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Il volo delle Gazze F.C.

La squadra di calcetto femminile si racconta, testimoniando la vivacità di un movimento sempre meno sotterraneo

Scritto da Emily Rosu il 2 dicembre 2025

Foto di Davide Patria

Negli ultimi dieci anni il calcio femminile è passato dall’essere uno sport di nicchia, un po’ bistrattato, a un fenomeno magnetico che attira sempre più attenzione e partecipanti. Una novità che affascina, ma che spesso sembra ancora provocare qualche perplessità:

Ma che ci fanno quelle in campo?
Ma sono venute a fare il tifo ai ragazzi?
Ma perché ora le ragazze giocano a calcio? Non hanno paura di farsi male?

Come se vedere una donna su un campo di pallone fosse inverosimile quanto l’atterraggio sulla luna; eppure del secondo abbiamo prove inconfutabili! Così come del primo a dire il vero: infatti gli stadi sono pieni (91mila persone al Camp Nou nel 2022), si registrano medie spettatori da rockstar e poi c’è stato un europeo, quello dell’estate 2025 in Svizzera, che ha portato oltre 600mila persone sugli spalti prima di incoronare l’Inghilterra campione. In mezzo, un Mondiale 2023 da record globale. Per non parlare dell’AS Roma femminile: due scudetti di fila, una Coppa Italia e la Supercoppa 2025. Un ciclo che racconta talento, determinazione e spettacolo.

Tutti insieme questi sono dati che raccontano di un boom globale che influisce anche sulle scene locali. Basta guardare Roma, dove negli ultimi anni sono spuntate molteplici squadre di calcetto femminile, come le AC Picchia, le Liberi Nantes o le Super Santos. Dai campi periferici alle strutture più centrali, tra tornei amatoriali e leghe cittadine, il calcio femminile ha ormai preso piede. Un movimento che promuove la socialità, fa venire voglia di provare qualcosa di nuovo, di far parte di una squadra e di occupare spazi che per troppo tempo sono stati inospitali verso altre realtà. La crescita delle squadre capitoline parla di divertimento, di ragazze che si organizzano per conto proprio e di un pubblico che, anche se si gioca lontano dai grandi stadi, ha voglia di esserci.

Una squadra che di recente ha spiccato il volo è Gazze FC. Un gruppo intraprendente e vivace, formato da ragazze che, tra lavoro, vita e responsabilità varie, giocano anche a calcetto. A sostenere la causa, due ragazzi che, con pazienza, ambizione e una buona dose di follia, allenano il gruppo. Tra allenamenti aperti e il classico “ho un’amica che vuole provare”, la squadra è cresciuta velocemente. Un gruppo misto che vede scendere in campo copywriter, fotografe, professoresse, brand managers, restauratrici d’arte e tante altre professioni, tutte accumunate dall’essere calciatrici by night.

Quindi cosa ci vuole per portare avanti una squadra di calcetto femminile a Roma? Sarà tutto rosa e fiori o c’è anche qualche spina con cui fare i conti? Ci rispondono Carolina Latour e Gaia De Siena, le co-founder delle Gazze FC, e i coach: Michele Magro e Tito Rampini.

 

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Com’è nata l’idea di fondare una squadra di calcetto femminile a Roma?

Carolina Latour: Gazze FC nasce in un caffè di Torpignattara una domenica di gennaio. Gaia ed io eravamo sedute sugli spalti di un campetto a guardare la classica partita di calcetto tra amici. Mentre loro – i maschi – giocavano, abbiamo iniziato a ragionare su quanto sarebbe stato divertente se su quel campo ci fossimo state noi. Sorseggiando il nostro caffè, ci siamo sorprese a trovare l’una nell’altra la stessa attrazione per quel momento, la stessa voglia di appropiarci di qualcosa che ci è sempre sembrato non ci potesse o dovesse riguardare, di buttarci in un’esperienza nuova, uno sport di squadra, un progetto al femminile. L’idea di fondare la squadra è nata in quel momento con la speranza che potesse essere un progetto dove accogliere altre ragazze che, come noi, volevano imparare a giocare a calcio. Un luogo di riappropriazione di un tempo e uno spazio al femminile che fosse inclusivo e divertente e alla portata di tutte.

