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One Day You’ll Understand: Dissonanze

Eventi e luoghi che hanno cambiato le città: Roma, capitolo 7

Scritto da Nicola Gerundino il 16 maggio 2020
Aggiornato il 15 maggio 2020

Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?

Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.

Probabilmente il ricordo più intimo e intriso d’emotività che ho di Dissonanze non riguarda né esibizioni mirabolanti, né amicizie o affetti nati durante una delle sue edizioni. È un ricordo che testimonia come dietro l’evento che è riuscito a mettere Roma sulla mappa internazionale della contemporaneità ci fosse semplicità, calore, voglia di condividere e discutere su tutto, musica in primis ovviamente. Ero finito dentro questo mondo per lavoro da pochi mesi e per una coincidenza fortuita di condivisione degli spazi – gli esordi redazionali di Zero a Roma furono gomito a gomito con Snob Production – mi ritrovai a vedere in anticipo la locandina dell’edizione 2008 e a parlarne con Giorgio Mortari (mente e corpo del festival) e Raffaele Costantino. Parlarne poi: io stavo in disparte ad ascoltare quasi incredulo e penso di essere diventato paonazzo quando mi fu chiesto un parere (Il mio? A me?! Siete sicuri?!). Feci la scelta “sbagliata”, ovviamente: il mio favore andò verso una sorta di totem antropo-grafico accompagnato dal claim “I Have a Drum”, mentre l’opzione ufficiale fu quella – effettivamente poi rimasta nella memoria di tutti – che vedeva due volti anziani e lacrimanti in primo piano, mentre ascoltano musica da due auricolari bianchi: “One Day You’ll Understand”.

Palazzo dei Congressi, Dissonanze 2009 – foto di Giovanni De Angelis

Un motto che si è rivelato tristemente profetico: per la prematura e incolmabile scomparsa di Giorgio nel giro di pochi anni da quell’edizione, e per quello che sta succedendo adesso, dal momento che non sappiamo se i festival come li abbiamo conosciuti esisteranno ancora, così come i singoli concerti o le singole serate in un club. Un giorno avremmo capito l’importanza e la bellezza di condividere musica assieme a tante altre persone, l’importanza e la bellezza di un festival. Di quel festival.

Un ricordo che testimonia come dietro l’evento che è riuscito a mettere Roma sulla mappa internazionale della contemporaneità ci fosse semplicità, calore, voglia di condividere e discutere su tutto, musica in primis ovviamente

Il retroterra cittadino di Dissonanze era quello di una Roma che aveva ormai alle spalle – e nelle orecchie – quasi un decennio di suoni elettronici e che aveva costruito a più riprese ponti di collegamento con il mondo londinese, che era quello dettava legge, specialmente quando le coordinate erano quelle del dancefloor. Anche sul versante “chitarre” l’evoluzione era stata netta e palpabile e le ritmiche del punk e dell’hardcore si erano evolute e raffinate nei vari calderoni “post”, che a loro volta avevano saputo aprire diversi orizzonti. Mentre però questo secondo mondo aveva una sua tradizione, delle sue dinamiche d’ascolto e fruizione consolidate, l’elettronica era ancora sostanzialmente aderente all’idea di party, basti pensare all’assembramento memorabile che si ritrovarono di fronte gli Autechre nel ’96 nel piazzale del Forte Prenestino, con una folla tale che a Rob e Sean prese quasi un colpo al momento di salire sul palco e che trovava una sua giustificazione “razionale” nel fatto che la parola d’ordine in città in quel momento era rave. Traslato ai giorni d’oggi, invece, lo stesso live avrebbe una ratio decisamente diversa e potrebbe benissimo abitare gli spazi di un auditorium, dove immergersi al meglio – e da seduti – in un magma sonoro che, oltretutto, gli Autechre suonano categoricamente a luci spente.

