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Fabrizio Efrati

Da via dei Giubbonari al Giappone via sneakers. Fabrizio Efrati racconta I Love Tokyo e la nuova creatura Kickit.

Scritto da Nicola Gerundino il 20 settembre 2017
Aggiornato il 27 settembre 2017

Data di nascita

21 agosto 1973 (50 anni)

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Attività

Imprenditore

Se passando per via dei Giubbonari vi siete fermati davanti a una vetrina pianificano l’acquisto di un paio di scarpe, nella quasi totalità dei casi vi siete fermati davanti la vetrina di I Love Tokyo. Dalle mura di questo shop sta per nascere un evento per Roma: Kickit, sneakers e streetwear market. L’appuntamento è fissato il 24 settembre dalle 11:00 in poi da Vinile (via Libetta, 19), dove scarpe e abbigliamento saranno accompagnati in sottofondo dai dischi di Curtis Wolf, BIG – Building Interracial Generations, MJ (Falla Culture), BEAT SOUP, Sgamo. Ci racconta tutto in questa intervista Fabrizio Efrati.

kickit

 

ZERO: Inizierei questa chiacchierata partendo da Via dei Giubbonari.
Via dei Giubbonari… Gioia e dolori del mio lavoro. La storia di questo negozio inizia nei primi anni del 1900 con mio nonno e una famiglia di religione ebraica che durante la Seconda Guerra Mondiale ha sofferto molto, ma non si è data mai per vinta. Nel ’46 mio nonno affittò questo locale dal papà di un suo amico e nel tempo ci ha messo tutte le sue conoscenze artigiane e di artigiano. Poi il negozio è passato a mio padre e infine a me. Queste mura le conosco come le mie tasche, anche perché i lavori li ho fatti sempre da solo. La mia famiglia è sempre stata nel commercio e nel commercio di abbigliamento e scarpe. Pensa che mio padre è stato uno di quelli che ha creduto nelle Converse: le portò qui a Roma grazie a delle persone che andavano avanti e indietro dall’America facendo import-export. Portavano anche i Levi’s usati, i Lee o i Wrangler. Mio padre prendeva tutto e metteva in negozio: erano marche sconosciute, ma venivano prese in considerazione da chi cercava qualcosa di nuovo. E fu così anche con le Superga. Mio padre spesso e volentieri ha fatto da precursore, anche se questo non ha sempre portato giovamento, capitava che la gente non capisse una moda, per cui veniva abbandonato un prodotto che poi magari uno o due d’anni dopo scoppiava. Penso a Stone Island ad esempio: mio padre la prese, la mise in negozio in vendita, ma nessuno la capiva. O anche quella marca che si chiamava Manuel Ritz Pipo, che oggi va tra tutti quelli che vestono semi-classico/sportivo. Sono cose che capitano e sono capitate anche a me.

I Love Tokyo in Via dei Giubbonari.
I Love Tokyo in Via dei Giubbonari.

Tuo padre ha iniziato anche il discorso sneakers?
Sì, mio padre andava a cercarle: cercava sempre cose nuove. Come ti ho detto prima, quando lui aveva le Converse in vendita nessuno le aveva ai piedi. Lui faceva avanti e indietro dagli Stati Uniti e vedeva le persone che giocavano nei campi da basket, a New York. Una volta tornato a Roma diceva ai clienti: «Guarda, con queste ci fanno sport, ma sono anche fiche da portare, se ci metti un pantalone a zampa e una camicia…». A Roma c’erano mio padre, McQueen e Vadim, zona Africano-Piazza Bologna, che erano precursori e andavano avanti con la moda. Poi hanno un po’ indietreggiato, andando sul commerciale. Appena ho preso io le redini sono tornato alla ricerca di cose più “irregolari”.

Immagino, quindi, che sia stato tuo padre a farti entrare nel mondo snekaers.
Assolutamente sì! Nel ’77-’78 quando avevo quattro anni, mio padre mi comprò un paio Adidas da running con gli strappi. Ho anche delle fotografie da bambino in cui indosso un gilet della Fila tutto nero, con delle strisce sul petto bianche, rosse e nere e con il giro spalla rosso, un po’ bombato come andava all’epoca. Avevo anche il Montgomery, che era un must. Quando finivo la scuola andavo sempre al negozio il pomeriggio, mi ricordo che mi mettevo su uno sgabello davanti la porta con un banchetto e vendevo gli adesivi. Mi mettevo anche nel sottoscala e facevo delle cassette audio che poi cercavo di vendere.

Un muro di Asics sugli scaffali di I Love Tokyo.
Un muro di Asics sugli scaffali di I Love Tokyo.

Cosa è successo quando hai preso tu in mano il timone?
Beh, ho fatto quello che ha fatto mio padre. Non lo definirei errore, ma sperimentazione: metti il tuo sapere, la tua voglia di andare avanti per cambiare un po’ la moda che ti passa davanti. Per me stare nel negozio dalle 10 di mattina alle 8 di sera è come stare 10 ore davanti alla tv, la mia porta è un televisore che ti dice: «Guarda, oggi passano vestiti così». Considera che io ormai ho 44 anni e sono entrato dentro qua quando ne avevo 21… Diciamo che ho fatto quasi tutti gli step del mondo della moda, mi mancano gli ultimi, quelli della creazione, anche se qualche volta ho creato e prodotto qualcosa. Quello che però può creare un 44enne è molto diverso da quello che crea un 20enne che va nei locali, frequenta le serate e che a un certo punto fissa un suo modo di vestire che poi fa tendenza. Penso a marche come IYDLIYAF o more.pain: sono ragazzi che lavorano bene, che hanno le loro idee e le sviluppano. Oggi succede spesso che qualcuno prenda delle magliette ci metta sopra le proprie idee, le proprie emozioni. Per me quella attuale è una generazione ha bisogno di stimoli e gli stimoli vengono da chi sta più zitto. Prima le mode erano più urlate e colorate, appariscenti. Pensa ai punk, con la cresta blu o fucsia. La moda di oggi la chiamo una moda “breaking”, di rottura.

