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Ilaria Marotta e Andrea Baccin

Rivista, basement per mostre ed eventi, casa editrice. In occasione del suo decennale, abbiamo intervistato i fondatori di una delle realtà di Roma più convincenti nel campo dell'arte contemporanea: CURA.

Scritto da Nicola Gerundino il 11 aprile 2019
Aggiornato il 7 maggio 2019

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Attività

Curatore

Sì, qualcosa si stava muovendo: in Italia, a Roma, nell’arte contemporanea. Negli anni 90 erano stati piantati tanti semi, nei primi 2000 stavano fiorendo e in tanti c’era la ferma convinzione che mettendoci impegno, ingegno, creatività e un po’ di budget iniziale, si potesse dar vite a tante nuove realtà capaci di camminare con le proprie gambe. Poi è arrivata la crisi ed è partito il “si salvi chi può” generale dal quale ancora non siamo usciti. Chi ha avuto le spalle più forti e ha maturato le idee migliori è risuscito però a rimanere in piedi sul proprio cammino e oggi, se si guarda indietro, può vedere un percorso lungo anni, in crescita costante. CURA., ad esempio, progetto partito come rivista, cresciuto come basement espositivo e oggi realtà riconosciuta a livello nazionale e internazionale, tant’è che le dieci candeline le spegnerà tra Milano e Lisbona e solo in misura minore a Roma, città natale. Ne abbiamo parlato con i due fondatori in questa intervista: Ilaria Marotta e Andrea Baccin.

Claudia Comte in mostra nel BASEMENT ROMA di CURA.

 

Iniziamo questa intervista parlando dei primi passi. Come e dove nasce CURA.?

CURA. è nato al bancone di un bar. Come Gregor Schneider, anche noi abbiamo sempre preferito i bar ai cinema (anche se ci piace molto il cinema). Ed è lì che nasce la maggior parte dei nostri progetti e delle nostre idee. Volevamo creare qualcosa di nostro. Sentivamo il fermento intorno all’editoria e pensavamo che una rivista ci avrebbe dato lo spazio per sperimentare.

Che ricordi avete del primo numero e cosa avete pensato quando lo avete avuto tra le mani?

Sinceramente? «Oddio, che orrore!». Su alcune cose è meglio non tornare: eravamo giovani e inesperti e i primi CURA. ne sono la prova. Del numero 00 ci piace ricordare solo la copertina dell’artista iraniana Avish Khebrehzadeh.

CURA. è sempre stato pensato come un progetto su più livelli o siete partiti solo con l'idea di sviluppare il magazine?

Il progetto è nato intorno al magazine. La rivista era – e rimane – il focus del nostro lavoro, la cosa che, alla fine dei conti, continua a emozionarci e divertirci di più. Attraverso CURA. possiamo approfondire e fare ricerca. Pubblichiamo quello che ci interessa e seguiamo una linea editoriale molto definita. Tutto ruota intorno a una passione che è diventata un lavoro a tempo pieno. Non avremmo mai pensato di festeggiare i dieci anni di attività. Anzi, si accettavano scommesse sul numero a cui saremmo riusciti ad arrivare.

La difficoltà e la soddisfazione maggiore di quel primo periodo?

La difficoltà maggiore? Senz’altro i soldi, oltre a una certa inesperienza in campo editoriale. Da una parte, dunque, la necessità di migliorarsi, di migliorare conoscenze tecniche, ma anche strategie e relazioni. Dall’altra sopravvivere, riuscire a supportare la produzione e la distribuzione. Ovvero riuscire a stampare il numero successivo. Piano piano siamo riusciti a migliorare la qualità della stampa, la grafica, i contenuti, ad ampliare il network, ad approfondire la ricerca, cercando di dire cose interessanti (per noi e per gli altri). Il percorso poi è stato costellato di piccole e grandi soddisfazioni, numero dopo numero. E ogni volta che riuscivamo a spuntare una voce dalla lista dei nostri obbiettivi passavamo a quello successivo.

CURA. è nato in un periodo di forte interesse e crescita per l'arte contemporanea in Italia. Che ricordi ne avete? Avevate l'impressione che si stesse muovendo qualcosa? E, alla fine, quel qualcosa si è mosso oppure no?