Quali sono stati i primi ostacoli (o pregiudizi) che avete dovuto affrontare?

Gaia De Siena: Per quanto il progetto abbia riscontrato subito interesse e supporto da parte di molti, sicuramente abbiamo, e continuiamo, ad essere oggetto di pregiudizi e di commenti spesso non richiesti. Durante il nostro primissimo allenamento (in un campo che da allora non abbiamo mai più prenotato), un addetto ai lavori del centro sportivo ci ha tenuto a fare dei commenti sessisti. Molte compagne hanno ricevuto commenti, catcalling e sguardi insistenti e non richiesti girando per la città in abbigliamento da calcio. I primissimi tempi ci siamo ritrovate a dover spiegare, quasi giustificare il perché, in molti casi “a trent’anni suonati” volessimo giocare a calcetto, quando magari alcune di noi non avevano neanche mai visto una partita di calcio. La squadra è composta da ragazze che giocano da anni; altre che avevano abbandonato ma che giocavano da giovani; da tifose e appassionate del calcio; ma anche, semplicemente, da donne che hanno deciso di testarsi su un campo completamente nuovo. Abbiamo documentato il nostro percorso dal primo allenamento sui social, e anche questo ha ovviamente attirato commenti e opinioni spesso non richieste circa la nostra preparazione tecnica, su quali fossero “i nostri obiettivi”, sul perché “proprio il calcio e non la pallavolo”.

Tito Rampini: L’entusiasmo che portano in campo è un antidoto a qualsiasi pregiudizio. Detto questo, i preconcetti ci sono, eccome: c’è ancora chi pensa che una squadra di ragazze non possa fare “sul serio”. Poi le vedi allenarsi sotto la pioggia, autofinanziarsi tutto, e ti accorgi di quanto sia reale quello che stanno costruendo. E che fanno il doppio degli sforzi dei ragazzi, per cui giocare è molto più “semplice”.

Michele Magro: Prima di tutto mi sono dovuto liberare di tutte le scorie accumulate in decine di anni trascorsi in un ambiente, come quello del calcio maschile, imbevuto di pregiudizi, specialmente sul femminile. Le ragazze mi hanno aiutato ad accantonarli in fretta, perché dal primo giorno in cui sono entrato dentro al campo ho sempre trovato grande volontà e grande disponibilità da parte di tutte.

C’è stato un momento in cui avete capito che “stava funzionando” e che il progetto aveva preso davvero vita?

Gaia: Vedere il gruppo Whatsapp crescere da una manciata di amiche a più di quaranta persone, di conseguenza gli allenamenti pieni di facce nuove di settimana in settimana è stato sicuramente uno shock all’inizio, ma ci ha fatto capire che avevamo smosso qualcosa, colto una mancanza, il desiderio magari non espresso ad alta voce di mettersi in gioco di tante altre ragazze. Uno dei momenti più emozionanti della scorsa stagione è stato sicuramente la nostra ultima amichevole prima del break estivo, un piccolo pinch-me moment: gli amici che tifavano a bordo campo, i nostri primi gol, i festeggiamenti a seguire (nonostante la sconfitta) – in quel momento è stato chiaro a tutta la squadra e agli allenatori che avevamo costruito qualcosa di veramente speciale.

Michele: È stato chiaro da subito che le Gazze erano riuscite a fornire una soluzione concreta a una domanda molto diffusa e trasversale: le ragazze hanno bisogno di vivere lo sport amatoriale come forma di aggregazione. Da quando abbiamo iniziato, a febbraio di quest’anno, non c’è stato un allenamento in cui non si presentasse una nuova giocatrice al campo e questo penso sia il segnale più genuino e spontaneo che una nuova squadra possa raccogliere.

