Se si scrive della JFSWO, forma ridotta di Jean Frank O’Suzuki Wet Orchestra, uno si trova da subito davanti a una cornucopia di strade, volti e approcci al tradizionale concetto di band. Un caos caleidoscopico che riflette i modi vulcanici e la parlantina melliflua dell’istrionico Steno Branca, il Maestro, leader carismatico ai limiti dello spirituale della ciurma JFSWO. Gallerista, cantante e co-fondatore, nel 2019, assieme al cantautore e bassista Dorian Monterosa (organizzatore del party live FuocoLento) di uno dei gruppi più stuzzicanti del panorama milanese contemporaneo. Al cospetto della JFS si rimane spiazzati perché non si sa da dove cominciare, se pragmaticamente dal gruppo o da quel tanto elusivo quanto ingombrante Jean Frank O’Suzuki, crooner, anchorman radiofonico texano e leader del gruppo. Il suo volto è oggi agiografia, mistificata dal ricordo cristallizzato nel tempo, prima della scomparsa. Come lo chef di Boiling Point, Jean Frank O’Suzuki è un uomo in fuga dai suoi demoni ma che al tempo stesso si barcamena strenuamente tra i fardelli della vita, condottiero di una band, la sua Orchestra, che ne insegue le orme, per riportarlo a casa.
Un linguaggio arlecchinesco, al tempo stesso profondo e surreale, con guizzi di neologismi, come il concetto stesso di Jeanfrankismo di cui si fanno portatori i componenti del gruppo.
La JFS, potremmo sostenere, esiste da sempre e, forse per questa ragione, non è mai davvero esistita. Nasce con radici sonore e identitarie ben precise, quelle del Delta Blues e delle distopie da salotto televisivo americano, eppure che affondano in un passato mai accaduto. O meglio, verosimile. Anzi, potrebbe essere tutto un grande coupe de theatre di AI, se non esistesse il contrasto, stridente e seducente, con il realismo sanguigno che trasudano i suoi membri. Sembrerebbero figure appartenenti al ‘900, scarti di copioni per commedia all’italiana, con del dramma umano che è però stato di Pupi Avati o Monicelli. Ma anche crooner che oscillano, in un sottile equilibrio, tra il grandeur decadente ed auto-implodente dell’Elvis prigioniero di sé stesso a Las Vegas e avanzi di balera, icone vernacolari della Ligera intente a lanciarsi in un’ultima, sguaiata, canzone della mala, prima dell’arrivo delle sirene della Polizia.
Ne è sunto un linguaggio arlecchinesco, al tempo stesso profondo e surreale, con guizzi di neologismi, come il concetto stesso di Jeanfrankismo di cui si fanno portatori i componenti del gruppo. L’ispirazione arriva dal situazionismo e dagli scritti di Bataille, spiega il Maestro Branca. Le performance vengono definite Real/Madaism in virtù della loro cifra surreale. Culto già prima di fare uscire il singolo d’esordio, il garage lisergico e malandrino di “Akapulco”, perché atemporali. Anzi, è dopotutto per questa ragione che i JFSWO sono così intriganti in un panorama musicale cittadino certo non monotono, ma adagiato su certi vezzi di forma ed imbottigliato in cul de sac tanto musicali quanto comunicativi. Sulla carta, va detto, la musica proposta dalla JFSWO è una delle cose oggi più lontane dallo zeitgeist e dagli standard dell’industria italiana, eppure conquista proprio in funzione di ciò. Il progetto è liberatorio nella sua ponderazione estatica di tribalismo performativo, ricchezza di riferimenti culturali e professionalità d’esecuzione.
Un Electric Kool-Aid Acid Test, un viaggio deragliante su un magic bus che dal Mississippi conduce in Messico, poi a Londra, nella Bassa Padana.
