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I dischi bellissimi usciti da inizio anno #4

Quarto appuntamento con la rubrica dedicata alle uscite discografiche più recenti

Scritto da Chiara Colli il 21 aprile 2020
Aggiornato il 8 maggio 2020

Mark sonnecchia ascoltando i suoi vinili preferiti (foto di Gaetano Giudice)

Era nata come una parentesi musicale, diciamo così, di ascolto intimista per «arginare la paranoia del virus» recuperando i dischi persi mentre eravamo in giro per eventi. Ora però ci abbiamo preso gusto e, un po’ per continuare a stare sul pezzo, un po’ per riempire la copiosa quantità di momenti casalinghi o di solitudine con dischi belli ma pure nuovi e non troppo “scontati” (consapevoli della relatività del termine), gli appuntamenti successivi si sono resi praticamente inevitabili. Quasi una necessità, come probabilmente si riveleranno anche quelli a venire.
Ma sia chiaro: non staremmo qua se non fossimo fermamente convinti che, ad esempio, andare a un concerto, ascoltare musica dal vivo, ciondolare o muoversi scomposti mentre il suono arriva in faccia e il vicino si muove con noi più o meno a tempo, condividere poi le proprie opinioni e accapigliarsi post concerto sulle impressioni a caldo, resti il miglior modo in assoluto di fruire la musica. Anche per questo, il supporto totale e incondizionato di ZERO va a tutte le piccole realtà, le agenzie di booking e i club che organizzano concerti e che per tutto l’anno ci fanno ciondolare e accapigliare sottopalco, arricchendo la vita culturale e sociale delle nostre città.

Intanto di seguito, e in ordine rigorosamente sparso, una manciata di dischi belli usciti dall’inizio del 2020 (o di imminente uscita) che potrete ascoltare con insolita attenzione in beata solitudine nella vostra stanza. Per arrivare preparati al prossimo concerto, per programmarne uno nuovo, per sopportarne l’annullamento o semplicemente per arginare la paranoia da contagio.

ALBERTO BOCCARDI – “Cairo Primo” (Oltrarno Recordings)
Il Cairo come non l’avete mai vista e sentita. Non la città afosa e iponotica che trasuda dai ritmi dei Dwarfs of East Agouza, ma la metropoli tra le più popolose d’Africa raccontata attraverso il radar di un ingegnere aereospaziale diplomato al conservatorio, con un passato in band punk-hardcore e un presente diviso tra la capitale d’Egitto e Milano, dove è anche tra i fondatori di Standards. Il Cairo in una sua possibile sonorizzazione elettroacustica notturna: come guardare il negativo di un’istantanea che fotografa un crocevia di suoni, rumori, culture, interferenze, stratificazione e, all’opposto, assenza di segnale. “Cairo Primo” è il terzo album da solista di Alberto Boccardi, a sei anni dall’ultimo “Fingers” ma con in mezzo svariate collaborazioni notevoli – con Lawrence English, in trio con Mongardi e Bertoni, più di recente con Maurizio Abate e Stefano Pilia. Registrato tra 2017/18 durante la permanenza in Egitto e licenziato dall’etichetta Italiana con base a Berlino Oltrarno Recordings, “Cairo Primo” suona come una mappatura a più dimensioni, frammentaria, disomogenea e quindi idealmente molto fedele alla realtà, di una città che immaginiamo in continuo movimento, che immaginiamo non dormire mai. Andamenti ritmici dilatati e altrove frenetici, esplosioni di suoni e silenzi, pulsazioni vitali tradotti in field recording che incrociano clacson, cantieri in piena attività, onde radio, aerei roboanti e cieli stellati infiniti. Un possibile esito dell’incontro fra tecnologia, memoria e ricerca etnomusicologica contemporanea.

PLONE – “Puzzlewood” (Ghost Box)
Il ritorno dei Plone su Ghost Box è un po’ come stringere una coperta di Linus e addormentarsi dopo aver mangiato uno dei funghi di Alice, almeno per chi è incline a cercare rifugio in dimensioni parallele. Il duo di Birmingham torna a vent’anni da “For Beginner Piano”, esordio – e unico disco lungo – su Warp, giusto in tempo per provare a immaginare un luogo fantastico più ricreativo e colorato rispetto a quello in cui viviamo in questo momento storico. Compagni a fine Novanta e primi Duemila di pionieristiche scorribande hauntologiche con Broadcast e Pram, Mark Cancellara e Mike Johnston tornano con la loro variegata collezione di strumentazione analogica e digitale, library music, suoni bizzarri rubati a qualche Gameboy alieno o serie tv per bambini inglesi di metà Settanta, elettronica gommosa e retrofuturistica che delinea – letteralmente – i contorni di un boschetto/parco giochi fatato e misterioso. Divertimento e malinconia, narrazioni di uno spazio tempo indefinito e allusivo che richiamano evidentemente il lavoro di Belbury Poly e come sempre accompagnati da un artwork memorabile e parte integrante del racconto, realizzato da Julian House.

