Ad could not be loaded.

Alex Esposito

Classe 1975, Alex Esposito è uno dei bassi baritoni più interessanti del panorama lirico italiano degli ultimi anni. Dal 12 aprile sarà in scena alla Scala con 'La gazza ladra': abbiamo colto l'occasione per parlare con lui del ruolo, ma anche del suo passato e presente.

Scritto da Anna Girardi il 10 aprile 2017
Aggiornato il 12 aprile 2017

Alex Esposito, Opera Singer

Luogo di nascita

Bergamo

Nasce a Bergamo, vive gli anni universitari a Milano e si apre al mondo: è Alex Esposito, uno dei bassi-baritoni più interessanti del panorama italiano degli ultimi anni. Nei panni di Leporello, Papageno, Figaro, ha collaborato coi più importanti direttori ed è chiamato spesso dalle più prestigiose istituzioni teatrali e musicali del mondo, dalla Bayerische Staatsoper di Monaco, alla Royal Opera di Londra o alla Deutsche Oper di Berlino – per citarne alcuni. Poche settimane fa, a Monaco, ha riscontrato un caloroso successo nell’interpretazione di Assur in Semiramide, parte non da poco se si pensa che alla prima nel 1823 fu affidata al leggendario Filippo Galli. Partecipa ai festival musicali come il Rossini Opera Festival dove, nel 2016, ha vinto il “Rossini d’oro” proprio con l’interpretazione della parte che l’ha riportato in questi giorni al Teatro alla Scala: Fernando Villabella ne La Gazza Ladra. Seduti in un palchetto del teatro parliamo del ruolo, di lui, del passato e del presente.

ZERO: Come è nata la tua passione per il canto e per l’opera?
ALEX ESPOSITO: Prima che per il canto, fin da piccolo sono rimasto affascinato dal teatro in generale e mi piace considerare l’opera lirica come la forma più alta di rappresentazione. Da che io ricordi, ho sempre avuto un’attrazione quasi morbosa per ogni forma di spettacolo: ogni angolo di casa mia poteva trasformarsi in palcoscenico, ma anche il circo o il presepe natalizio. E canto da sempre. Mi veniva da dentro, come respirare e mangiare. Un bisogno primario. Vedo il palcoscenico come una porta, un diaframma tra noi e l’infinito. Poi amo l’idea che nell’Opera un giorno ti ritrovi in mezzo alle piramidi d’Egitto e il giorno dopo nella Parigi di Traviata. Infine per me è sempre stato importante trasmettere le emozioni che provo.

In questa Gazza Ladra che emozioni senti di voler trasmettere?
In Fernando emerge in maniera lampante l’amore paterno per una figlia, nonostante io non sia padre, così come il dolore e il racconto terribile della guerra. Il personaggio lo definirei quasi proto-verdiano: è il collegamento tra il canto rossiniano e certe frasi che potrebbero essere di Simon Boccanegra. Sono travolgenti.

In che modo provi ad arrivare al pubblico?
In questo caso mi viene quasi da vomitare addosso al pubblico la tragedia di Fernando. Provo a immaginarmi seduto in platea e pensare come vorrei che chi sta sul palcoscenico mi trasmetta certe cose. Forse perché sono stato tanto spettatore e so cosa arriva dal palco. So soprattutto, o cerco di capire, cosa il pubblico si aspetta e cosa non si aspetta: quando andavo a teatro e non trovavo quello che cercavo provavo a immaginarmi in che modo avrei agito io e adesso, sul palcoscenico, ci penso tutte le volte. Spero di essere in grado di far passare queste mie emozioni e questo mio impegno.

