Mi alzo da tavola e noto immediatamente un trafiletto di giornale. Spicca in mezzo agli altri come se le lettere fossero fatte di fuoco: “Ha conquistato Roma con i suoi ravioli”. Lo indico subito ad Evita Polidoro, con la quale abbiamo appena finito di cenare dalla mitica Sonia – il ristorante cinese più famoso della Capitale. Ridiamo forte ma io sotto sotto mi rammarico. Intimamente so che, per l’articolo che state leggendo, non riuscirò mai a trovare un titolo altrettanto bello.
Anche Evita sta conquistando Roma e l’Italia. Senza ravioli, ma con le bacchette sì: quelle della batteria, lo strumento che padroneggia in un modo che fa sembrare tutto facile e che la sta portando in giro per l’Italia e l’Europa, seguendo esperienze di ogni tipo – dalla leggenda Enrico Rava alle super produzioni di Francesca Michielin e Dee Dee Bridgewater fino ai progetti personali. Dal 2020 chiama Roma casa e l’occasione per questa chiacchierata la fornisce l’uscita del suo bellissimo album “NEROVIVO” per la Tuk Music di Paolo Fresu. Una conversazione divisa tra i rumori e i profumi di Sonia e l’ambiente caldo e pregno di attesa dello Studio Miriam, dove qualche giorno prima Miriam ha presentato l’album per una delle sessioni organizzate da Croma Hub.
“NEROVIVO” è un disco leggero, delicato, ma anche pieno di ombre e profondità da esplorare: jazz contemporaneo, mescolato ad elettronica e canzone d’autore senza paura. Una prima summa delle esperienze di Evita, rappresentante ideale di una nuova tendenza del giovane jazz italiano. In questo senso Roma sta facendo la voce grossa, tanto per talenti ed esperienze autoctone, quanto per capacità di attrattiva verso l’esterno.
Sei appena uscita da un’intensa settimana di lavoro in studio…
Eh sì, abbiamo registrato il disco con Enrico Rava alla Casa del Jazz. Siamo abituati a suonare appiccicati, guardandoci in faccia e ridendo; lì invece eravamo completamente separati, quindi è stato un po’ alienante. Ho suonato con gli occhi chiusi tutto il tempo [ndr. ride]. Ma lui è troppo un grande, quindi ci siamo divertiti un casino. Alla fine secondo me è venuto fuori un gran bel disco, di cuore.
Del tipo? Su che versante vi siete mossi, considerando che Rava ha suonato qualunque cosa?
Non so se hai presente “New York Days”: è il suo disco che amo di più e questo nuovo ha un approccio molto simile. Secondo me è veramente bello, anche perché è costruito sulle caratteristiche specifiche di ciascun musicista. Passa da robe molto “aperte” a un paio di pezzi più swing, ma sempre vicini al mondo free. E poi c’è un pezzo cantato da me, sbudellante, piango ogni volta che lo canto live. A Umbria Jazz questo inverno sono proprio scoppiata in lacrime, non sapevo cosa fare, lui non si è accorto di nulla e ha staccato subito passando al pezzo successivo. Quindi dietro c’ero io in lacrime che cercavo di seguire, con Diodati [ndr. chitarra] e Ponticelli [ndr. contrabbasso] che mi guardavano preoccupati, del tipo “ma ce la fai?!” e io a rassicurarli: “sì sì, ce la faccio!”.
E come hai iniziato a suonare con Rava?
Per caso. Lui teneva dei laboratori estivi a Siena, quell’anno mancava il batterista e quindi mi hanno detto “vabbè, visto che sei qua, fallo tu.”
Ah proprio una di quelle svolte da sceneggiatura hollywoodiana!
Sì, esatto. È andata benissimo e poi si è ricordato di me, anche se da quel momento a oggi sono passati in realtà anni. Alla fine è arrivata la chiamata dal cielo.
Per una musicista giovane come te quanto è incredibile stare accanto a un totem del genere?