CHRISTIAN DI VITO – “Christian Di Vito” (Union Editions)
Se ancora non l’avete fatto, come prima cosa andate su union-editions.it e godetevi uno dei web surfing più psichedelici, avvincenti e se vogliamo pure un po’ retrofuturisti che l’Internet possa offrirvi – almeno in Italia – di questi tempi. Una ricchezza di input, un orizzonte estetico che incrocia visionarietà e minimalismo, ironia, cultura pop ma pure una certa sensibilità avant e di ricerca, non appiattita sui soliti canoni distopici, che contribuisce a connotare questo giovane progetto romano ideato da Giandomenico Carpentieri, già art director e fondatore della casa editrice indipendente Yard Press e legato a progetti (tra cui la rivista Archivio) dall’estetica sempre molto essenziale, riconoscibile e con una certa vocazione “documentaristica”. Una nuova realtà editoriale, Union Editions, che restituisce un’idea del suono e della visione, e dell’incontro fra le due istanze sensoriali, dove i confini sono poco definiti e codificati a favore di un contenuto dall’impatto (formale e sostanziale) molto forte e orientato ad accendere l’immaginazione e la curiosità dell’interlocutore. A partire dalla sezione “about” del sito e dai materiali fotografici e visivi (poster, libri) dei vari artisti coinvolti, fino ai contenuti sonori, ovvero i dischi – che in futuro coinvolgeranno anche Varg2TM, Telescopes, Hierarchy e Panoram. La prima uscita, già sul Bandcamp della casa editrice, è il nuovo disco di Christian Di Vito, musicista cresciuto nella scena punk hardcore romana e oggi legato a un tipo di ricerca che incrocia elettronica, field recording e musica concreta. Album omonimo in cd e a tiratura limitata, accompagnato da un poster, di ambient-drone music meditativa, un invito all’espansione/dilatazione della mente e delle percezioni attraverso onde sonore e registrazioni sul campo quasi metafisiche, che tracciano un percorso immaginario di progressiva immersione in uno stato di coscienza alterato attraverso suoni cosmico/celestiali, acquatici e rumore bianco. Al mix, le mani fatate di Luciano Lamanna.

THE NECKS – “Three” (Fish of Milk)
È praticamente unanime l’opinione secondo cui ogni disco del trio avant jazz di Sydney sia un piccolo e (im)prevedibile miracolo discografico, per natura meritevole di un ascolto a prescindere. Libertà espressiva e capacità di non ripetersi praticamente mai sono le due cifre stilistiche principali che hanno portato la formazione australiana, attiva ormai da oltre 30 anni, a fluttuare controvento e sempre con spirito avventuroso tra sperimentazione, improvvisazione, free jazz ma anche dilatazioni psichedeliche e drone music. Le note del disco utilizzano la parola “winding” e l’espressione – che ricorda il movimento perpetuo del vento ma allude anche al concetto di sinuosità e tortuosità – è effettivamente azzeccata per indicare l’andamento a velocità alternate, composito, capace di affastellare ritmi e umori in lunghe cavalcate (“Bloom”), abbandonarsi a increspate sonorizzazioni notturne e d’atmosfera (“Lovelock”, dedicata alla memoria di Damien Lovelock dei Celibate Rifles), alternando maree di groove (“Further”) e immersioni libere su orizzonti sempre nuovi e incontaminati. Un disco che avremmo volentieri ascoltato anche dal vivo, magari dentro un bosco in estate.

