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L’insostenibile rottura di palle del termine movida

O di come avremmo bisogno di essere informati, non istigati

Scritto da Nicola Gerundino il 27 maggio 2020

Intendiamoci, se si parla di movida, quella vera, quella di una rinascita culturale e di un fermento sociale ritrovato dopo 40 anni di dittatura – perché questo è quello che è successo nella Spagna post franchista degli anni 80, in particolare a Madrid – allora viva la movida: sempre! Ma se si parla di movida come termine mal pensato, mal gestito e mal messo sulla bocca dell’informazione italiana, usato per un linciaggio mediatico continuo, allora no, non ci stiamo. E chi sta usando questa parola come un coltello affilato in macelleria si dovrebbe ricordarsi di tre cose almeno:

1) Di quello che è successo nel Regno Unito prima della votazione sulla Brexit, dove la rincorsa al titolo più tendenzioso da parte dei tabloid ha contribuito di fatto a una votazione in cui la maggior parte della popolazione ha espresso un giudizio di pancia, senza avere la benché minima idea di quelle che sarebbero state le conseguenze del “Leave”. Generando un pasticcio di cui, dopo quattro anni, nessuno è ancora sostanzialmente venuto a capo.

2) Che la polemica sugli “aperitivi” ha già fruttato i suoi like tra fine febbraio e marzo, dopodiché si è passati a linciare i runner: altra indignazione a orologeria, riproposta a maggio all’apertura dei parchi, descritti in maniera apocalittica come “presi d’assalto”, mentre c’è stato molto meno clamore attorno al fatto che fossero stati riconsegnati ai cittadini come delle giungle vietnamite. Comodo pubblicare delle foto scattate la sera in piazza o in qualche prato qua e là, molto meno fare domande su quelle realtà lavorative dove – come riportato dal Ministro Boccia al Corriere il 9 maggio, quindi prima della riapertura dei locali – ogni giorno si contavano circa 300 contagi.

3) Che l’accoglienza e l’intrattenimento sono mondi lavorativi e imprenditoriali seri, di qualità e quantità, i cui numeri sono infinitamente diversi e più alti rispetto a quelli di un semplice “passatempo per ragazzacci e ragazzacce”, come invece continuano a essere trattati. Ecco, l’inesistenza della movida potrebbe anche essere dimostrata matematicamente.

«Noi non siamo “quelli della movida”, siamo imprenditori, barman, camerieri, cuochi e teniamo in piedi un indotto enorme che forse qualcuno dal basso della sua scrivania nemmeno immagina, un indotto fatto di professionisti, specialisti della sicurezza, manutentori, agenti di commercio, produttori e distributori di bevande, alcoliche e non, enoteche, produttori di vino, agricoltori, importatori, logistica nazionale e internazionale, scuole di formazione professionale, micro birrifici artigianali e realtà industriali che, grazie a noi, danno da lavorare a migliaia di persone. Ma, sopratutto, siamo quelli che garantiscono che le luci delle città non si spengano mai, perché una città senza vita notturna è una città morta», commenta la neonata associazione Italian Hospitality Network e il suo portavoce Leonardo Leuci.

Continuare a sovrapporre indignazione e informazione non aiuterà di certo l’Italia, servirà solo a un tornaconto (anche abbastanza meschino) di condivisioni e pagine visualizzate. Stuzzicare l’una e inaridire l’altra ci renderà un Paese peggiore, fermo a un medioevo mediatico popolato da streghe e untori. Né tantomeno sarà utile immettere sul mercato del controllo sociale altre 60.000 persone deputate alla sorveglianza di intere città e milioni di persone – in Italia ci sono circa 7.900 Comuni, anche qui basta un semplice calcolo matematico per verificare la debolezza di questa operazione. C’è da parlare piuttosto dei massacri che ci sono stati nelle RSA, dei milioni spesi in mascherine mai arrivate o non a norma, dei reagenti per i tamponi che non si trovano, di una app per il tracciamento che ancora non si vede, di milioni di ore di cassa integrazione ancora non pagate dopo mesi. Di domande da fare ce ne sono migliaia e le risposte non sono certamente sulla soglia di un locale aperto dopo le 20:00.