormai fondatore e direttore artistico dello Sponz Fest a Calitri. Da “paesologo” inspiri ossigeno irpino durante il periodo più caldo dell’anno ed espiri produzioni creative a La Cùpa. Credi che queste tue creature si debbano alimentare a vicenda per poter vivere?
Non sono paesologo. Il titolo è già occupato. L’Irpinia, in cui non sono cresciuto (sono
cresciuto in Emilia) è per me il luogo del mito, il punto d’accesso all’arcaico, alla millenaria civiltà animistica della terra. Il luogo del vuoto e del selvatico. È un buon contrappunto al luogo del pieno e dell’impersonale che è la città. Particolarmente questa città: un luogo che mi ricorda i non luoghi, le stanze di hotel, i punti di passaggio che si lasciano liberi di essere riempiti con la tua personalità, ma dai quali non devi cercare personalità.
Giullare romantico, saltimbanco eretico, satiro. Su YouTube si può vedere la tua intervista da Luttazzi nel 2001. Nel 2021 a cosa pensi riguardandoti?
Non saprei, sono sempre stato uno studioso. Nel 2001 studiavo alcune cose, ora ne studio altre.
Progetti futuri. Ci fai sbirciare nella tua sfera di cristallo?
Preparo un disco di canzoni per le feste per quando ci sarà ancora qualcosa da festeggiare.