MOVIE STAR JUNKIES – “Shadow of a Rose” (Teenage Menopause Rds)
Un nuovo album dei Movie Star Junkies in pieno lockdown e isolamento è un po’ come girare con veemenza il dito nelle piaghe dei nostri corpi (e forse pure menti) avvizziti e in prolungata astinenza da musica live per vedere l’effetto che fa. Ma è po’ pure come una terapia d’urto a fin di bene, un improvviso ritorno alla realtà, alla fisicità autentica e liberatoria del rock’n’roll in contrasto con tutta la musica distopica o intimista che sembra andare più d’accordo con l’alone di paranoia e rabbia repressa del momento. Già sei anni dall’ultimo “Evil Moods”, nel frattempo i vecchi e nuovi alias di Stefano Isaia sempre iperattivi (Gianni Giublena Rosacroce, Lame, Love Trap), dentro ancora quel punk blues diretto e sudato che riporta alla mente Gun Club, Birthday Party e una buona fetta della scuderia In The Red. Ma pure meno incursioni nel garage ruvidissimo e più sfumature southern gothic, ballate notturne e sinistre e la sensazione di essere sempre dentro a uno dei peggiori bar d’Oltreoceano.

THE LOVELY EGGS – “I Am Moron” (Egg Records)
Punk psichedelico, bassa fedeltà e DIY. Se amate queste tre cose e non li conoscete ancora, The Lovely Eggs sono pronti a essere la vostra nuova band preferita. Da Lancaster, in due (moglie e marito, Holly Ross e David Blackwell), vari dischi in dieci anni di attività – tra cui il penultimo e anfetaminico “This Is Eggland” -, un’etichetta con cui si pubblicano da soli (Egg Records) e la produzione già da due dischi affidata al mago dello psych contemporaneo David Fridmann. “I Am Moron” è una scheggia impazzita che fa propria la lezione dei Novanta più irresistibili, rendendoli orecchiabili, ruvidi, acidi. Un frullatore che mescola Sonic Youth, Royal Trux, Gruff Rhys, primi Garbage e Beck, chitarroni da guerre stellari cyber metal, ipnosi e distorsioni, pezzi da due minuti e loop allucinati. Disco ad alto voltaggio, da bere tutto d’un sorso come fosse una bevanda energetica coloratissima e rinfrescante. In heavy rotation su BBC Radio 6 e tra i dischi più venduti in Inghilterra ad aprile, la disdetta a questo punto è non poterne apprezzare le gesta (devastanti) sul palco.

CABEKI – “Da qui i grattacieli erano meravigliosi” (Lady Blunt Records)
La prima cosa che colpisce è la nitidezza del sogno. Poi i titoli delle canzoni, tutte strumentali, ma che suonano come poesie. La chitarra (e tutto il resto, il sintetizzatore analogico e la drum machine) di Andrea Faccioli, in arte Cabeki, azzarda un salto lungo dentro una nuova dimensione avant onirica e l’immagine complessiva che ne esce è ciò che colpisce immediatamente dopo, come una messa a fuoco progressiva e inaspettata. Perché quello di “Da qui i grattaceli erano meravigliosi” è un artista che ricerca l’esplorazione e la libertà più che in passato, non solo per l’ispirazione sibillina del disco – un pensiero «sul falso progresso, sul senso di onnipotenza che caratterizza il genere umano» – ma anche per la realizzazione in totale autonomia (il chitarrista veneto ha scritto, composto, arrangiato, registrato, prodotto e mixato l’album da solo, quasi addirittura tutto in presa diretta e senza sovraincisioni). E, infine, per la forte componente naturalistica di cui sembra nutrirsi ogni aspetto della composizione: l’atmosfera fluida e malinconica, la chitarra folk di scuola faheyana, gli arpeggi circolari e le note sintetiche da bosco incantato, la bellezza e il respiro fresco, organico e sognante degli arrangiamenti, come dell’andamento globale del disco.

