Cominciamo a dire che parlare ora di Via Gola è complicato, perciò quest’articolo rimarrà in una cornice di tempo delineata, stretta, un po’ localizzata nel qui e ora. Cominciamo anche a dire ciò che tutti sanno, e visto che lo sapete saltiamo a piè pari da un’altra parte, soffermandoci solo un secondo sulla televisione italiana, che oltre ad avere seri problemi di linguaggio e referenze permette a bmxari di andare a cacare il cazzo litteraly ovunque con la simpatia di un sasso e il senso investigativo del Gabibbo.
Benvenuti in via Gola, amici di Zero, che tutti conoscete come spazio liminare del quartiere Navigli. Tutti ci passano, in pochi si soffermano. Cruda realtà dei fatti. Per qualche strana ragione l’idea di case popolari, case occupate, centri sociali e via dicendo s’ostina da sempre ad affiancarsi a quella retorichetta borghesina dello spaccio, della piccola criminalità, insomma, degli aspetti più turpi che puntualmente scalfiscono la buonanima dei piani nobili decorati rigorosamente in stile liberty, come quelli di Porta Venezia, per dire. Siamo sempre qui, sulla soglia di una differenziazione morale che ha più a che fare con la classe d’appartenenza che altro, e con questo, amici, ribadiamo la strenua convinzione che muove il sapere, ovvero che pur non sapendone un cazzo, e beata l’ignoranza sincera che muove i curiosi, la questione di classe non è mai morta, il buon Karl rimane attuale, e l’idea di volgarità, “educazione”, e morale sono, pressappoco, invenzioni borghesi. Del tipo che non si parla di merda quando si mangia o che le tavolozze dei cessi vanno sempre rigorosamente abbassate. Un caro saluto allə amicə che in continuazione mi rimproverano per entrambe le cose.
Dicevamo, via Gola. Se siete in grado di scostare quella velatura mediatica con cui, come sempre, s’approccia ciò che è scomodo – la polvere sotto i tappeti, no? – troverete che questa via che nell’immaginario collettivo è qualcosa di esterno, qualcosa che non dovrebbe esserci, ed è più quartiere di quanto pensate. Ci si chiede sempre se sia grazie a una qualche forma di “lotta” che i rapporti di vicinato si trovino a sottoscrivere una resistenza composta e accordata da amici, di rapporti datisi e induritisi nel tempo, quel passaggio che va dall’amorfo del “vicino” al cristallino dell’“amico”, per dire. Che poi, in effetti, i Navigli in generale e fino a non troppo tempo fa, quando chi scrive aveva all’incirca le dimensioni di un cocomero, erano effettivamente così. Torniamo in quel reticolo complesso che era Milano-Navigli, una cosa da bere, una cosa da pere, un canto d’osteria e una cotoletta impanata in mezzo alle creste dei punk e ai pamphlet, ai bollettini e alle zines dei movimenti sociali, mentre a latere gli yuppies candidi ti guardavano spingendo gli occhi tra i tubetti di cinquantamila lire, per intenderci.
Bene, la liminalità di via Gola è sta cosa qua. Non si sa bene perché, ma qui si sono sedimentati tutta una serie di aspetti senza che scadessero. Le sensazioni, le immagini di ieri, permangono impresse sulla retina di una viuzza che per dirla schiettamente sembra fuori luogo. Un’isola, un quartiere nel quartiere, un rione, insomma, definire via Gola è complesso e sicuramente non ci prenderemo né la briga né la responsabilità di farlo, per dirvela schiettamente. Ma sappiamo che la solidarietà e il senso di quartiere valgono la candela, e che in fondo, sono caratteri che tengono duro solo in luoghi che in un modo o nell’altro resistono alla normalizzazione che via via i quartieri e i dintorni delle città subiscono. Non per niente, gli amici di via Gola ci dicono che il quartiere è vivo, che via Gola è viva nel macellaio «che ha la carne più buona di tutta Milano» – e noi ne siamo contenti, ma ci teniamo a dire che ogni quartiere ha un macellaio e ogni macellaio di quartiere ha la carne più buona di Milano e degli altri quartieri, per parlarla in lacanese: ogni macellaio è un macellaio è un macellaio –, oppure nel Bike Sultan che pimpa le due-ruote-a-catena più zarre e veloci che abbiate mai visto, i Jeeg-Robot-a-pedali che infiammano gli occhi dei bimbi lì intorno, tutti intenti a giocare nel cortile del 27, o ancora i pranzi sociali che Cuore In Gola organizza da anni per la via, proprio nel mezzo, con proiezioni cinematografiche sulle facciate dei palazzi, concertini, serate che tirano in mezzo la qualunque perché la qualunque sta nel retaggio popolare e militante di questa via, così come quella spinta a liberare il quartiere dalle nomee che lo assillano, con le iniziative solidali dell’associazione OccupiamoCi di Via Gola che da anni cerca di stabilire un equilibrio di vivibilità tra queste placche in conflitto.
