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Volantis

Accogliere ogni stimolo, emozionarsi all’imprevisto, anche con l’AI per il progetto di Audi. Rintracciare l’empatia per non perdere mai la propria personalità

Scritto da Nicolò Tabarelli il 3 dicembre 2021

In occasione del C0C, l’evento firmato C2C e promosso da Audi, c’è Artech Performance: un’installazione firmata Audi che esplora l’utilizzo dell’AI nella produzione musicale. Si tratta di provare a sperimentare una creatività silicea, algoritmica; un’opera di videoarte che è un turbinio totalmente arbitrario che rielabora immagini randomiche e sonorità precise: quelle dei tre artisti selezionati da Audi, musicisti e compositori che da tempo si confrontano tra tradizione e innovazione, tra analogico e digitale. 

Volantis, nome d’arte di Alessandro Carnevali, si divide tra il lavoro in studio come produttore per le major, la cura senza compromessi del suo progetto e gli impegni come dj e curatore di alcune delle serate più apprezzate della notte milanese. Diplomato alla prestigiosa Scuola di Alta Perfezionamento Musicale (APM) di Saluzzo, ha sviluppato un metodo di lavoro originale che gli permette di accogliere le infinite suggestioni della musica contemporanea senza perdere la sua personalità. Le prove sono pronte per le vostre orecchie da Milano|Johannesburg, uscito l’anno scorso, al recentissimo Octava Dimension in collaborazione con Paula Tape. 

Ti sei diplomato all’APM di Saluzzo. Cosa ricordi di quei giorni al Monastero dell’Annunziata? Che clima c’era?

Per me Saluzzo è stata un’esperienza davvero magica perché sono arrivato lì e mi sentivo diverso dagli altri ragazzi. Ero l’unico a voler fare il corso di produzione senza essere uno strumentista. Eravamo in quattordici e tra noi c’erano diversi talenti, tra cui il percussionista del Teatro Regio di Torino e un ragazzo, il più piccolo di tutti, che suonava il piano improvvisando in modo strabiliante; il primo giorno sono arrivato in questo ex-convento del 1600, ho sentito le note di un pianoforte rimbombare in tutto l’edificio e sono entrato nella stanza dove ho trovato quello che all’epoca mi sembrava quasi un bambino, Angelo. Ho capito subito che era un posto di persone fuori dall’ordinario e che mi ci sarei dovuto confrontare: io arrivavo con un retroterra diverso ed ero l’unico che era partito direttamente come dj e producer di musica elettronica.
Prima di partire per i test d’ingresso, dopo essermi laureato in comunicazione e dopo diversi anni che vivevo da solo, avevo fatto una scommessa con mia madre, “se mi prendono alle selezioni mi supportate un anno altrimenti continuo con il mio lavoro come organizzatore di eventi in agenzia”.
Fortunatamente l’APM è stata un’esperienza super formativa che consiglierei a tutti e ho dei ricordi bellissimi anche se nel mezzo ho avuto un’esperienza traumatica: la prima sera che sono tornato a Milano da Saluzzo, ho messo i dischi ad una serata e mi sono procurato un acufene bilaterale da trauma acustico. Ho passato quasi un anno disperato, in studio dovevo stare sempre con i tappi e non sono più riuscito a fare serate, i volumi alti mi facevano stare male e soffrivo molto non potendo fare quello che ho sempre amato ma poco a poco mi sono ripreso e i bei ricordi dell’APM hanno la meglio: è un’esperienza immersiva, rimani lì circa otto mesi e ti leghi a delle persone che non avresti mai conosciuto se non fosse stato per la musica.
Subito dopo l’APM ho fatto uno stage in uno studio tra i migliori in ambito di sonorizzazioni per pubblicità, Sing Sing, all’epoca avevo anche il mio studietto personale vicino ad Alex Trecarichi, uno dei top mix engineer italiani, il quale mi ha indirizzato aiutandomi nel mio percorso di apprendistato. Nel mentre non ho mai smesso di collaborare con Club Nation con cui tutt’ora ho un rapporto che negli anni si è sempre più consolidato.

Il tuo lavoro non ha un percorso di formazione prestabilito, sono molti i dj che sono totalmente autodidatti. Come ti sei approcciato a un’educazione formale dopo gli inizi?