THE DREAM SYNDICATE – “The Universe Inside” (ANTI-)
Dopo la mina in faccia reiterata per 20 minuti di “The Regulator” in apertura di album, cosa gli vogliamo dire ancora a Steve Wynn e soci? Una bestia a mille teste che ipnotizza e stende, kraut acido e massiccio, cavalcatone circolari infinite che dal vivo sono l’asso vincente dei Dream Syndicate, chitarre, certo, ma pure armonica, sax, sitar e synth e, non in ultimo, il crooning scuro di Wynn. Forse non tutto il resto del disco è all’altezza della composita suite iniziale, che del resto punta parecchio in alto, eppure la sensazione generale è sempre più che in questa nuova vita i Dream Syndicate abbiano deciso di abbandonarsi totalmente a ciò che sanno fare meglio – il rock psichedelico, solidissimo tanto nella sua consapevolezza di sé e dei propri, notevoli mezzi “tecnici”, quanto nella libertà di sperimentare nuove soluzioni. Per “The Universe Inside”, infatti, Wynn ha raccontato che il metodo utilizzato si rifà in parte a quello scelto da Teo Macero per “Bitches Brew” e “On The Corner” di Miles Davis, dischi ampiamenti (ri)costruiti e “post prodotti” in fase di missaggio. Il risultato, nel caso dei Dream Syndicate, incide sicuramente nella complessità finale, nella sempre più evidente tendenza alla dilatazione e alla reiterazione di cellule ritmiche e melodiche con numerose aperture a contaminazioni/fusioni (jazz, funk, avant). Un disco la cui costruzione ha una certa componente di “laboratorio”, di assembramento delle parti, ma che principalmente pulsa per la rinnovata capacità dei Syndicate di portare in studio l’energia delle loro indomite jam dal vivo.

A.V. – “Klaustrophobie” (via Bandcamp)
“Klaustrophobie” è la fotografia sonora di un luogo, di un momento storico, se vogliamo pure di una scena allargata (quella avant elettronica italiana, con centro nevralgico a Roma). Ma prima di tutto è l’espressione di una necessità, anzi di almeno due necessità primarie dell’essere umano: quella di assembrarsi, di far parte di una comunità, di relazionarsi con altri individui, ma anche di esprimersi, di non restare silente, di dare un suono (anche) all’isolamento. “Klaustrophobie” è la compilation messa su in questi giorni di lockdown dal team del Klang, giovane spazio romano dedicato alla sperimentazione sonora, attivissimo in città e simbolo, insieme ad altri luoghi di cultura dal basso, di un dinamismo che difficilmente può fermarsi, un dinamismo che nella normalità va a coprire i vuoti della cultura emersa e che, seppur senza tutele, si trova oggi (come in numerosi altri casi) a fare un passo avanti, chiamando a raccolta gli artisti che hanno calcato uno stesso palco per dare un segnale di vita al suo pubblico – e magari intanto raccogliere fondi destinati alla beneficenza (in questo caso i proventi della compila andranno alla protezione civile). Noise, ambient, elettronica interstellare e industrial, beat e sviaggio, elettroacustica e techno con tutti inediti o versioni live mai ascoltate prima di artisti che hanno suonato al Klang, con un importante zoccolo duro romano ma anche con vari artisti di altre parti d’Italia e internazionali – tra gli altri, Luciano Lamanna a I Feel Like A Bombed Cathedral, Camilla Pisani, Mantenna (Donato Dozzy e Stefano Di Trapani), Key Clef e Mai Mai Mai. Iniziativa fresca di stampa e assai corposa che va ad aggiungersi alle altre buone azioni che potete fare via Bandcamp. Poi non dite che questi con la fissa per il rumore e la cassa non sono pure dei bravi ragazzi.

DANIEL AVERY & ALESSANDRO CORTINI – “Illusions of Time” (Pias)
Recupero quasi d’obbligo per questa joint venture tra il poliedrico produttore inglese e uno dei maestri italiani della manipolazione analogica. Una collaborazione in realtà tutt’altro che estemporanea, che riprende il filo di un 7″ congiunto, “Sun Draw Water”, uscito in edizione limitata nel 2017 e che vede Daniel Avery e Alessandro Cortini lavorare a distanza per anni – per poi chiudere il disco nel giro di tre ore, faccia a faccia nel 2018, durante il tour dei NIN con Avery in supporto. Il titolo anticipa un orizzonte sonoro dalle coordinate spazio temporali distorte, illusorie, cinematiche, più vicino alla sensibilità del musicista italiano – in termini estetici e sonori – che ai beat del britannico, qui totalmente assenti. Ambient distorta ma confortevole, introspettiva, magniloquente, droni cosmici che avvicinano “Illusions of Time” a un flusso di coscienza a metà tra le ambientazioni dei Boards of Canada, certo space rock rumorista e dilatato dei Novanta (leggasi alla voce Flying Saucer Attack, ma meno ruvidi) e il primo post rock. Missaggio a cura di uno degli orgogli italiani del sound engineering, Marta Salogni, e ascolto perfetto in tempi di sfasamenti e reclusioni.

I DISCHI PRECEDENTI

  1. Puntata #3
  2. Puntata #2
  3. Puntata #1

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Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2020-03-01