Dialogare con i ragazzi della JFSWO, così come l’ascoltarli – o meglio, vederli suonare – è quanto di più vicino oggi all’avventurarsi tra le pagine di un reportage gonzo di Hunter S. Thompson o Tom Wolfe. Un Electric Kool-Aid Acid Test, un viaggio deragliante su un magic bus che dal Mississippi conduce in Messico, poi a Londra, nella Bassa Padana e, infine, si schianta ai margini di Corso Sempione contro il colonnato rosablu di uno splendido condominio di Piero Bottoni. Lì è ubicata, all’ombra dell’imponente edificio RAI progettato da Gio Ponti, Galera San Soda, la galleria d’arte che è punto di un arrivo che è in realtà partenza in questa storia.
Abbiamo provato a districarci nell’universo narrativo dei JFSWO raggiungendo in Galera San Soda Steno ‘Il Maestro’ Branca.
Come nasce il concept dietro al progetto?
Noi ci siamo conosciuti in Galera San Soda con l’obiettivo di riprendere TwYL tX Radio, una radio pirata texana nata intorno al 2008/2009 all’interno dell’AA, l’Architectural Association di Londra dove studiavo. Era una radio gestita da studenti per cui inventammo il personaggio di Jean Frank O’Suzuki, una figura non credibile di un presentatore radiofonico ispirata dal Tom Waits di “Down by Law”. Era un vecchio crooner che a un certo punto va in meltdown in diretta e fugge. Voleva incarnare la falsità mediatica di anchorman televisivi come David Letterman, intervistando però gli architetti e gli artisti che passavano dall’università: da Brian Eno allo chef Fergus Anderson del ristorante St. John, fino a David Greene degli Archigram che era nostro docente. Si parlava di arte e musica, con il Delta Blues come punto di partenza.
Da lì al presente, cioè a Galera San Soda in Corso Sempione…
A 10 anni di distanza, ho aperto la galleria proprio con una mostra sulle frequenze sonore e durante il periodo dell’allestimento avevamo deciso di invitare in Galera dei musicisti seguendo il vecchio format del Jean Frank O’Suzuki Presents. Il primo ospite fu Andrea Dissimile dei 72 Hours Post Fight nel Luglio 2019. Da lì, piano piano, con Dorian [Monterosa, ndr] iniziammo a invitare altri musicisti, molto eterogenei, con cui entrammo in sintonia. Tutti artisti con cui è stato possibile ricreare l’anima del Delta Blues, come Lorenzo ‘Capt.’ Fornabaio, oggi nei Baustelle, che ha un background molto ‘70s rock. In più abbiamo trovato musicisti come Giacomo ‘El Jefe Real/Machine” Fiocchi più vicino alla synth wave e alla scena di Eno, Stefano ‘Steasy’ Rescaldani alla batteria e Damiano Afrifa alle tastiere. A quel punto abbiamo capito che il progetto meritava di essere portato oltre il solo spazio della galleria.
Come arrivate al disco d'esordio?
Da lì nasce l’idea di rincontrarci, nella finzione narrativa, per una reunion di quella che fu la band di Jean Frank O’Suzuki, per girare un mockumentary “Once Were Nobody – The True Story Behind JFS’s Case” e incidere un Album “Multiply Zero” [in uscita il 26 Maggio] alle Officine Meccaniche di Mauro Pagani con la produzione di Niccolò Fornabaio. Partiamo dalla fine, il disco va inteso come alfa e omega del progetto.
Mi sembra di capire che il legame con l’arte e Galera San Soda sia viscerale all’identità del progetto…
Galera non è stato solo punto primordiale di incontro, ma anche set teatrale e spazio performativo dove lavorare con video artist. Il primo di questi è stato Loris Gentile di No Text Azienda. Dal punto di vista visivo, abbiamo approcciato John Mirabel per creare una serie di dischi 45 giri in ottone lavorati ad intaglio per raccontare la varie fasi della vita del personaggio.
Una Via Crucis della Vita di O’Suzuky…
Esatto, dalla nascita, al successo, poi la fuga in Messico e l’arrivo in Bassa Padana…
Fino a che punto la figura di Jean Frank O’Suzuki si accavalla alla tua?
