Istruzioni per l’uso: astenersi schizzinosi, stomaci deboli e nostalgici del periodo colonialista del ventennio. Da Warsà si va ben motivati e pronti ad essere catapultati tra usi e costumi di quella zona tanto remota che è il Corno d’Africa. Con sommo dispiacere apprendo che pochi alla mia tavola – ingegneri matematici poverini – sanno collocare con esattezza l’Eritrea, nazione da cui questo splendido posto prende ispirazione e traspirazione (capirete dopo perché): non si trova affianco all’Algeria e nemmeno all’Angola, è in via Melzo mi fanno notare, confina con Porta Venezia. Come dargli torto a questi matematici, ne sanno sempre una più del diavolo, ma hanno proprio ragione e lo si capisce appena si varca la soglia di Warsà, ristorante – spero si sia capito – eritreo. Il forte odore di spezie, tra cui spicca il chiodo di garofano, è sicuramente la prima cosa che si percepisce, e unito all’arredo etnico, le suppellettili stile Masai ai muri e i grandi tendaggi che avvolgono il soffito che manco Gheddafi accampato in visita a Roma, creano uno stile un po’ ridondante che però non stanca. Ci sediamo attorno ai tipici tavoli bassi, sono preoccupata per la mia schiena, invece sarà che i 30 sono i nuovi 18 ma trovo le sedute in legno intarsiato più comode del mio divano Ikea. Qui c’è poco da scegliere: il menu prevede un solo grande protagonista, lo zighinì, uno dei piatti principali della cucina eritrea.
Un piatto unico e completo servito su forme di pane enjera (una specie di crêpe spugnosa di colore grigiastro e dal sapore leggermente acidulo), con sopra spezzatino di pollo o manzo, qui anche in versione vegetariana, verdura cotta, legumi e insalata fresca. Poche regole, si mangia in condivisione da un grande piatto e lo si fa con le mani. Non provate come dal giappo a chiedere le posate e le donne non si preoccupino della manicure appena fatta. Qui si affonda la mano con il pane in un lussurioso spezzatino, accompagnando il fine gesto con leccata finale delle dieci dita. Vi assicuro che la bontà dello zighinì vale tutto il rituale a patto che si amino i sapori decisi, speziati e che si sia dotati di uno stomaco ben resistente (da qui la sopracitata traspirazione che accompagna la digestione). Evitiamo di fare il bis di spezzatino perché tutto sembra lievitarci in pancia – i matematici cercano di studiare un algoritmo per smaltire le calorie – e provati, ma sodisfatti per aver appagato la sana voglia di etnico che giunge almeno una volta a settimana, chiediamo un conto giusto e alla portata di tutti. Istruzioni dopo l’uso: tornare a casa di corsa prediligendo il percorso più lungo.
Martina Di Iorio