È pazzesco. Durante tutta la sua carriera è sempre stato al posto giusto nel momento giusto, sempre. Ha degli aneddoti incredibili.
Posso solo immaginare, vorrei essere una mosca nella stanza guarda!
L’altro giorno mi raccontava di quando con un altro jazzista italiano noto, una personalità mite e riservata, sono finiti a una festa a New York. Questo non aveva mai preso nessuna droga e per sbaglio si mangia un biscotto con l’acido, andando completamente fuori di testa. Tutte robe così. Ma poi Rava è incredibilmente modesto, quasi insicuro…
Sarà uno stereotipo, ma quest’attitudine forse è anche il segreto per “durare” così a lungo. Se sei una persona arrogante a un certo punto le persone si stufano di averti a fianco.
Sono estremamente d’accordo. Ma lui è proprio il tipo che finisce il pezzo e si gira per chiederti se ha suonato bene. Che quasi gli vorresti rispondere: “Enri’, ma che stai a di’!?”
Direi comunque che hai un rapporto niente male con i trombettisti italiani di fama mondiale. Da Rava a Fresu, che con la sua Tuk Music ha pubblicato “NEROVIVO”.
Sempre tutto per caso! Lui aveva ascoltato qualcosa online e poi mi ha invitato a suonare al suo festival in Sardegna, Time In Jazz. Un posto assurdo, abbiamo suonato a Tula un luogo minuscolo immerso nella campagna tra le pecore, con la gente seduta sul prato. Durante un pezzo sono partite le campane della chiesa, nel momento perfetto. Anche lì ho pianto ovviamente!
Questo del pianto è un tuo leitmotiv! Anche alla presentazione del disco per Croma a Studio Miriam, alla fine c’è stato un bellissimo momento di commozione.
Eh sì, sono una sensibilona [ndr. ride]. Comunque, lì Fresu ha sentito il disco e ci ha messo una sana “prescia” per registrarlo. Senza, persa nelle ansie, forse non lo avrei mai fatto.
Con i ragazzi con cui hai registrato vi siete conosciuti sempre a Siena?
Sì con Davide Strangio e Niccolò Francesco Faraglia abbiamo iniziato a suonare lì. Ci conosciamo a menadito, anche perché “NEROVIVO” è un progetto che ormai nasce nel 2018. Il disco quindi è arrivato “tardi”, ma è il sunto del pensiero che ho rispetto al fare musica d’insieme. Spesso nel jazz (che è il genere che frequento di più) il disco viene visto più come punto d’inizio che di arrivo, cosa che non condivido. Sono contenta che sia arrivato ora, quando il repertorio è arrivato alla maturazione finale. Il progetto poi sarà in continua mutazione, grazie anche all’identità fortissima di Niccolò e Davide.
Quanto c’è di improvvisazione e quanto di composizione?
La cosa che mi fa ridere è che il disco è stato catalogato come jazz contemporaneo quando in realtà è un insieme totale e sincero delle influenze più disparate. Impossibile dargli un nome. All’inizio la scrittura era concentrata su frammenti melodici e ritmici poi sviluppati nell’improvvisazione e, soprattutto, sulla ricerca pura sul suono, che per noi è fondamentale, così come il silenzio. Da lì sono usciti dei brani in “forma canzone”. Quindi sono due cose che corrono insieme.
Ti va di entrare un po’ più nello specifico di queste influenze? Cosa hai ascoltato prima, durante e dopo?
Ci sono degli umili tributi ad alcuni dei miei artisti preferiti di sempre. La prima traccia per esempio è dedicata a Debussy, anche se non si direbbe. C’è Aphex Twin, tanta ambient, tanto post-rock, Jeff Buckley. Ultimamente poi mi è venuta la fissa del nuovo post-punk irlandese e inglese: dai Fountains D.C. agli IDLES.
La tracklist dell’album ha un movimento ritmico tutto suo, dato da queste “Arie” che separano un brano dall’altro.