Io sono quello che a un certo punto tenta di diventare Jean Frank O’Suzuki. Noi tutti gli ruotiamo intorno e cerchiamo di raggiungerlo nella sua fuga. Ogni canzone è un capitolo di fuga dopo il meltdown on air e le sue due presunte morti. Una leggenda urbana dice che si trova ad Akapulco in Messico, un’altra a Reno, Nevada…ma nessuno sa se ciò sia vero. Noi ci poniamo come i The Roots del Tonight Show di Jimmy Fallon, o Paul Shaffer and the World’s Most Dangerous Band per Letterman, per tenere in vita la memoria del nostro vecchio anchor man.
Mi sembra che diate molta importanza al live come performance a tutto tondo. Avete suonato sia in club che sonorizzato dal vivo dei film come “Nirvana” di Salvatores.
Il disco è quasi come se fosse il simulacro del progetto. Il live è la vera essenza del progetto, anzi abbiamo sviluppato diverse tipologie. Per noi è fondamentale suonare in ambiti legati all’arte come Matta, per esempio [realtà curatoriale milanese].
Nonostante ciò il disco è un progetto ambizioso. Com'è stato lavorare alle Officine Meccaniche? E che interazione c’è stata con una figura storica della discografia italiana come Mauro Pagani?
L’unica cosa che gli abbiamo sentito dire durante le session è stata “È un’idea e un suono molto carnale”. Poi non si è espresso oltre [ride]. A un certo punto ha iniziato a raccontare di quando incontrò Tom Waits nel suo appartamento newyorkese.
È stato Nicolò Fornabaio, che ha prodotto l’Album, a introdurre nello studio di Mauro Pagani, uno dei migliori studi d’Italia.
L’idea di farlo nella sala da orchestra con mixer da settantadue canali nasce proprio dal voler inseguire il grandeur decadente di questa band che si ritrova a distanza di dieci anni.
Come si espleta invece il vostro legame con Sempione, oltre la galleria?
Il legame essenziale con la zona nasce nel dopo pandemia, quando tornato da tre mesi in Toscana dove ho fatto l’eremita, ci incontravamo in zona con Dorian e Giacomo, che sono del quartiere. Le prime demo sono state fatte proprio a casa di Dorian.
Ci sono altri luoghi Jeanfrankisti che ti piace frequentare al momento?
C’è un bar anonimo dalle luci orrende in Corso Magenta, con un pubblico fatto di ex giornalisti sportivi Mediaset, vecchi cialtroni, avvocati e notai. Il proprietario e barman lo abbiamo ribattezzato “Ivan il Possibile”. Tutto ciò che servono è una qualità di prosecco. Con Lorenzo [Fornabaio, chitarre, ndr] ci capita di andare nel retro per ascoltare le canzoni di Nanni Svampa. Penso sia l’ultimo posto rimasto a Milano dove ascoltarle.
Citerei anche un paio di night malfamati dove io e Monterosa andiamo a goderci alcune delle migliori live performance di artisti del maghreb. Due di loro li abbiamo invitati anche sul palco di Linecheck Festival.
Tu sei anche rinomato per essere un grande chef. C’è un più profondo legame tra questa passione e il progetto musicale?
La Grande Bouffe! Il tripudio del Jeanfrankismo sta proprio in questi personaggi, uomini istrionici come Gerard Depardieu o Ugo Tognazzi, che a un certo punto della loro vita, dopo i sessant’anni, si dedicano solo alla cucina. Anzi, non gliene frega più niente della perfomance, del sesso, dello status. Come è giusto che sia. La cucina diventa l’ultimo grande piacere dell’uomo. È una ricerca morbosa che segue il motto Cotenna Arte Emozioni che incarna il tramonto di Jean Frank.
Enunciaci una ricetta-manifesto del Jeanfrankismo.
I paccheri al telefono sono un mio grande classico. Un ingrediente essenziale di tutte le ricette jeanfrankiste, poi, è la crema di fave, oltre alle barbabietole sfumacchiate al forno accompagnate da caprino e timo.