Carl Craig, Dissonanze 2008 – foto di Claudia Gianvenuti

Si avvicinava la fine del millennio e la tensione verso il futuro era palpabile ovunque. Le parole, i suoni e l’immaginario erano carichi di questa dimensione. Il contemporaneo e il digitale cominciano a essere presi sul serio e – all’estero soprattutto – spuntavano i primi momenti che cercavano di mappare queste istanze e di narrarle a un pubblico che non fosse solo fatto da cerchie ristrette di addetti ai lavori. Il Sónar, per esempio, nasceva nel 1994 come “advanced music meeting”, come incontro attorno alle musiche che guardavano avanti, contigue alle arti multimediali – anche’esse, infatti, presenti sin dalla prima edizione del festival – e inserite a pieno titolo in una nascente cultura del digitale. Prima ancora della frenesia da festival – o comunque assieme – veniva l’avere uno sguardo diretto verso una precisa direzione, verso quella che era stata identificata immediatamente come la cultura dell’epoca. C’era una spinta condivisa da più parti nell’unire con un unico filo l’elettronica dance e quella sperimentale; ricondurre le novità dell’ultimo minuto a un albero genealogico, in modo da essere in grado di guardare al futuro e al passato contemporaneamente; creare viaggi di due, tre giorni nell’elettronica e nel digitale, anche in termini visivi e artistici in senso stretto; di rappresentare e aggiungere significato – il proprio significato – a un fenomeno che stava accadendo e di cui ci si sentiva parte in maniera “naturale”.

Dissonanze troverà la sua cava iconica nel 2005: il Palazzo dei Congressi, controparte perfetta ed esaltante dell’animo elettronico del festival, sembrando anch’esso generato da un codice binario arco-retta. Algido, algebrico, minimale, ma capace di far trattenere il respiro ogni volta che si guardava dal centro della sala verso l’alto, verso un soffitto che sembrava più lontano della luna

Il nucleo fondativo di Dissonanze è situato all’interno di Dna Concerti, booking nato un paio di anni prima dell’edizione numero uno del festival; l’intelaiatura concettuale è di quelle potenti e proviene da uno scritto omonimo di Theodor Adorno (scuola di Francoforte) di critica alla massificazione che aveva investito anche la musica nelle prime decadi del 1900; lo scenario è quello di un’allora inesplorata via di Pietralata – Lanificio e dintorni, parliamo del 2000 – dove si tengono le prime due edizioni che vedono esibirsi Thomasn Brinkmann, Pole, Unkle, Plaid, Monolake, Matmos, Oval, Alva Noto e Ryoji Ikeda nel progetto Cyclo, To Rococo Rot e intercettano subito da Roma Marco Passarani e il progetto Jollymusic – la predominanza dei suoni tedeschi nelle prime edizioni fu dovuta anche a una collaborazione con le istituzioni culturali straniere presenti qui in città. Quello che sorprende, scorrendo lo storico, è che Dissonanze ha anticipato molti festival in Italia rispetto al dialogo con il territorio: nei primi anni, infatti, ha i connotati di un evento nomade, plurale, diffuso, capace di trasportare il proprio pubblico in diversi luoghi della città, giocando molto anche su spazi e architetture inconsuete: il MACRO, il Chiostro del Bramante, il Goa e anche Grottarossa, dove nel 2002 ci fu una memorabile edizione in collaborazione con Enzimi, rassegna promossa dal Comune e punto di contatto con le istituzioni che lasciava presagire finalmente un percorso parallelo tra i due mondi e che invece si è rivelata un’occasione mancata – un nuovo interessante momento di dialogo sarà Meet In Town, che nella forma di rassegna vedrà collaborare Auditorium Parco della Musica, Snob Production e ancora Dissonanze.

Planningtorock, Dissonanze 2007

Passato nel frattempo completamente nelle mani di Giorgio, Dissonanze troverà la sua casa iconica nel 2005: il Palazzo dei Congressi dell’Eur, controparte perfetta ed esaltante dell’animo elettronico del festival, come se fosse anch’esso generato da un codice binario: arco-retta. Algido, algebrico, minimale, ma capace di far trattenere il respiro ogni volta che si guardava dal centro della sala verso l’alto, verso un soffitto che sembrava più lontano della luna. Line up mai banali, con artisti giovanissimi non ancora finiti sotto i grandi riflettori messi assieme a maestri e padri fondatori come Peter Christopherson, Charlemagne Palestine, Rodelius, Moebius, Carter Tutti e Karlheinz Stockhausen. Sì, un giorno avremmo capito.

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