Sì è vero, erano nati questi frammenti in modo spontaneo e nel momento in cui bisognava trovargli dei nomi mi sono lasciata ispirare sempre da Debussy, nello specifico dalle sue “Ariettes oubliées”. Partendo da quello, l’amico Paolo Pitorri mi ha poi consigliato di chiamarle “Arie”, così che avessero un’importanza e un significato diverso in base al punto in cui sono posizionate. Per dire, l’ultima è l’eco della prima, si crea una circolarità. Nate separate, alla fine sono diventate il collante principale dell’album.
Per altro, ascoltando il disco prima di vedervi dal vivo, non avrei mai detto che la formazione fosse questa, così inusuale: batteria e due chitarre. Forse perché per lunghi tratti le chitarre non suonano come chitarre.
Io sto in fissa con le chitarre! E sì, quelle nell’album hanno un modo di suonare pazzesco, molto timbrico. Vengo da un background anche punk, motivo per cui ultimamente abbiamo anche dato vita a questo nuovo progetto [ndr. i COME ON DIE] con Ruggero Fornari e Michele Mariola, altri due chitarristi incredibili.
Quindi gruppi hardcore adolescenziali?
Più sul grunge e alternative rock. Nonostante sia nata in un posto piccolissimo ho trovato fortunatamente subito ragazzi con cui suonare. Da adolescente avevo questa band, Rumors, che per quattro anni è stata fondamentale. Mi hanno aperto la testa su come funziona una band. Mi manca avere quel tipo di rapporto. Fortunatamente, come ti dicevo. a Roma sto ritrovando un po’ quella dimensione
Dov’eri mentre imparavi a suonare?
Sono nata a Sesto San Giovanni, ma ho sempre vissuto in un paesino sul Lago Maggiore, in Piemonte. Insomma, profondo Nord, in un paese da centro trenta abitanti.
La capienza del Trenta Formiche!
Sì, esatto [ndr. ride]. Di giovani non c’era nessuno quindi sono scappata appena ho potuto.
E come sei arrivata a scegliere la batteria e la musica in un luogo così piccolo?
Banalmente perché sono nata in una famiglia appassionata di musica, anche se nessuno l’aveva mai sceleta come professione. Mio padre è proprio un batterista, mia madre una cantante. Non mi hanno mai forzato a fare niente, è successo tutto a scuola quando eravamo ancora a Milano, grazie alla maestra Cipollini: me la ricordo come se fosse ieri. Avevo iniziato con pianoforte classico, per un po’ li ho portati avanti insieme. Quando ci siamo trasferiti i miei hanno aperto un bar e d’estate facevamo spettacoli per il paese e c’era sempre un botto di gente. Facevano cantare e recitare tutti: le estati più belle della mia vita! Poi c’è stato il percorso di studi dall’adolescenza in poi, in cui ho iniziato a capire che la batteria sarebbe stata definitivamente stata la mia strada. Nonostante la vicinanza Milano l’ho frequentata poco, non mi ci sono mai trovata. Anche a livello di jazz non ci sono tante possibilità, soprattutto medio-piccole.
Ora che dici di aver studiato il pianoforte assieme alla batteria mi chiudi un cerchio. Vedendoti suonare per la prima volta avevo notato proprio questa cosa a livello fisico: più che la batteria sembrava che stessi suonando un pianoforte, con una postura attenta a tutto.
Beh per me è un gran complimento! Diciamo che forse gli studi a Siena mi hanno fatto scoprire un lato della batteria completamente al servizio della musica, in cui i silenzi sono importantissimi. Lasciando da parte l’ego, che è sempre presente, ma se la musica non mi richiede è inutile che io mi ci metta dentro a forza. E quindi uno strumento percepito per lo più come ritmico per me diventa anche timbrico e armonico, come il pianoforte.
La scorsa estate Gianluca Petrella mi ha detto che, per tutta una serie di motivi, odia il trombone. Mi sembra di capire che tu vada ancora d’accordo con la batteria.
