Prima che fosse approvato l’attuale piano viabilità che fa confluire sulla Prenestina tutto il traffico in uscita dal centro, via Casilina poteva essere presa semplicemente girando a destra dopo il Ponte Casilino. Appena l’auto svoltava, con la coda dell’occhio cercavo subito di inquadrare uno dei miei scorci urbani preferiti di Roma: sprazzi di acquedotto romano, villini, cavi, binari, alberi e fichi d’india che in un certo qual modo mi rimandavano ai tratti di rete ferroviaria del Sud Italia, stretti tra il mare e la collina. Una suggestione di vacanza ed evasione di circa 500 metri e 10 secondi, oggi, ahimè, confinata alle sole memorie digitali di Street View.
Eh, signora mia, una volta qui era tutta campagna! C’era – e c’è tutt’ora – Villa Serventi, c’erano i suoi possedimenti, la vigna. C’era una piccola via accompagnata dall’ombra di decine di pini marittimi, carichi di pigne. Un buon posto fuori le mura, ma non troppo, dove far nascere qualche fabbrica – SNIA Viscosa, Serono, la Pantanella – un buon posto dove costruire dei bei villini bifamiliari secondo il modello della città giardino che andava allora – ci misero lo zampino proprio le cooperative edili dei ferrovieri – poi qualche altro palazzo più grande dove ficcarci altra gente ancora. La guerra, l’emigrazione post bellica e squattrinata che dal Sud prese un treno – sempre loro! – e decise di fermarsi a dormire ai bordi delle rotaie, in catapecchie e accrocchi abitativi informali. Una zona ultrapopolare su cui mise gli occhi anche Cinecittà, da “Roma città aperta” con una delle scene principali girata a Via Montecuccoli, fino ad arrivare ad “Accattone” di Pasolini che passò intere giornate con la macchina da presa lungo Via Fanfulla da Lodi. Altri palazzi, stavolta belli grandi.
Dopo gli anni Settanta la popolazione però cominciò a invecchiare e diminuire e i proprietari a dare via le proprie abitazioni. Così, qualcuno salito sui “laziali” della Roma-Pantano o sui tram che da Termini passano per Porta Maggiore e si fanno tutta la Prenestina partendo dal già multietnico Esquilino, pensò che in fondo questa parte di Roma poteva essere un buon posto dove provare a prendere casa, visto che nessuno pareva volerci stare e i prezzi erano più abbordabili: gente dal Bangladesh, dalla Cina e poi anche dal Perù. Per arrivare all’attuale Pigneto, la cui eco è arrivata anche oltre i confini nazionali, servirà però ancora qualcosa in più: un’area pedonale, un vecchio vini e olii che deciderà di restare aperto qualche ora dopo il tramonto, un caffè libreria, un bar con un bel cortile che ritirerà fuori la narrativa pasoliniana, un bazar-libreria gender, un circolo Arci dove più folli saranno le idee più verranno prese sul serio. Il resto lo fecero gli affitti più che accessibili, la vicinanza, tutto sommato, al centro e delle oasi di umanità architettonica e urbana a cui avevano provveduto già i ferrovieri degli anni 20.
Tutti conoscono tutti e al bar, per la colazione, si ritrovano le stesse persone che hanno fatto serata qualche ora prima, magari con gli occhi un po’ più gonfi e arrossati
L’alchimia è perfetta e in buona parte spontanea, fatta eccezione per iniziative comunali di riqualificazione che rimettono in sesto un cinema sequestrato alla mala della Magliana, istituiscono una biblioteca negli spazi dell’ex Serano, etc. Un’isola che non c’è, abitata per larga parte da una popolazione compresa tra i 18 e i 50 anni, con un rapporto pro capite di locali che tiene testa a Palma di Maiorca e una comunità del tutto simile a quelle di quartiere “all’antica”, se non a quelle di paese, per cui tutti conoscono tutti e al bar, per la colazione, si ritrovano le stesse persone che hanno fatto serata qualche ora prima, magari con gli occhi un po’ più gonfi e arrossati. Una sorta di utopia metropolitana dove è possibile uscire la mattina e tirare dritto fino all’alba in qualche club senza utilizzare non solo l’auto, ma nemmeno i mezzi pubblici, perché nel giro di pochi chilometri c’è qualsiasi cosa, per cui piedi o bici sono più che sufficienti – e, pensa, la gente ci viene persino da fuori! Quando è così però accade che tutti vogliono il loro posto al sole: tra gli esercenti notturni cominciano a esserci degli “intrusi”, i prezzi aumentano e i comitati di quartiere arrivano a chiedere la rimozione dei banchi fissi del vecchio mercato rionale ospitato nell’isola pedonale perché sopra, sotto, dietro e dentro quei cubicoli succede di tutto e ci sono anche sere in cui a mezz’aria ci sono più bottiglie che piccioni.
Il problema decoro e sicurezza regala delle pattuglie fisse all’ingresso dell’isola: tocca farsi qualche metro più in là e così il quartiere si “annette” altre zone come Certosa o Torpignattara, trasformandosi da semplice triangolo isoscele in prisma complesso. Per certi versi un ritorno alle origini, visto che nel vertice basso di questa nuova figura geometrica si trovano concentrate per la maggiore le comunità straniere che qui vennero per prime, riscoprendo – loro sì – il Pigneto, rendendolo quella fetta di città in cui la preghiera delle piccole moschee si mischia ai ritmi rallentati di Tropicantesimo e della Pescheria che stanno riscrivendo i canoni del clubbing cittadino (e non solo); dove i ristoranti cinesi in cui non si parla mezza parola di italiano vanno di pari passo ai vini naturali de La Santeria, So2 o Vigneto, dove il pollo a la brasa fa scopa con i muri sudati di garage e punk del 30Formiche; dove i venditori di cartine passano tra i tavoli indossando la maglietta “Bangla State of Mind”, sciorinando nozioni di branding surrealista; dove il Carrefour aperto 24/7 sulla Casilina diventa simbolo di una fazzoletto di città in cui in ogni minuto della giornata c’è sempre qualcuno che ha gli occhi aperti e diventa anche protagonista di una canzone – made in Pescheria, ovviamente; dove le classi-mappamondo di scuole come la Pisacane o le partitelle di pallone pomeridiane in Largo Perestrello fanno sperare e pensare che da qui nascerà una città migliore e più tollerante.
Quella fetta di città in cui la preghiera delle piccole moschee si mischia ai ritmi rallentati di Tropicantesimo e della Pescheria
I pini del Pigneto sono in via d’estinzione, anziani, pericolanti e fastidiosi se si scava sottoterra, ma c’è ancora la ferrovia ed è proprio per realizzare un nodo di scambio tra la Metro C e la rete regionale che all’improvviso la viabilità dell’intero quartiere è finita sottosopra, privandomi di uno dei miei scorci preferiti. Gentrificazione canaglia, che ti prende proprio quando non vuoi.
Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2020-09-10