C’era un grande fermento, è vero. Ma era anche il 2009 e l’Italia stava entrando in una delle sue peggiori crisi economiche – da cui, peraltro, non si è più ripresa. Ogni attività all’inizio sconta un periodo di default e noi eravamo perfettamente consapevoli che l’inevitabile fase complicata dell’avviamento del nostro progetto sarebbe stata accompagnata da questa crisi. Poi, in realtà, siamo stati fortunati perché molti musei italiani hanno supportato in maniera decisiva i primi passi di CURA. Le realtà editoriali erano allora viste come vere e proprie istituzioni, che arrivavano a coinvolgere un network internazionale, dinamico e plurale: una caratteristica tutta italiana di quegli anni, che comunque veniva riconosciuta e considerata. Basti pensare che per un progetto di ricerca di portata internazionale come Europe Europe, condotto da Hans Ulrich Obrist e Gunnar Kvaran, l’Italia era stata selezionata proprio per le sue realtà editoriali (noi e un’altra rivista), laddove per altri Paesi erano state invitate kunsthalle, spazi no profit, artist run space o altro.

È vero, si era molto attivi sul piano editoriale, tant'è che entrando in una galleria si potevano portare a casa sottobraccio quasi una decina di pubblicazioni. Avete mai avuto la sensazione di un sovraffollamento?

Abbiamo sempre vissuto una sana competizione con le altre riviste. La pluralità crea energia, dibattito, momentum. Noi eravamo comunque tra gli ultimi nati, dunque ci siamo adeguati.

Ci sono state pubblicazioni alle quali vi siete ispirati? Cosa leggevate allora e cosa leggete oggi?

Siamo innamorati della carta stampata e di moltissime pubblicazioni come Real Review, White Fungus, Sleek, 032c, Another, Dazed, Kinfolk. Uno dei nostri modelli all’inizio è stato il magazine letterario Fuck You: A Magazine of the Arts, fondato nel 1962 dal poeta Ed Sanders. Il suo concept era: stampo tutto su carta ciclostilata e allestisco con punto metallico, e poi lo distribuisco in maniera clandestina. Una vera chicca.

Quant'è cambiata l'editoria nel mondo dell'arte in questi dieci anni?

Notevolmente. In Italia alcune riviste non stampano più, altre hanno virato verso la moda, altre ancora hanno avuto avvicendamenti ai vertici. Ci sono riviste che dipendono da grandi editori e altre che sono rimaste indipendenti, come nel nostro caso. Crediamo la differenza sia sostanziale.

Insieme al magazine sono arrivate le curatele e, soprattutto, il BASEMENT romano. Qual è la storia di questo luogo?

Il BASEMENT era un luogo abbandonato da anni e, prima di diventare uno spazio espositivo, altro non è stato che la redazione di CURA. – cosa che è tuttora. Un luogo di produzione e di pensiero che piano piano è stato trasformato in uno spazio condiviso, con persone, amici e artisti che si fermavano qui passando da Roma e che lo utilizzavano per lavorare, magari per un talk o un video screening. Abbiamo quindi assecondato un flusso naturale, passando da piccoli progetti curatoriali – tra questi “Chinese Whispers”, basato sul passaparola, o “It’s Up to You”, basato su un’inclusione incondizionata di artisti che potevano portare qui il proprio lavoro – fino ad arrivare a mostre sempre più strutturate. Alcuni di noi venivano da esperienze curatoriali istituzionali, altri invece hanno cominciato così, nel modo migliore. Ci siamo ispirati a spazi underground newyorchesi come quello di Dexter and Sinister o gli spazi di e-flux, o The Artists Institute, credendo nell’idea di una comunità dell’arte, capace di creare energie e idee. Abbiamo ospitato per molti anni publisher in residency e quindi un bookshop con edizioni indipendenti di tutto il mondo, in collaborazione con Motto. Eravamo gli unici in città. Gli artisti che abbiamo cominciato a invitare hanno quindi avuto modo di lavorare nello spazio come volevano, da sempre. La famosa espressione “carte blanche” per noi è sempre stata l’esatta espressione del tipo di lavoro che gli artisti erano e sono chiamati a fare in questo spazio seminterrato, composto di sole tre stanze.

Quanto ha cambiato il vostro modo di lavorare l'avere uno spazio espositivo?

Prima ci occupavamo solo del magazine, poi sono arrivati i libri e quindi, quasi contemporaneamente, lo spazio. Abbiamo affrontato tutto sempre con lo stesso atteggiamento. Ovviamente abbiamo dovuto aumentare lo staff e lavorare di più!

Tra i tanti artisti e progetti esposti, ce n'è qualcuno a cui siete più legati?

Parecchi e per diversissime ragioni. Nella mostra di Ed Fornieles ci siamo divertiti molto a far sdraiare le persone su materassi ad acqua e invitarle ad avere un’esperienza sessuale virtuale, con oculus che venivano testati dalla maggior parte del pubblico per la prima volta (era il 2016). Con Claudia Comte abbiamo invece sperimentato il tipo di allestimento museale e ci siamo misurati con tutte le imperfezioni dello spazio. Con Nico Vascellari abbiamo creato una bisca clandestina settimanale per soli 33 partecipanti a volta, e per cinque settimane abbiamo subito l’hangover di quelle serate…

Dopo CURA. è arrivato KURA., un nuovo spazio, ma stavolta con base a Milano. Da dove nasce l'esigenza di una seconda sede e perché proprio a Milano?