Facendo un passo indietro: fin da piccolo hai avuto questa vocazione. Quale è stato poi il tuo percorso di studi? Sei di Bergamo, hai studiato canto lì?
Ho sempre studiato da privatista, sono un po’ un anarchico. Ho il rifiuto per l’istituzione. È necessaria e ho il massimo rispetto per tutto ciò che viene fatto, però soffro tantissimo la competizione e il giudizio: il pensiero di dover andare davanti a una commissione per far vedere quello che so fare e l’idea che mi si debba dare un voto, un numero, mi crea una tensione enorme. Non ho mai avuto un buon rapporto con la scuola, quindi preferisco considerare questo mio lavoro come un gioco, un divertimento – con professionalità, studio, e tutto ciò che serve. Ho avuto un insegnante da cui andavo a casa, con cui studiavo, però ho sempre cercato di vivere tutto come una cosa mia, intima.

Qual è stato il primo spettacolo che ti ha colpito? Il primo ricordo che hai?
Il primo ricordo che ho è in questo teatro: Nabucco, nell’86. Il ricordo è vago perché avevo undici anni, però mi è rimasta impressa una serata meravigliosa, le voci, incredibili, Riccardo Muti sul podio… Da allora questa è diventata un po’ la mia “casa”, sono cresciuto nelle gallerie negli anni di studio. Ero sempre qui. Mi si è affinato il gusto musicale, ho assistito a grandi spettacoli.

Studiavi qui a Milano?
Sono venuto a Milano con la scusa di fare architettura perché i miei genitori faticavano a credere che avrei fatto veramente il cantante lirico. Pensavano fosse più facile fare l’astronauta! Io però sentivo da dentro che questa sarebbe stata la mia strada. Studiavo latino, matematica e tutto quello che mi era richiesto, però non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che dovevo provare a fare il cantante. Sapevo che sarei andato incontro a diverse difficoltà, però non potevo rinunciare a una spinta così forte. Sono quindi venuto a Milano con la scusa di studiare architettura e invece passavo le giornate in coda per avere i biglietti del loggione. In quegli anni ho conosciuto Paolo Besana, con cui ho stretto un’amicizia che dura tutt’oggi. Siamo anche diventati coinquilini, in via Savona, condividendo le gioie, i dolori, le feste e le fatiche che si possono vivere negli anni universitari.

Cosa ti ricordi della Scala di quegli anni?
Dal punto di vista della produzione il teatro è migliorato: si è adeguato a quella dei teatri europei. Non si fa più un solo spettacolo al mese chiudendo per venti giorni tra l’uno e l’altro. Adesso c’è anche un palcoscenico che consente di aumentare il numero di spettacoli e gestire diverse produzioni, un tempo non era così. Detto ciò era comunque sempre la Scala, si sentiva il peso della storia, della tradizione.

Alex Esposito ne "La gazza ladra"
Alex Esposito ne “La gazza ladra”

E adesso?
Anche adesso, da cantante, tornare in Scala è sempre emozionante, come una prima volta. Quando guardo i grifoni alati, le colonne del teatro, penso alla Callas sul palcoscenico o Toscanini in buca: loro hanno visto e sentito di tutto. Queste sono mura ricche di storia e tradizione. Ricordo la prima volta che ho cantato qui, ero emozionatissimo e anche ora cambia poco. Ricordo che allora avevo l’impressione di entrare in una cattedrale. Tra l’altro l’accesso a una cattedrale è aperto a tutti, allora trovare i biglietti per la Scala era davvero un’impresa. Ci sono voluti tanti anni per passare da lì a qui ma ce l’ho fatta!

Vivi ancora a Milano?
Adesso per lavoro viaggio tanto. Ho preso una casa sull’Appennino Tosco-Emiliano e vado lì per rilassarmi. Milano continua a piacermi molto, mi sembra che sia cambiata negli ultimi anni, forse per effetto dell’Expo. La trovo di un’eleganza e offerta incredibile. Non so se sia un’impressione mia, ma l’ho lasciata cinque o sei anni fa e quando sono tornato l’ho trovata migliorata, più ricca di stimoli e proposte. Certo, è una città pesante, meno easy rispetto altre. Qui c’è sempre il milanese pronto a sottolineare come sei vestito, come porti i capelli, però si sa che Milano è un po’ così. D’altronde è la capitale della moda!