IYDLIYAF.
IYDLIYAF.

Con quali marche hai iniziato la tua attività?
All’inizio ho puntato molto su Imperial, è stata una buona marca. Io seguivo una moda di fasoneria, come Alta Tensione, che era comunque un Made in Italy. Oppure l’odierna Terranova, che prima faceva cosa da uomo di nicchia, prendendo spunto da quelle che erano le marche di alta moda più costose. Per le sneakers ho iniziato con Asics e ormai sono 24/25 anni che lavoro con loro. Io le portavo già da bambino per fare ginnastica: avevo le Limber Up Moscow (successivamente uscirono le Limber Up Asian). Poi sono arrivate Adidas, Reebok, Nike, New Balance, Le Coq Sportif etc. Adesso abbiamo marche americane come Clae, Clear Weather, abbiamo avuto Vans. Asics è il nostro core business e facciamo parte del loro circuito Family and Friends. Stiamo lavorando molto con Diadora e ora siamo nelle cerchio delle limited e delle premium. Ad esempio, di recente siamo stati scelti assieme a The Good Will Out di Colonia per avere un uscita mondiale di 300 pezzi limitati. Siamo stati molto contenti di far parte della storia di una limited edition e di un brand in generale. Parlando sempre di collaborazioni, le soddisfazioni più grandi sono state due: Lacoste, con cui abbiamo fatto un video di presentazione con Amir e Baby K. Poi Onitzuka Tiger con le Ultimate 81 Paper Boy: delle sneaker che abbiamo dedicato ai ragazzi, agli studenti che vanno in bicicletta durante tutto l’anno, anche in inverno. Le abbiamo fatte in cordura e reflective, così da essere visibili anche di notte, anche dalle macchine. Loro avevano un po’ di dubbi, invece oggi ci sono un sacco di limited edition così.

Me lo sono sempre chiesto, il nome I Love Tokyo da dove viene?
Io e mio fratello siamo grandi amanti del Giappone.

Mi ricordo che una volta la vostra vetrina su strada era completamente foderata con giornali giapponesi.
Sì, questa è una storia divertente! All’incirca nel 1999 pensammo che avremmo dovuto cambiare qualcosa al negozio, compreso il nome, l’identità e abbiamo deciso di chiamarlo così. Poi un giorno, quando eravamo in vacanza, abbiamo visto in un hotel dei giornali giapponesi a disposizione dei clienti e abbiamo pensato che potevamo farci qualcosa. Abbiamo iniziato a girare un po’ per tutti gli hotel della Costa Azzurra per “prendere in prestito” questi giornali e sul volo di ritorno da Nizza abbiamo pagato non si sa quanto per imbarcarli. Però è stata una salvezza perché quei giornali qua a Roma costavano tantissimo, 23 chili di giornali….
I-LOVE-TOKYO-My-Business-Virtual-Tour-20 (1)

Arriviamo a Kickit.
È un’idea che avevamo da un po’. Io e mio fratello andiamo da anni ad eventi che si chiamano Sneakerness, dal 2007/2008 circa, in Svizzera, in Germania e così via. E quindi abbiamo pensato che sarebbe stato bello farne uno a Roma. Ma non è un evento che ti svegli la mattina e lo fai.

Cosa succede da Sneakerness?
È una sneakers convention, un’unione di persone, di privati, che amano al tal punto le sneakers da farci anche un business. È un fenomeno interessante, così come quello dei consignment store: negozi che prendono in carica merce altrui, che vendono per conto terzi. Il più famoso è Flight Club a New York, sulla Broadway. Da Flight Club il martedì, giovedì o sabato c’è il giorno della release e la notte prima vedi la gente che si mette in coda fuori, persone che fanno il camp out per accaparrarsi le limited edition. Parliamo di collezioni molto limitate: 1.000-2.000 pezzi. Ecco, immagina queste persone che si ritrovano tutte assieme in una convention: buy, sell, exhibit.

Flight Club a New York.
Flight Club a New York.

Noi abbiamo invitato diversi reseller e artisti, anche dall’estero. I ragazzi di Need More Sneaker da Berlino, Sneak My Style Store di Parigi – lui va proprio nelle cantine a ritrovare le scarpe – i proprietari di UP Streetwear dalla Danimarca, i ragazzi del negozio Kosmos di Trento che gestiscono anche il sito TheSneakersBox e hanno fatto una guida che parla di amanti delle sneakers, di negozi in tutta Europa e anche di fotografi di sneakers. Ci saranno i ragazzi di Angelus Paint che faranno un corso di pittura su sneakers, con Asiscs Tiger che ci ha dato delle scarpe completamente bianche per essere customizzate.

Kickit sarà un evento unico o lo riproporrete in futuro?
Siamo già pronti per farne un altro.

Sneakerness a Zurigo.
Sneakerness a Zurigo.