Non è un mistero come molti musicisti abbiano indagato il rapporto tra musica e sonno. Ci sono playlist a tema sonno con migliaia di followers sulle principali piattaforme di
streaming; i nomi più quotati sono Brian Eno e Nils Frahm. La più seguita di queste su Spotify si chiama didascalicamente Sleep e il copy recita Gentle ambient piano to help you fall asleep. Brian Eno negli anni Settanta è stato senza dubbio un pioniere del genere, contribuendo a spazializzarlo e coniando il concetto di ambient-music. Da Ambient 1:Music for Airports la sua musica ha creato la colonna sonora del nulla, creando geometrie metafisiche in cui perdersi tra le braccia di Orfeo o in quelle della persona amata. Eno però non sarebbe mai esistito senza la musica aleatoria di John Cage che negli anni Cinquanta creò composizioni casuali che contemplavano necessariamente anche
l’assenza di suono come nell’iconica 4′33″.
La sleep-music ci mette sempre di fronte a una mancanza, a uno iato; non ci permette di ballare, ma apre le strade verso una concezione tattile ed epidermica del suono.
La sleep-music ci mette sempre di fronte a una mancanza, a uno iato; non ci permette di ballare, ma apre le strade verso una concezione tattile ed epidermica del suono. In grado di elettrizzare i nostro nessi neuronali. Il sonno è un processo strano e sincretico; imita con il corpo la morte e al contempo promette una rigenerazione dell’animo – e la sleep-music ha fatto i conti con questa natura controversa e polimorfa natura del suo oggetto prediletto. Il sonno infatti può essere sereno così come psichedelico. Se da un lato abbiamo la calma oceanica di un album come Sleep (2015) di Max Richter dall’altro c’è il pop-ipnagogico di artisti come Ariel Pink piuttosto che Neon Indian dove i suoni diventano allucinogeni e si fanno materia onirica. Una musica che distorce le nostre memorie deteriorate, per poi farci virare con i suoni in un twist dreamy in grado di farci immaginare un futuro migliore nella cogenza della sua fruizione.