Sono ormai tre anni che Opposites United occupa gli spazi del Museo della Permanente durante la Design Week. Il format, per certi aspetti, è sempre lo stesso: sette giorni di mostre e installazioni d’arte contemporanea e cinque giorni di palinsesto pubblico e gratuito di live, concerti e talks, qualcosa a tutti gli effetti più simile a un festival che a un evento. Il che ci porta dritti a un punto: se magari inizialmente, questo progetto di Kia e Zero, poteva sembrare un evento deputato esclusivamente alla promozione commerciale del brand di automotive coreano, tutte e tre le edizioni hanno in fondo confutato tale impressione. In fondo non s’è mai vista un auto ma soltanto figure di spicco internazionali, dalla musica all’arte fino alla curatela e alla filosofia, i cui nomi potete tranquillamente trovare qui.
Per questo, le intenzioni che sottendono Opposites United non vanno ricondotte soltanto alla grana intrattenitiva, ma inquadrate in un’ottica che elabora spazi di dialogo e confronto. Non è un caso d’altronde che alcuni degli invitati degli scorsi due anni tornino e ritornino in ruoli diversi, da speakers a curatori o moderatori, e via dicendo. Il metodo con cui il palinsesto è programmato, con cui si lavora, ha dalla sua l’intenzione del confronto, della crescita esponenziale dei dialoghi, di una continua lavorazione dei temi con cui Opposites United si interfaccia. Vien da dire che non c’è fine alla rilavorazione, al rimuginio, al cominciamento. Di anno in anno le tematiche s’approfondiscono nei dialoghi e nella postura curatoriale delle opere installative, andando di fatto a comporre una bibliografia che, al di là della specificità dei temi trattati, testimonia un metodo che crediamo non sia comune in eventi di questo calibro, e il perché è tutto sommato semplice: la ricerca di una continuità tematica, progettuale e soprattutto umana.
Di anno in anno le tematiche s’approfondiscono nei dialoghi e nella postura curatoriale delle opere installative, andando di fatto a comporre una bibliografia che, al di là della specificità dei temi trattati, testimonia un metodo che crediamo non sia comune in eventi di questo calibro.
Detto questo, chi ricorda le scorse due edizioni sarà rimasto disorientato dalla configurazione spaziale della Permanente di quest’anno. L’ingresso abbagliante con il Marquee di Philippe Parreno, un lungo corridoio scuro, ricurvo e tappetato di nero introduceva i visitatori a The Cave, la caverna archeo-futurista dei A.A. Murakami, seguita immediatamente dalla grande scenografia macchinica delle bolle di sapone, Beyond Horizon. Infine il piano superiore, che da canonica “stecca” è stato allestito quest’anno come un vero e proprio anfiteatro, con basse gradinate verde petrolio ad abbracciare l’arena, vale a dire il palco su cui si sarebbero poi svolti i talk e i concerti. Idea formale che per diversi aspetti la dice lunga rispetto alle intenzioni che dicevamo: uno spazio aperto, frequentabile di giorno come di sera, a tutti gli effetti il centro concettuale attorno a cui ruota tutto il progetto, e assieme il suo pubblico.
Così, se nell’edizione passata le opere di Riccardo Benassi, Anna Galtarossa e Led Pulse ricoprivano anche il ruolo di spazi d’attivazione, frequentati e vissuti anche tramite performance e live, diremo che l’edizione di quest’anno, Eclipse of Perception, restituisce una postura più contemplativa, di sosta e d’attesa. Ci si ferma ad ascoltare la sinfonia stocastica dei flauti d’osso, rimirando le silhouette dei soffioni e delle braccia meccaniche che accennano agli aironi. Ci si ferma a osservare bolle di sapone grandi come poltrone e ricolme di fumo levitare nello spazio in penombra, ed esplodere dopo diversi secondi. Ci si ferma nell’anfiteatro, seduti sugli spalti e per terra, com’è accaduto diverse volte nel corso dei live. Venerus che ha incantato la platea, Christina Vantzou e John Bennet che hanno fatto viaggiare gli astanti, Kali Malone e Stephen O’Malley che hanno impastato l’aria d’organi, rendendo l’ascolto un’esperienza volumetrica, dove chi ha chiuso gli occhi ha potuto sentire nozioni spaziali d’alto e basso, destra e sinistra, come se degli spettri sonori combinassero il peso dell’aria.

Ne risulta l’impressione che un simile spazio sia perlopiù da frequentare, in cui prendersi del tempo e soffermarsi – qualcosa a metà tra un museo e un festival –: sia per quanto riguarda il percorso stesso, sia rispetto al modo con cui s’assiste al palinsesto d’eventi di Opposites United. Perché è sempre in quest’ottica che bisogna considerare il sempre folto public program di conversazioni, che per cinque giorni filati porta al pubblico dibattiti serrati con figure di spicco provenienti da tutto lo scibile delle discipline, da quelle creative e umanistiche fino alla scienza dura e agli immaginari scifi. “Serrati” è il termine giusto: decisamente affilato è stato i dialogo tra il sempre sfuggente Reza Negarestani e il sempre presente David Quammen, con la moderazione di Serenella Iovino. Una conversazione a colpi indocili, che ai presenti ha certo instillato pruriginosissimi dubbi in merito alla nozione di verità – la questione al cuore del topic del giorno: trattasi di un fatto sperimentabile o di una sofisticata procedura narrativa? Pungente è stato invece il tema proposto da Martino Gamper, Form Follows Future, che con Nathalie Du Pasqieur e Beatrice Galilée andava a esplorare – e proporre – il cambio di paradigma dal più classico assioma tardo moderno form follows function. Temi insomma che affondano nelle problematiche della contemporaneità, con tutta quell’attitudine a rivedere il proprio passato e i propri cominciamenti, e che a priori della novità o della loro ricorrenza sono spazi pensosi che necessitano di essere attraversati, rivisti e riproposti, com’è stato il caso della conversazione d’apertura che ha visto Philippe Parreno e Verena Paravel in dialogo con Andrea Lissoni attorno al tema della rappresentazione del paesaggio oggi; o del riconoscimento della vita tra materiali inorganici e muffe e gocce d’olio, tra vite artificiali e silicee, com’è stato raccontato da A.A. Murakami e Kim Bo-young in conversazione con Martin Hanczyc, o sul silenzio, la fisicità del suono e l’ecoacustica nel dialogo che Sarah Miles ha intrattenuto con Kali Malone, Stephen O’Malley e Jérôme Sueur.
Opposites United è insomma un progetto che ha una vocazione su tutte: costruire uno spazio di dialogo compartecipato, organico al programma stesso – vale a dire condiviso nella progettazione artistica, musicale e culturale –, che esplori appieno le intersezioni e i legami, nell’opposizione e nella concordanza, dei temi che sostengono il dibattito contemporaneo. E così, tracciando le basi per un metodo di progettazione, visualizzare orizzonti e litorali adeguati di pensiero.