Tito: Direi che si è capito da subito. Sono partite in sette/otto, ma ogni settimana si aggiungeva una nuova ragazza, nelle giornate di pioggia quasi tutte si presentano puntuali al campo, spesso dopo gli allenamenti si resta a bere una birra e lo scorso luglio abbiamo visto gli europei dell’Italia tutte insieme. Questi sono i segnali che lo spirito e il gruppo sono solidi.

Dove vedete la vostra squadra tra cinque anni?

Michele: La squadra la voglio vedere fra un anno, perché nel calcio dilettantistico non esiste un lungo periodo. Chiunque ci si trovi in mezzo sa cosa vuol dire far parte di un progetto sportivo che ha bisogno di autofinanziarsi e autodisciplinarsi. Bisogna essere sempre in grado di trovare nuove energie. Quindi, l’obiettivo è quello di riuscire a chiudere un anno sportivo dall’inizio alla fine, di dare un’organizzazione solida alla squadra e di giocare al massimo di quelle che sono le nostre possibilità. Poi quello che succederà più avanti si vedrà.

Carolina: difficile dire dove saremo fra cinque anni. Sicuramente non troverete in campo tutte le stesse ragazze che ci sono oggi. Una turnazione è certa ma anche auspicabile. La speranza è infatti che GAZZE FC continui ad esistere e accogliere nuove leve nella squadra. Il progetto però non si limita al rettangolo del campo, ma vuole essere un dispositivo di attivazione di tanti altri aspetti: l’esperienza del collettivo, la socializzazione in età adulta, la riappropriazione di un tempo e di uno spazio personale, la difesa dell’amatorialità e dell’errore, la lotta alla discriminazione di genere e la denuncia di una scarsa accessibilità del calcio per le donne. Attraverso la squadra, come GAZZE vorremmo dare vita a una serie di progetti sociali volti alla maggiore integrazione delle ragazze nel calcio e in generale nello sport, e vorremmo raccontare con una serie di eventi e incontri i problemi legati a questo sport da un punto di vista femminile invitando altre squadre amatoriali e altri progetti simili al nostro per condividere le esperienze e mettere sul piatto possibili soluzioni. Tra cinque anni speriamo di aver portato avanti tanti progetti utili e di festeggiare cinque anni di Gazze con una maggiore parità di genere e senza dover combattere ancora gli stessi tabù di oggi.

Tito: Cinque anni sono un’era geologica in un progetto come il nostro. Io per ora spero in una stagione intera senza infortuni seri — che purtroppo ci sono già stati — con la partecipazione a un torneo, anche solo per confrontarci con altre realtà simili. Crescere, divertirci e vedere fin dove possiamo arrivare senza snaturarci e senza diventare troppo competitive, ma rimanendo quelle che siamo.

Che cosa servirebbe per far crescere ancora di più il movimento a livello locale?

Michele: Strutture, penso sia questo il grande problema che vive chiunque voglia portare avanti una realtà sportiva dilettantistica in una città come Roma. Mancano le strutture e le possibilità di rendere questi progetti sostenibili sia da un punto di vista finanziario che da un punto di vista sportivo. Inoltre, vista la grande risposta che abbiamo ottenuto in pochi mesi, mi sentirei di aggiungere che di spazio ce n’è ancora tanto; questo movimento ha bisogno di altre squadre se vuole continuare a crescere in maniera esponenziale.

Tito: Il sistema dilettantistico è già fragile in sé, nel nostro caso è ancora più precario. Le ragazze si autogestiscono e autofinanziano in tutto, anche un semplice magazzino dove tenere il materiale sembra un sogno. Ma soprattutto, manca ancora una visione in tante persone: c’è chi pensa “ma sì, tanto sono ragazze, lo fanno per hobby”. Ecco, cambiare questa mentalità sarebbe già un grande passo. Servirebbe più attenzione, più spazi dove parlare e discutere di queste tematiche: a Roma inizia ad esserci una rete per alimentare questi progetti, speriamo si prosegua in questa direzione. Tutto il calcio è in crisi, magari saranno le ragazze ad indicarci qual è la via da percorrere.