Diciamo che la formazione didattica mi è servita più che altro per ricevere le basi come fonico e produttore, quindi per approcciare al mondo audio in generale. Onestamente non credo che possa esistere una scuola per dj: ti possono insegnare il “mettere a tempo” ma oltre a quello c’è molto altro che si impara solo mettendo musica per anni davanti alla gente e avendo fame di ampliare il tuo catalogo. È fondamentale non essere monotematico e non pretendere che le persone entrino a prescindere nel tuo viaggio: il tuo compito è far divertire la gente che hai davanti. Mi sentirei quindi di separare il lato dj e il lato produttore; io ho sempre voluto fare il dj, per necessità ho approcciato anche alla produzione, ma l’obiettivo iniziale era essere autonomo nello sviluppare dei dj tool più che delle vere e proprie canzoni. Per me l’APM è stato un percorso che mi ha dato gli strumenti per decidere cosa fare e come farlo. Una volta che sei uscito da lì puoi scegliere se fare il fonico, l’ingegnere del suono, il produttore o il sound designer. A me è servito per avere più consapevolezza della strada che volevo intraprendere e alla fine di tutte queste attività papabili non ne ho esclusa nemmeno una: ho aperto uno studio, AudioXL, in cui io, i miei soci e i nostri collaboratori ci occupiamo di audio a 360 gradi. Dalla produzione alla consulenza tecnica per eventi live avendo come filo conduttore il dispendio di energie soltanto per progetti in cui crediamo, che ci danno stimoli e che ci stanno a cuore.

Sei stato resident dj del Dude, un club compianto. Nonostante i locali abbiano riaperto, Milano sembra essersi un po’ spenta con la pandemia e fatica a riprendersi. Puoi farci un’analisi sulle prospettive future della nightlife in città?

Partiamo dal presupposto che il clubbing è giustamente composto all’80% da giovanissimi: io adesso ho trent’anni e sono uno a cui piace farsi le serate, ascoltare la musica, anche da cliente, e per me rinunciare a quel tipo di socialità è quasi impossibile. Avevo iniziato a curare la programmazione di Superlove Club appena prima che iniziasse la pandemia, fortunatamente i proprietari sono stati bravi a tenerlo in vita ma il Covid-19 ha tagliato le gambe a una serie di vecchie istituzioni, tra cui l’Ohibò che aveva una forte proposta live che apprezzavo molto.

Il Dude, come sai, ha chiuso prima della pandemia ma ha segnato un capitolo del clubbing milanese e italiano che rimarrà nei cuori di molti. Oggi ci sono dei ragazzi nuovi che cercano di farsi spazio e con i quali mi sto confrontando da quando c’è stata una riapertura consistente dei club. Ovviamente le vecchie volpi del settore sono lì pronte a ripartire e lo stanno facendo in un modo diverso da quello a cui erano abituati pre-pandemia: penso all’Apollo o al Tunnel che stanno facendo una programmazione meno internazionale e questa magari potrebbe essere l’occasione di creare una scena autoctona, non esterofila e carica di personalità che stanno facendo cose concrete per la musica in Italia. Per quanto Milano sia una figata, una scena milanese unita non c’è mai stata, al contrario di quello che hanno fatto a Napoli, per esempio, dove sono riusciti a creare una microscena spalleggiandosi a vicenda tra artisti, addetti ai lavori e riuscendo ad essere apprezzati all’estero anche per questo.

A Milano ci sono sempre stati più lupi solitari ma ad oggi forse si stanno accorgendo che da soli non si va da nessuna parte: probabilmente questa situazione paradossale può rivelarsi una grande occasione per creare un nuovo modo di fare le cose.

In un’intervista raccontavi di aver investito tanto tempo nella ricerca del tuo suono? Quando hai capito di averlo trovato? È stata una realizzazione improvvisa o è una consapevolezza che monta per gradi?