Torniamo a parlare de La gazza ladra. Fernando è un uomo maturo, padre, sofferente, drammatico. Tu hai esordito nel ruolo dieci anni fa. Per entrare nella parte, quanto conta l’esperienza personale?
Sicuramente per interpretare un personaggio ci si avvale sempre dell’esperienza personale ed essere più maturo aiuta. Più che esperienza di vita, però, forse in questo caso è meglio far riferimento alla carriera, nel senso che dieci anni fa questo era il primo ruolo drammatico che facevo. Allora avevo bisogno di essere supportato da un regista – che era Michieletto che, nonostante fosse al suo debutto, già aveva le idee molto chiare. Inoltre c’è da dire che in realtà Rossini aiuta tantissimo, perché nella musica c’è scritto tutto. Penso che sia più difficile rendere drammatico un ruolo come quello del Podestà rispetto al mio, perché la musica di Fernando è molto “ruffinana”. Mi spiego: con quelle melodie si è molto aiutati a ottenere la benevolenza del pubblico. Fernando ha frasi coinvolgenti, perturbanti.

La-gazza-ladra-esposito

E tragiche. In un dramma semiserio quale è La gazza ladra tu hai delle arie di carattere – musicalmente parlando – davvero tragico.
Sì, entro io dopo tre quarti d’ora di brindisi e allegria e porto il dramma fino alla fine dell’opera.

È un ruolo che oramai senti tuo?
Sì, anche se in realtà cerco di non sentire mai “mio” un ruolo: siamo in continua evoluzione e si può sempre cambiare e migliorare. Se ci si sente arrivati si rischia di non assorbire nuovi input, nuove evoluzioni.

Per quest’opera hai lavorato con due registi molto importanti, Michieletto prima e Salvatores adesso. Del primo abbiamo già parlato, ci dici qualcosa su Salvatores?
Salvatores è davvero un entusiasta. E ascolta il parere di tutti: è molto curioso di sentire cosa si propone, è disposto ad aprirsi, ascoltare, e ha una grande sensibilità. Sa smuovere le corde dell’intimo umano e infatti ci sono scene molto toccanti, visivamente molto d’impatto. D’altronde proviene dal mondo del cinema, è il suo mestiere.

Anche con Chailly state facendo un gran lavoro. Il Direttore, tra l’altro, ha sottolineato in più di un’occasione l’importanza del ritmo in Rossini e in quest’opera in particolare.
Il piatto rossiniano è talmente ricco che se si aggiunge o modifica qualcosa si rischia di rendere tutto pesante. Il ritmo in Rossini è tutto. Chailly è molto attento a ogni dettaglio e lavorando in questo modo ci stiamo sempre più rendendo conto di quanto basti un niente perché il carattere dell’opera cambi completamente. Abbiamo fatto un lavoro immenso sui recitativi, per esempio. Il recitativo è il cuore di questo dramma e se sbagli il ritmo diventa noioso. Anche il silenzio va riempito. La prima prova che abbiamo fatto è stata tutta su questo. In quel momento non facciamo altro che gli attori.

la-gazza-ladra-esposito (2)

Cosa pensi della versione scelta?
Chailly ha ragione a scegliere di fare l’opera integrale. Queste opere sono talmente perfette così che se si toglie anche un solo recitativo, si scombina tutto. Drammaturgicamente è scritta così. A volte risulta più noiosa tagliata che non integrale. Poi certo, è comunque difficile portarla in scena. Le opere di Rossini secondo me sono come un diamante: si trova in natura incastonato tra le rocce, poi va lavorato per scovarlo e tirarlo fuori.

Tirando le somme?
Questa produzione è veramente incredibile. Non lo dico perché ci sono dentro e ne faccio parte, mi viene proprio dal cuore. L’altro giorno, provando e vedendo lo spettacolo completo, ci siamo emozionati.