Ne succedono di stranezze ai tempi del lockdown. In astinenza da normalità capita di sentire la mancanza anche delle cose che fino a poco tempo fa avrebbero messo i nervi a dura prova. Ecco allora che si inizia a pensare con una certa nostalgia anche alla persona che al cinema continuava a controllare il cellulare o ai gruppi di signore di una certa età sempre pronte a commentare ad alta voce – indipendentemente dal genere: dai documentari ai drammi fino a una primissima visione di “Shame” con telecronaca di ogni nudo di Fassbender: dalla parlantina delle comari romane non si scappa! Tutti ci stiamo chiedendo quando torneremo alle nostre vecchie abitudini: a bere con gli amici, ai concerti e così via. Per quanto mi riguarda, l’impossibilità di andare a vedere un film in sala è una delle tante, piccole cose che gravano su queste giornate di clausura. Certo, decine di servizi streaming offrono una quantità infinita di “contenuti” da vedere, ma non è la stessa cosa. Al di là dell’esperienza specifica della visione in sala – ora più che mai salvifica, essendo costantemente distratti da input selvaggi in ogni momento e con una soglia d’attenzione sempre più bassa – c’è qualcosa di unico, nel bene e nel male, nell’andare al cinema a Roma.
Certi film, nel complicato mercato italiano, sopravvivono solo grazie alla programmazione di queste sale: senza di esse, quale futuro avranno?
Insomma, oltre a vivere il cinema come un safe place dove farsi prendere da un film e lasciare tutto il resto fuori dalla porta, c’è una dimensione umana che Netflix non potrà mai rendere. A partire da un certo legame affettivo con le sale cittadine, storiche o meno, che continuano a resistere nonostante tutto, accompagnato dell’amarezza che si prova passando davanti a quei luoghi fantasma che hanno chiuso negli ultimi anni – il Metropolitan e il Fiamma in pieno centro, il Maestoso sull’Appia e tanti altri che ora giacciono abbandonati. Riapriranno? Ce la faranno? Chi per lavoro e chi per passione, ce lo stiamo chiedendo in tanti. Certi film, nel complicato mercato italiano, sopravvivono solo grazie alla programmazione di queste sale: senza di esse, quale futuro avranno? C’è anche qualcosa di magico nell’uscire da un cinema in centro dopo l’ultimo spettacolo, specialmente in mezzo alla settimana: la rara opportunità di vivere una Roma silenziosa e deserta, fuori dal tempo. D’ora in poi sarà difficile pensare in maniera romantica alla città completamente vuota, ma fortunatamente questo trauma non funziona in maniera retroattiva. In queste stesse sale, poi, gli spazi ristretti favoriscono la socializzazione e si fanno incontri di ogni genere, come la signora di circa ottant’anni venuta da sola a vedere l’ultimo di Tarantino che mi ha raccontato che lei al Nuovo Olimpia ci va da sempre, da prima che si chiamasse così, ripercorrendo i vari film che ci ha visto. O, nello stesso luogo, l’alto prelato che allo spettacolo delle 23:00 rideva di gusto durante la visione di “Knives Out” – una delle ultime volte che sono andata al cinema, nonché unica volta che mi sia capitato di trovare un porporato, oltretutto da solo, a vedere una commedia in sala.
Se non avete visto “300” appena uscito nella sala gigantesca dell’Atlantic, totalmente sold out, con il pubblico inferocito in modalità derby, non sapete cosa vi siete persi
È tuttavia nella collettività che la romanità esce fuori in tutto il suo splendore e un pubblico romano è anche capace di trasformare la visione di film non memorabili o semplicemente orrendi in esperienze degne di nota. Certo, condividere un bel film e uscire dalla sala tutti appagati e contenti è bello, ma un commento de core, ad alta voce, durante un filmaccio a volte vale il prezzo del biglietto – quell'”AO, MA CHE SCHIFO!” durante un preciso istante dell’ultimo “Guerre Stellari”, ad esempio, che ha cancellato l’amarezza per i restanti 142 minuti. Voglio dire: se non avete visto “300” appena uscito nella sala gigantesca dell’Atlantic, totalmente sold out, con il pubblico inferocito in modalità derby, non sapete cosa vi siete persi. Ripenso anche a quella volta che mi trascinarono a vedere “Alien vs Predator 2” nel medesimo cinema e la sala, giustamente, non soddisfatta si fece sentire a gran voce, specialmente ogni volta che sullo schermo appariva Raul Bova. Del film non ricordo nulla, ma l’esperienza in sé rimane per me indimenticabile. Anche quando il film non meriterebbe insulti si fa difficoltà ad arrabbiarsi: avrei sicuramente preferito godermi il film in pace, ma i commenti (irripetibili) su ogni primo piano silenzioso di Ryan Gosling in “Drive” da parte del pubblico di un gremito multisala a cui era stato promesso, tramite trailer furbetti, una sorta di “Fast and Furious” al neon sono impossibili da odiare, anzi, rido ancora ogni volta che ci penso.
Quindi ecco, non appena sarà sicuro e possibile, accorrerò al cinema, magari anche sorridendo al primo che parla, alla prima luce di uno schermo che si accende, a quello che fa rumore con i popcorn… Per poi tornare a odiare tutto questo quanto e tanto più di prima, mi auguro. Sarà il segno di una ristabilita normalità.