Qual è il sogno più grande che vi portate dentro quando scendete in campo?

Michele: A me piace allenare e lo farei tutto il giorno se potessi, quindi io sono già contento così. Ora dirò una cosa un po’ retorica forse, però vedere quanto sono forti i legami umani che si creano intorno a una squadra di calcio è sempre sorprendente; specialmente per loro che, vuoi o non vuoi, se la sono costruita da sole. Spero che riescano a mantenere questo spirito e che siano in grado di alimentarlo ogni giorno di più.

Carolina: Credo che questa esperienza abbia per ognuna di noi un significato e un obiettivo diverso. Per alcune di noi la squadra ha rappresentato un posto sicuro dove dimenticare problemi personali, per altre un momento di leggero divertimento, per altre ancora l’attività fisica che non riuscivano a fare con costanza, per qualcuna un’opportunità di sfogare una sana competizione, e tanto altro. Penso però di parlare a nome di tutte quando dico che allenamento dopo allenamento, avendo sempre più contezza dei nostri miglioramenti, la squadra ha naturalmente preso una forma, e si è diffuso un senso di forte appartenenza e un sentimento di orgoglio per la strada che abbiamo fatto da quando non sapevamo allacciare gli scarpini ad oggi. Il sogno più grande che abbiamo è probabilmente di vedere Gazze FC continuare ad esistere nel tempo mantenendo questa energia, questo entusiasmo e questo sentimento identitario.

Tito: Non ho un sogno preciso, non potendo partecipare e vincere la Coppa del Mondo. Ma spero sempre di vederle contente, soddisfatte, felici di venire al campo. Migliorare insieme, sudare, ridere, sbagliare e riprovarci. Se continuiamo a fare questo, è già un traguardo.

Qual è l’energia che si respira in campo e negli spogliatoi?

Gaia: Inclusività, amicizia e un bel po’ di fomento e voglia di mettersi alla prova. Per me le Gazze sono questo. Credo che il fatto di aver iniziato (o per alcune di noi ripreso) a giocare insieme, partendo in molti casi da zero, in pochissimi mesi di allenamenti bisettimanali abbia contribuito a creare dei legami molto forti tra di noi e uno spirito di squadra potentissimo. La cosa che più mi commuove credo sia che le prime tifose delle Gazze siamo proprio noi.

Michele: Mi sembra che abbiamo legato parecchio, trascorriamo tanto tempo insieme anche fuori dal campo e questo credo sia indice del buon clima che sono riuscite a creare intorno a questa squadra. Poi il calcio è un veicolo potente, spero che le Gazze diventino sempre più brave a utilizzarlo per promuovere le cause che meritano di essere sostenute.

Tito: C’è una curiosità ed entusiasmo trascinanti. Ricordo una delle prime amichevoli: due miei amici volevano venire a vederci, li avevo avvisati che non avrebbero visto una grande partita. Abbiamo perso tipo 8-0, forse senza fare neanche un tiro in porta. Eppure, li ho visti tifare aggrappati alla rete, come fosse una finale.

Come vi organizzate tra allenamenti, tornei e vita personale?

Michele: L’organizzazione è piuttosto semplice: basta dedicare una buona parte del proprio tempo libero al progetto.

Tito: Per ora bene, ci si adatta. Certo, ogni tanto capita una sovrapposizione con impegni personali, ma è normale e sono ancora nella fase in cui rosico da morì se non riesco ad andare ad allenare. Più il progetto va avanti, più cerchiamo di chiedere continuità a tutte/i. L’importante è che rimanga uno spazio desiderato, non sentirlo un obbligo.