Squatter senza bandiere degli anni Ottanta, il decennio in cui la lotta per il diritto alla casa occupava uno spazio considerevole da tutte le parti qui a Milano, persino sui tabloid della mondanità più rosea.
Insomma, via Gola ha problemi inesorabili, reali. C’è tutto quello di cui si parla e di cui si parlava sopra. Lo spaccio, il racket degli affitti, effettivamente gli occupanti appartengono più a uno sguardo gettato nei decenni addietro che alla realtà di oggi. Squatter senza bandiere degli anni Ottanta, il decennio in cui la lotta per il diritto alla casa occupava uno spazio considerevole da tutte le parti qui a Milano, persino sui tabloid della mondanità più rosea. Vi basti pensare a quelle che erano le grandi occupazioni della Milano negli anni Settanta, che dopo gli sgomberi del ’74 si spinsero fino all’esperienza incredibile – e dimenticata – del complesso di Monte Amiata nel Gallaratese, cui piccolo protagonista fu pure il Dario Fo, nell’anfiteatro dell’architettura utopica di Aymonino e Rossi.
Ma stiamo divagando, perché a essere obiettivi, il problema di via Gola è solo in parte quello del diritto alla casa, perché in fondo parliamo di degrado. Lo spazio liminare che dicevamo su voleva dirvi con una parola-sborricchio, come quelle dei comunicati stampa della camera stagna dell’arte, che parliamo di una periferia interna alla città, del retrobottega dei Navigli, che è tale non per condizioni locali, non per volere, ma per trasandatezza.
Se andiamo più nello specifico, potremmo anche dirvi, come hanno detto a noi, che quello che è il mercato illecito di questa zona non appartiene propriamente al corpo di via Gola come tutti pensano, nel senso che a caratterizzare quella situazione da ghetto, che qualcuno simpaticamente definisce “tipo-Scampia”, con i tizi agli angoli della strada, le vedette, e tutta quella roba lì, è di fatto un’esternalità: gente che sta da un’altra parte e sfrutta le condizioni particolari di questa via, che sono tanto quelle delle occupazioni, del degrado, quanto il suo peculiare posizionamento geografico.
Sarà anche per questo che è qui, nella periferia del centro città che tra i tentativi di fuga dagli sguardi stereotipati troviamo il rap e la trap, quei parolieri ritmati che intercettano delle vie di fuga e cercano di percorrerle nelle oscillazioni degli autotune, ripescando dall’immaginario le storie che in fondo appartengono a chi cresce li, nelle periferie che periferie non sono, cosi come ai temi che la trap si porta appresso da decenni, dai tuguri delle trap houses in poi.
Bene, il momento difficile e che rende anche complicato parlarne, tra i miasmi dei problemi reali e dei problemi stereotipati, tra la trascuratezza e l’impegno solidale del quartiere in tutte le sue forme e posizioni, è che via Gola sta venendo sgomberata. Diciamo che il momento è difficile perché lo sgombero in sé non è mai una soluzione piacevole, e questo lo sapete tutti. Perché via Gola ha in ballo un progetto di rivalutazione della zona, con un viale alberato, delle attività, dei negozi e dei bar che porteranno il retrobottega dei Navigli ad aprirsi, e a diventare probabilmente più simile all’immagine cartolina del quartiere, ai Navigli che conoscono tutti.