La amo, è il momento in cui sto bene, anche quando suono male. In qualche modo sento che il mettermi a suonare è stato d’aiuto. Non sono decisamente una studiosa in senso accademico e non lo sono mai stata, ma sento che c’è una vicinanza, un’affinità con lo strumento: nasconde mille sfumature diverse. Per il momento non mi sono stufata, anzi [ndr. ride].
A proposito del tuo passato, Siena, e del tuo presente, Roma: mi sembra che si stia creando un legame sempre più forte tra le due città.
Sì, è vero, tantissime persone si stanno trasferendo. Anche perché se te ne vai da Siena non è che ce ne siano tante di alternative. Io sono stata cinque anni lì: a un certo punto stavo impazzendo.
Che posti frequenti a Roma, dove ti senti a casa? E dove hai suonato?
Non ho mai suonato nei locali che frequento per piacere, tipo Fanfulla o Trenta Formiche. Il posto del cuore rimane Il Cantiere, grazie ad AGUS Collective, anche se purtroppo l’ho conosciuto solo dopo la scomparsa di Carlo Conti. Arrivando da una realtà piccola Roma per me è un po’ un parco giochi. Non sono abituata a tutti gli eventi e tante persone sempre nuove. Sento che è giusto essere qui e sento anche di essermi circondata delle persone giuste.
Quante cose stai rifiutando in questo periodo?
Eh, sta succedendo e mi dispiace proprio tanto. Però è impossibile altrimenti. Sto cercando di tenere cose piccine ma a cui tengo tantissimo. Il tempo è sempre poco e non voglio farlo perdere agli altri.
E come si passa da quelle dimensioni al palco dei palazzetti con Francesca Michielin? Non mi dire che anche con lei ci sei finita a suonare…
Per caso, sì! Giro di conoscenze assurdo per cui nel 2022 mi avevano chiamato a suonare con il progetto di Matteo Crea a Firenze Rocks. Pensa che abbiamo aperto ai Green Day davanti a 42.000 persone. Con Matteo poi non ho fatto più nulla: il management di Francesca, che è lo stesso di Matteo, mi ha sentita lì. Con lei è pazzesco: fa parte di un mondo che pensavo di aver lasciato, per cui le prime prove sono state durissime. Per esempio, non suonavo da una vita sul palco con il clic, quini nei primi tempi sono stata presa dal panico. Del tipo “cazzo, sapevo farlo, com’è possibile che non ci riesco più!”. Sono arrivata un po’ impreparata forse…
Vedi, una qualità che ti accomuna a Rava: la modestia.
No! È che per ingranare effettivamente c’è voluto tanto. Anche le dimensioni della produzione sono enormi. Lei è timidissima e carinissima, ha studiato jazz quindi sa anche un po’ da che mondo vengo. È capitato che avessi delle date fissate con Dee Dee Bridgewater che si sovrapponevano alle sue: quando lo è venuta a sapere è stata lei per prima a dirmi di non rinunciare. Poi, iniziando a suonarci assieme, mi sono resa conto che tante sue canzoni le conoscevo già.
Beh, quel classico caso di melodie che ti entrano in testa e non sai neanche come. Mi è successo con due pezzi dell’ultimo Sanremo: non li ho mai ascoltati eppure mi capita di cantare la melodia a tradimento.
Pensa che ho fatto Sanremo Giovani con la band che avevo all’epoca, i Rumors. Abbiamo suonato in playback [ndr. ride]. Una roba assurda, mega divertente, avevo appena diciannove anni, subito dopo aver finito le superiori. Era anche un Sanremo diverso, siamo andati in diretta su Rai 1. Tra l’altro quell’anno con noi nei giovani partecipavano Mahmood, Ermal Meta, Gabbani, Irama. Tutti che hanno fatto mega successo meno noi [ndr. ride]. Anche lì tra l’altro si manifestò la mia incapacità di nascondere le emozioni: mentre ascoltavo in maniera “poco convinta” i commenti dei giudici avevo una faccia talmente trasparente che per un periodo è diventata un meme virale.