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Giulio Verago

Il punto di riferimento dell'arte emergente.

quartiere Chinatown

Scritto da Annika Pettini il 30 settembre 2021
Aggiornato il 31 gennaio 2022

Se penso a un’istituzione, un punto di riferimento per l’arte emergente, per chi esce dall’accademia e si ritrova sperduto nel terribile mondo dell’arte o per chi arriva a Milano per la prima volta in cerca di esperienze artistiche e confronto culturale, bhe, mi viene in mente Giulio Verago e il suo grande ruolo in Viafarini. Archivio, nucleo di ricerca e di accoglienza. Non riesco a scindere questi aggettivi tra il luogo e la persona perchè le due identità, da tanto tempo, vanno avanti in parallelo. Quindi facciamoci raccontare di più di questa radicata e radicale profondità.

“L’idea di partecipazione a qualcosa senza sapere bene come andrà a finire ma avendo chiaro un metodo.”

 

Ciao Giulio, raccontaci di te! So che arrivi da un percorso di formazione particolare che ha sempre  segnato in qualche modo il tuo approccio lavorativo.

Grazie, la mia formazione a pensarci forse è un po’ eclettica, come del resto quella di altri colleghi della mia generazione. Passa attraverso studi in filosofia e un master in comunicazione, seguito da studi di dottorato dove ho approfondito le logiche del mecenatismo e della committenza. Penso che questo percorso mi abbia predisposto allascolto e allapertura di orizzonti, che nel mio lavoro è un aspetto fondamentale.

Da anni sei legato a Viafarini, importante istituzione di Milano che prende il nome dalla via stessa in cui è situata (più la sede in Fabbrica del Vapore). Ci racconti del tuo legame con Viafarini e il suo con il quartiere in cui vi trovate?

E’ vero sono davvero tanti anni! Ma fortunatamente lintensità del mio lavoro non mi spinge a fare bilanci. Ho cominciato a collaborare con Viafarini dopo esperienze nel mondo delle gallerie e della comunicazione, mi sentivo pronto per la scoperta del non profit, l’altro lato della Luna. Ho trovato un team fantastico che mi ha accolto in un momento molto particolare della sua storia, per via del trasferimento degli archivi e della sede operativa alla Fabbrica del Vapore e dell’avvio della residenza.

Tra Isola e Chinatown, nonostante la vicinanza, ci sono profonde differenze, sia storicamente che per il senso diverso impresso dal cambiamento di questi anni. Nel nostro “nuovo” quartiere vicino a Sarpi abbiamo realizzato progetti site specific come la parata dellinstallazione di Anna Galtarossa nel 2009 o il progetto del corso in fashion design di Naba con le creazioni degli studenti di Cristina Morozzi allestite nelle vetrine di Chinatown. Abbiamo avviato dialoghi importanti, con associazioni culturali fondate sia da cinesi che da italiani, e gli artisti visivi attraverso il loro lavoro sono sempre i migliori mediatori. Rimane difficile attrarre e coinvolgere nuovi pubblici esterni al mondo dell’arte, ma questa è una sfida a Milano come in altre città del mondo.

Ho parlato di te come un grande punto di riferimento per chi cerca una strada nell’arte e nella ricerca. Come lo percepisci tu?

Ti ringrazio ed è sempre difficile guardarsi. Il mio lavoro mi porta vicino agli artisti in un momento molto delicato della loro vita e cerco sempre di tenerlo a mente quando mi trovo a mediare tra i loro bisogni e quelli della nostra organizzazione. Ho dato al mio ruolo la mia impronta se vuoi un po’ “umanista” nella speranza che il mio lavoro sia così fondamentale da rimanere quasi sotto traccia, perché penso che la curatela debba esaltare l’arte e non viceversa. Sento che Viafarini, pur nelle mille vite che in questi trent’anni ha vissuto, è sempre rimasto un “luogo”, quasi un approdo se vuoi, un giardino di acclimatazione sia per gli artisti italiani che per quelli stranieri. Cercare una strada nel sistema dell’arte e a Milano si è fatto forse persino più difficile perché le istituzioni e i contesti sono meno spontanei, i processi di coesione sociale e di socializzazione informale si sono un po’ inceppati. Allo stesso tempo sento una grande energia, la ricerca non retorica di un nuovo paradigma, più inclusivo nei fatti e non solo nelle parole.

Parliamo spesso dei forti cambiamenti che stanno investendo il nostro settore, la cultura (in senso ampio). In che modo li state percependo tu e Viafarini?