Siamo stati invitati da Fonderia Artistica Battaglia circa un anno fa. Eravamo a New York, con il caffettone del mattino ancora in mano, quando abbiamo ricevuto questo invito del tutto inatteso. Non avevamo un’esigenza specifica rispetto a Milano, ma ovviamente abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo e accettato la sfida. Milano è una bella città, piena di energia e molto ricca dal punto di vista della proposta culturale, con fondazioni, gallerie, realtà indipendenti. Lo spazio all’interno della Fonderia, prima in Via Stilicone e ora in Via Oslavia, è un unicum, perché è un luogo di produzione storico, di cui si avverte l’anima. Non è un semplice white cube e ci piace molto questa idea. È uno stimolo eccezionale per gli artisti che invitiamo e che naturalmente si incuriosiscono, testano e, talvolta, decidono di produrre in bronzo.

Cosa sta succedendo da quelle parti? Quali sono i fermenti che avete intercettato e cosa vi ha catturano di più?

Certamente ciò che manca a Roma: le grandi fondazioni.

Ci sono molte realtà di Roma che hanno aperto una seconda sede a Milano e alcune di esse si sono addirittura trasferite in toto. Che ne pensate di questa piccola migrazione che si sta verificando da 4-5 anni a questa parte?

Molti artisti hanno scelto di spostarsi a Milano, probabilmente stimolati da opportunità più evidenti.

Cosa succederebbe se una mattina ci risvegliassimo tutti lì?

Forse saremmo troppi, ma non sta a noi dirlo.

L'Italia dell'arte e della creatività può fare a meno di Roma?

Assolutamente no.

Di Roma che ne pensate? Dove sta andando questa città?

L’attuale giunta comunale sta causando gravissimi danni alla città. Siamo molto arrabbiati per come stanno andando le cose per cui, ancor più di prima, essere qui rappresenta anzitutto un atto di resistenza. Tuttavia di Roma non puoi non amare la magia, lo spirito, e il suo meraviglioso cinismo. Sul fronte arte contemporanea ci sono (ancora) interlocutori validissimi.

Tornando a parlare di CURA., quest'anno c'è un decennale da festeggiare: quali sono le attività in programma?

È da poco uscito il numero 30 della rivista, che ha ufficialmente aperto i festeggiamenti. Ci siamo fatti il regalo di un restyling grafico, che abbiamo affidato a Studio Yukiko (Berlino). Tra i diversi contributi, Hans Ulrich Obrist si è prestato a rileggere le immagini di questi dieci anni attraverso una sua selezione di lavori che restituiscono un tratto distintivo della nostra ricerca: il rapporto tra arte e tecnologia. Il 3 aprile abbiamo inaugurato la prima mostra personale di Than Hussein Clark in Italia – nel nuovo spazio di KURA. – insieme alla presentazione del lavoro di Yves Scherer, primo artista invitato per l’Open Studio Residency Program della Fonderia, di cui siamo diventati direttori artistici. A maggio ci sposteremo a Lisbona, dove siamo stati invitati dalla Kunsthalle Lissabon a occupare il suo spazio per quattro mesi – dopo Pivô e prima di SALTS e ICA Philadelphia. Apriremo con una mostra di Athena Papadopoulos, artista che si è intrecciata al nostro percorso in diversi modi nel corso degli anni, sia sul piano editoriale, sia sul piano curatoriale. A maggio riprenderemo anche la programmazione del BASEMENT di Roma.

Tra le attività che avete in programma per il decennale mi ha molto incuriosito il focus che farete sul clubbing, come mai questa scelta?

Si tratta di un progetto editoriale nato circa un anno fa dalla curiosità di approfondire il rapporto, da sempre fitto, tra gli artisti e la scena notturna, intesa come spazio di libertà, espressione, rivendicazione politica e sociale, e di rottura. Dopo i primi tre numeri di Martha Kirszenbaum, Vittoria Matarrese e Nico Vascellari, stiamo lavorando al numero orchestrato da AHMD (Eddie Peake, George Henry Longly e Prem Sahib) e quindi a quello autunnale sulla scena clubbing parigina anni novanta, diretto dall’artista francese Fabrice Hyber.

Siete dei club addict?

Ahhahhaha! No!

Avete già deciso cosa farete per i 20 anni di CURA.?

Saremo probabilmente ancora qui, a rispondere alle domande sui 20 anni di CURA.

Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2019-07-01