Carolina: l’organizzazione è stata fin da subito impostata dai nostri coach con grande serietà. Questo ha permesso di dotarci di una struttura mentale prima di tutto e poi logistica che è stata fondamentale a mio avviso per dare un’impostazione alla squadra e passare forte e chiaro il concetto di impegno e di continuità, pur rimanendo nel divertimento. Siamo grate ai nostri coach per l’impegno che dedicano alla squadra in termini di tempo e di qualità. Vedere la loro motivazione e attenzione porta di riflesso le ragazze che si avvicinano al progetto ad entrare in campo con concentrazione, dedizione e rispetto per quello che si fa. Per ora la vita personale di ciascuna non ha troppo risentito dell’inserimento degli allenamenti. Vedremo come andrà una volta che inizieremo il torneo tra trasferte e weekend di partite, ma sono certa che non sarà percepito come un “sacrificio”, ma come una grande opportunità.

Quali differenze notate rispetto alle realtà maschili, sia in termini di opportunità sia di gestione?

Michele: Il calcio ha una Federazione capillare, strutturata, organizzata. Le grandi società sono spesso dei punti di riferimento sul territorio. Noi giochiamo sul campo della Romulea, una squadra che ha fatto la storia di Roma dal punto di vista calcistico. Il calcio femminile deve crescere e svilupparsi attorno a queste fondamenta che già esistono e che non possono far altro che aiutarlo a crescere. Quando ero piccolo, era impensabile accostare le ragazze al calcio, oggi se entri in qualsiasi impianto ci sono molte probabilità di assistere a un allenamento di una squadra femminile. Penso che la strada sia quella giusta, spero che la Federazione abbia la voglia di investire risorse importanti per lo sviluppo del movimento.

Tito: La differenza principale è che per i ragazzi esiste già una struttura, sia fisica che mentale. C’è più offerta, più considerazione, più “normalità”. Per le ragazze invece ogni cosa va costruita: il campo, la squadra, la credibilità. Non si parte da zero, si parte da sotto lo zero. Eppure, forse proprio per questo, il senso di appartenenza che si crea è fortissimo.

Carolina: Tutto il sistema è differente. Faccio solo un esempio: noi per giocare a calcetto abbiamo dovuto fondare una squadra. Non esiste l’immediatezza di un gruppo whatsapp dove scrivi “Ragazze giovedì per una partita chi c’è?”. Se vuoi giocare a calcio, dove le trovi altre ragazze che sanno già giocare? Per i maschi il calcetto esiste semplicemente da sempre. Se vuoi giocare, devi solo mandare un messaggio. Questo è solo uno dei tanti complessi aspetti che riguardano un mondo che per noi non è naturale frequentare e che ci è sempre sembrato appannaggio di altri.

Pensate esistano specificità della scena del calcetto romano rispetto ad altre regioni? In che zone di Roma giocate di solito e perché, a quali zone siete più affezionate?

Tito: Roma ha una scena viva ma molto disordinata. Mancano spazi accessibili e continuità nei progetti. Noi giochiamo nella zona centro-tendente all’est, principalmente perché è logisticamente sostenibile per la maggior parte del gruppo, e ormai è diventata casa. La partecipazione a un torneo che prende molte squadre della parte est della città permetterebbe di esplorare anche altri quartieri, per conoscere altre realtà simili.

Carolina: Roma, come Milano, ha visto negli ultimi anni una crescita esponenziale di squadre amatoriali e non. La situazione è confusa e poco strutturata. Con gli eventi che intendiamo organizzare ci piacerebbe infatti portare avanti una mappatura del calcetto femminile in Italia invitando le squadre delle altre città a raccontarci la loro storia, le loro problematiche. Siamo legate a quartiere San Giovanni perché il campo dove ci alleniamo si trova lì. La scelta è stata fatta principalmente per una questione di vicinanza alla maggior parte delle ragazze, ma ormai ci sentiamo a casa nostra. Nel campo si allenano anche altre femminili e questo ci ha fatto sentire parte di una sorta di comunità.