Di solito la gente impara a fare musica facendo sound-alike di brani di altri. Per esempio: “sono un appassionato di house, mi scarico un tot di dischi, provo a rifarli e capisco quali sono le regole del gioco per emulare quel suono e quelle stesure.” A causa della mia pigrizia questa cosa non l’ho mai fatta. Ci ho messo più tempo di tanti altri ad essere soddisfatto delle mie produzioni perché non seguivo una linea guida ma provavo a divertirmi e a lasciarmi trasportare, finché un giorno non mi sono reso conto che le strutture che si generavano dal flusso in studio avevano un loro senso. Il primo ep che ho pubblicato nel 2019, Passaggio Liquido, è stato il risultato di questo approccio. Poi a dire la verità ho anche avuto a lungo la paranoia di pubblicare qualcosa a nome mio, avevo partecipato a diverse produzioni per alcuni cantanti, ma prima di pubblicare come Volantis, che è il mio progetto da solista, ci ho messo davvero un botto di tempo. Trovo che spesso ci sia poca personalità nella produzione: si fa della musica che è derivativa e che rientra in alcuni schemi già creati da qualcun’altro. Nel mio piccolo cerco di farmi ispirare dalla musica che mi piace rimanendo concentrato sulla mia personalità e cercando di regalare delle emozioni che siano riconducibili a me. Un altro esempio di questo metodo è Milano|Johannesburg, un ep nato al ritorno di un viaggio in Sudafrica che ho fatto con Nicodemo nel 2019: ho creato una serie di brani ispirati alla cultura musicale Africana mantenendo le atmosfere più dreamy ed elettroniche che sono il mio filo conduttore.

A cosa stai lavorando ultimamente? Come si fa a continuare a crescere in un ambito con dei confini precisi come l'underground?

Ti dico la verità: penso che nell’ultimo periodo questo divario tra mainstream e underground si sia assottigliato. Parlando dell’Italia, per esempio, una cosa che è nata completamente underground come l’hip hop è ora totalmente nel mainstream. La musica deve essere bella e punto. Lato mio per non vivere il progetto Volantis con la paranoia di dover essere ascoltato da x persone o dover sviluppare x economie ho creato un altro moniker con cui lavoro come produttore in ambito major; 47Milano. Non sono da solo in questo progetto, siamo un collettivo composto da me e i ragazzi con cui collaboro in studio: spesso lavoriamo a otto o più mani sui progetti di diversi artisti e abbiamo deciso di firmarci con un unico nome, rinunciando alla nostra individualità per lasciare che parlasse la musica.

In questo modo sono sereno e riesco ad avere un progetto, Volantis, che è quello in cui per crescere punto a fare quello soddisfa prima di tutto me stesso, nel mentre porto avanti l’attività dello studio e collaboro con tanti altri artisti, produttori e musicisti con cui posso dare sfogo a tutta la mia creatività senza limiti di genere ma cercando di fare sempre e solo quello che mi piace.

Ci sono un sacco di progetti in ballo su tutti i fronti: lato elettronica ti faccio uno spoilerino a proposito del fatto che sarò curator, insieme ad Acidgigi, della prossima compilation di Burro Studio prevista per fine gennaio/inizio febbraio, BS Radio Vol II. Sono contento di essere stato coinvolto dai ragazzi di Burro e sono sicuro verrà fuori una bella raccolta di brani di diversi artisti super interessanti. Oltre a questo, ho in cantiere un paio di collaborazioni a cui tengo molto e che sto cercando di finalizzare oltre ad un’idea di album da sviluppare con calma e con il 100% di tranquillità per farmi ispirare.

In partnership con Audi, al C0C di quest’anno è stata proposta The Artech Performance, un’installazione che vuole dimostrare la capacità dell’AI di prodursi in un atto creativo. Che scenario ti immagini per il 2031 nel rapporto tra dj umani e artificiali?

Lo spunto di riflessione dal mio punto di vista parte facendo un focus sui soggetti che influenzano la performance: sviluppo artistico, creatività, empatia e contesto sociologico.

Il lavoro del dj si basa sull’empatia e sulla creatività quindi non credo possa essere del tutto sostituito da una macchina, a meno che non venga sviluppata integrando delle tecnologie che riescano a percepire il grado di divertimento del pubblico, e anche in quel caso probabilmente sarebbe difficile che la macchina possa programmare l’effetto sorpresa, fondamentale durante la performance di un dj (a volte ti trovi a mettere dei dischi che nemmeno tu avresti pensato di mettere, solo perché un momento o una situazione li hanno richiamati alla tua memoria durante il set). Diverso potrebbe essere il discorso per un live di musica elettronica gestito completamente dall’AI: in quel caso potremmo assistere alla performance artistica di una macchina che propone della musica sua, senza pretendere che empatizzi con il pubblico e soprattutto che faccia qualcosa di completamente inaspettato seguendo unicamente il fil rouge delle emozioni. In ogni caso non mi sento di fare pronostici precisi, la scienza spesso è un po’ come l’arte per noi comuni mortali, imprevedibile.