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Rewire 2024: il racconto di Zero

Le nostre impressioni su uno dei festival cardine in Europa per la ricerca musicale, a pochi giorni dalla fine dell'edizione 2024

Scritto da Nicola Gerundino il 7 maggio 2024
Aggiornato il 20 maggio 2024

Mette Ingvartsen & Will Guthrie. Foto di Pieter Kers

Foto di Pieter Kers

Bastano poche note del primo live per confermare tutte i motivi per i quali chi scrive si reca da anni a Den Haag (L’Aia) ogni mese di aprile e Zero considera il Rewire tra i migliori festival europei in circolazione. Cole Pulice si siede sul palco della Conservatoriumzaal dell’Amare, imbraccia il suo sax, sistema la sua grande pedaliera e in pochi minuti avvolge il pubblico in una coperta sonora dolcissima e morfinica: un ritorno collettivo alla placidità della condizione fetale, con le poltrone della sala a fare da grembo materno.

Forse è proprio questa la magia del festival: la capacità di settare immediatamente il suo pubblico in un mood positivo, di ascolto, curiosità e supporto incondizionato all’atto artistico ancor prima che ali artisti e alle artiste. Lo testimoniano i tanti sorrisi e applausi di incoraggiamento nei momenti di difficoltà tecnica e interruzione, capitati ad esempio ad Astrid Sonne, che è dovuta tornare almeno un paio di volte dietro le quinte del Koninklijke Schouwburg a ricalibrare la sua strumentazione, o a Oneothrix Point Never, anche lui chiamato a effettuare un reboot improvviso nel bel mezzo della sua spettacolare esibizione – un live davvero entusiasmante, anche grazie al contributo visual di Freeka Tet, con il suo viaggio nell’immaginario di Daniel Lopatin realizzato grazie a un teatrino di posa ripreso in tempo reale.

Il resto delle esibizioni sono filate via lisce e, come sempre, hanno rivelato la grande capacità di questo festival non solo di proporre nuovi artisti e di portare dal vivo alcune delle migliori uscite discografiche dei dodici mesi precedenti, ma anche di portare il pubblico a esplorare i nuovi confini di generi consolidati. Il jazz ad esempio, con i goat (jp) e la batteria di Jason Nazary – grande protagonista in diversi progetti: Saint Abdullah & Jason Nazary, Amirtha Kidambi’s Elder Ones, Blacks’ Myths – che hanno disegnato le curve più abrasive, mentre il sax di Jarrett Gilgore (Phét Phét Phét) ha plasmato delle anse morbide, al confine con il pop da camera e l’ambient, nelle quali hanno trovato spazio anche le composizioni del Tara Clerkin Trio.

Anche quest’ultimo genere ha cambiato molti volti, passando dalla ripetizione minimalista di Dialect e Ben Vida (accompagnato da Yarn/Wire e Nina Dante) al continuum naturalista di Rafel Toral, fino ad arrivare alle sperimentazioni scientifiche di Roméo Poirier e Ohme, che hanno giocato con diversi elementi naturali ripresi al microscopio nelle loro evoluzioni geometriche e cromatiche al mutare della temperatura: uno spettacolo audio/video unico e irripetibile, non fosse altro che la materia non si presenta mai per due volte allo stesso modo! Poi ancora l’hip-hop, con il duo tutto femminile di New York H31R che ne ha esplorato la dimensione elettronica, mentre Aunty Razor e HiTech quella legata al dancefloor e ai bpm più elevati derivanti da jungle, drum’n’bass, kuduro, afrobeat, grime, etc. Una menzione d’onore va alla performance che forse ha saputo unire più di tutte questi mondi: quella di Loraine James assieme al batterista Fyn Dobson e ai visual di Alessandra Leone: un nuovo standard di futuro contemporaneo semplicemente eccezionale e trascinante, e in grado di strappare a tutti una promessa, ci rivedremo a Den Haag anche nel 2025!