Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?
Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.
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Non so dove l’ho imparato, ma se ci penso – oltre che dalle costellazioni di punti dentro il centro storico di Genova, a inizio anni 80: per primo lo Psycho Club, dove mettevo i dischi – sicuramente l’ho appreso da Londra, che era l’unico posto dove mi sentivo a casa mia. Allo Psycho mettevamo hip-hop nel 1982 e non so come arrivava persino gente a far rime da Brooklyn e dal Bronx, ma anche prima – quando mio fratello mi aveva portato da New York il 12’’ di White Lines di Grandmaster Flash – si sentiva proprio che c’era un grosso pezzo di città dentro a quella roba. Ben presto avevo capito che appartenere a un blocco, venire da un blocco vivo – inteso proprio come insieme di cubi Lego di case dentro un quartiere – era la cosa migliore che ti poteva capitare.
La vita bella era/è ballare di giorno in mezzo al tuo quartiere, al tramonto, con la luce, poi semmai anche dopo
Scrivevo di Londra perché Londra, oltre a mille posti, era il Carnevale, l’ultimo week-end di agosto nella zona di Notting Hill. E per me il Carnevale non era tanto il centro del bordello e dei carri caraibici, ma tutti quei ragazzi e ragazze che spuntavano dalle finestre e dalle scale delle casette laterali, a fare feste in casa con una gamba fuori dalla finestra, a ballare sui balconi, con le birre in mano. Ma pure le famiglie, i vecchi coi capelli lunghi rasta… Aba Shanti-I… stregoni coi 45’ che ti facevano fare certi viaggi da fermo e che dovevi cercare negli angoli remoti della mappa della domenica pomeriggio. La vita bella era/è ballare di giorno in mezzo al tuo quartiere, al tramonto, con la luce, poi semmai anche dopo. Per questo – per quanto mi renda conto possa suonare banale, e per quanto non credo di potervi trasferire il sentimento di quanto poco me ne possa fottere, nel caso – è al blocco che si creò negli anni Duemila all’Isola, ancora isolata, tra la casa occupata di via Garigliano, il Nordest Caffé, il centro sociale della Pergola, la Stecca degli Artigiani e la balera La Nuova Idea, è a quel blocco lì che penso se devo indicare un luogo dove si è stati bene a Milano in tutti questi anni, o il migliore perlomeno.
Tralascio la gentrificazione successiva che ha trasformato il quartiere nei Navigli, anche perché è stata pure colpa di tutti. Ma certo quello, in quel periodo, era il blocco nostro, e oltretutto eravamo già ultratrentenni. Garigliano era il covo della meno provinciale band italiana degli ultimi 25 anni, i Casino Royale, e il loro capo Ali(oscia) era il sindaco del blocco, proprio come nei film americani (ma pure neorealisti) che parlavano di quartieri con una bella umanità. Della vecchia malavita c’era ancora forse qualcuno. La ‘casa’ di via Garigliano, squottata, un vecchio cinema col tetto che si apriva tutto sfondato. Tutti bellissimi. Tutte bellissime, in modo non prevedibile. Vestiti come gli altri si sarebbero vestiti 15 anni dopo. Cibo pazzesco in cene collettive, d’estate anche nel cortilone. E anche il cinema proiettato sul muro. Era l’aprile del 2003 (ero molto innamorato) e decidiamo con Andrea e Moira di celebrare la primavera lì con una specie di session dalle sette alle nove di sera di ascolto/djing di cose che sentivamo a casa (che stava lì dietro). Di tutto, dai Godspeed You! Black Emperor a roba italiana oscura ad elettronica Warp classica. A palla. Alla fine ballavano tutti. Dalla luce all’imbrunire. Primavera, no? Un sacco di gente.
La Pergola era una straordinaria macchina musicale che al piano di sotto ospitava da anni stratosferiche serate di drum&bass con fumo da morte del topo
La Pergola era una straordinaria macchina musicale che al piano di sotto ospitava da anni stratosferiche serate di drum&bass con fumo da morte del topo – belle come quelle di Londra, anche quelle dei primordi della jungle, che arrivava nel 1989 in formato 10’’ e che non sapevi come ballare, poi andavi a Brixton e capivi che dovevi muoverti sulla linea di basso reggae e non seguire tutti gli altri angoli. Una di quelle sere, un giovedì di aprile dopo che avevamo fatto Garigliano, forse dopo aver mangiato al kebab in via Borsieri o un toast al Nord Est nella piattaforma all’aperto (fu quel caffè nuovo che ci aveva aperto la strada dentro quel quartiere popolare, il primo guizzo di coolness che portò anche poi il disastro, purtroppo), dopo l’ennesimo inutile esercizio intellettuale da qualche parte, Dj Spooky era stato trascinato nel basement della Pergola a mettere i dischi, per poca gente, una cosa improvvisata. E lì si era lasciato andare e aveva deciso finalmente di divertirsi e di mettere la musica che gli piaceva davvero, la musica di casa.
Bellissimo, delirio, fino alle cinque, bellissimo. Usciti, si va a dare un occhio alla Stecca. Una struttura bombardata, nel mezzo del nulla, dietro via Confalonieri (dove c’era pure il ristorante di Xe Mauri, dove ti facevi anche le canne tranquillamente). Era stata occupata prima da artisti ma poi era finita nelle mani dei nigeriani. Buio completo. Qua e là bidoni col fuoco dentro. Contrattazioni. Fatta. New Jack City. Ogni tanto una festina. Una certa tensione interculturale, diciamo. Mi faceva impazzire. Ci passavo apposta dentro quanto tornavo a casa dalla fermata di Gioia (era tutto chiuso, niente parco), non vedevo l’ora. E anche quanto tornavo dalla Nuova Idea, meravigliosa, commovente sala da ballo dove per la prima volta in vita mia avevo visto dieci anni prima una pista zeppa di coppie gay di anziani ballare il liscio per ore, il sabato sera (era in via Castilla, un monumento assoluto di civiltà meneghina). Eh sì, se ci penso bene bene, io sono sempre il Carlo che viene da quel blocco lì.