Come un po’ un sismografo abbiamo registrato segnali contrastanti. Milano è cambiata moltissimo e si è fatta più ambiziosa, vedo con grande soddisfazione che studenti e giovani curatori avviano piattaforme di qualità unendo competenze complementari. Spero sia il segnale che le logiche di coalizione prevalgono non solo in risposta alle ristrettezze economiche, ma a un disegno di partecipazione dal basso. Un tema fondamentale per il non profit in Italia è sempre stato la sostenibilità. Sicuramente negli ultimi anni ci sono state novità positive come l’istituzione del bando Italian Council, la creazione di mappature reali e credibili delle migliori pratiche e di organismi di coordinamento e di lobbying che vanno ulteriormente rafforzati e resi più ambiziosi. Le istituzioni, penso a Comune e Regioni, stanno lentamente riprogettando gli strumenti di finanziamento per renderli più efficaci, speriamo diano sempre più ascolto alle istanze degli operatori.

D’altro canto vedo un certo sbilanciamento del sistema dellarte e del suo mercato verso logiche industriali” che rendono più difficile l’investimento sui talenti emergenti, a discapito della scena italiana che spesso viene marginalizzata da quegli attori che dovrebbero investirci per primi.

Il cuore di Viafarini però è anche il suo pulsante archivio. Ci racconti meglio questo tesoro?

L’archivio è nato con la fondazione di Viafarini nel 1991, da allora raccoglie oltre 5.000 portfolio cartacei e oltre mille portfolio digitali, raccolti in un database digitale messo a disposizione alla Fabbrica del Vapore per ricerche. Per festeggiare i trent’anni a gennaio abbiamo lanciato il nuovo sito, progettato con l’artista Umberto Cavenago e il suo team di Officinebit.ch, e l’abbiamo concepito appunto come un Archivio con migliaia di immagini e pdf per raccontare i tanti progetti e le tante funzioni di Viafarini ma anche un po’ il “dietro le quinte” che ha reso possibili i nostri progetti. Inaugurare uno spazio assieme a un archivio fu una intuizione felice e condivisa dai tanti artisti che hanno contribuito alla nascita di Viafarini con energia, tempo, idee. Proprio quello spirito di condivisione da cui partì la storia penso sia quello di cui più abbiamo bisogno adesso. Lidea di partecipazione a qualcosa senza sapere bene come andrà a finire ma avendo chiaro un metodo.

Penso all’Archivio di Viafarini come a un metodo, a una attitudine, a un modo di interagire con gli artisti, di farli sentire parte di una narrazione collettiva. Questo è il motivo per cui l’Archivio di Viafarini è ancora rilevante. La mole dei documenti è impressionante e sono stati infatti esposti – insieme all’archivio Video di Careof con cui abbiamo avviato la sede alla Fabbrica del Vapore – al Museo MAXXI e al Museo del 900.

L’Archivio portfolio di Viafarini oggi è riconosciuto di interesse storico dal Ministero della Cultura ma è soprattutto un archivio di relazioni, e come tale deve essere reso sempre più ampio e condiviso anche per le nuove generazioni.

Il tuo lavoro è caratterizzato da un grande flusso di persone. Gestisci una residenza per artisti e questo ti permette di fare incontri sempre nuovi. Anche gli artisti stanno cambiando? Cosa vedi in loro?

Come sappiamo la gentrificazione ha spinto molti artisti verso altre città o all’estero. Quelli che restano lo fanno un po’ per incoscienza e un po’ per fiducia e mi piace quando questa loro follia viene premiata. La residenza di Viafarini è basata sul concetto di condivisione tra artisti con retroterra differenti, in una logica intermediale e intergenerazionale. Questo crea bellissime connessioni che a volte sfociano a conclusione del ciclo con noi nella condivisione di uno studio. Esperienze recenti come lo studio Armenia in Bovisa e altre prima di loro sono nate da questo luogo e aver contribuito alla loro nascita è uno dei motivi per cui amo il mio lavoro.

È importante quello che fate anche perché portate a Milano un gran bacino culturale nuovo e rigenerante. Che rapporto hai con la città? E gli artisti che si trovano a lavorare qui? Vanno o restano?

Vivo a Milano da vent’anni e la sento come la mia città, dove posso scavare attorno ai miei interessi alimentando la curiosità. Forse per il mio lavoro è l’unico centro realmente competitivo con le altre realtà internazionali, soprattutto quando si parla di mobilità artistica. Oggi ci sono più possibilità di crescita ma c’è molto da fare per rendere le opportunità veramente fruttuose. Ho la sensazione che gli artisti abbiano un buon rapporto con lei perché permette di creare dei percorsi di senso senza imporne uno per forza. Milano non è mai stata una città a senso unico e questo può essere un valore aggiunto. Quanto poi riescano o vogliano restare dipende dai loro obiettivi a lungo termine e dalle risorse che rendono sostenibile il loro lavoro.