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Alessandro Bertante

Il suo ultimo libro, Gli ultimi ragazzi del secolo, in cinquina al Campiello

Scritto da Lucia Tozzi il 27 maggio 2016
Aggiornato il 29 dicembre 2017

Tre anni fa Alessandro Bertante pubblicava il suo quarto romanzo, Estate Crudele, dove si raccontava l’universo epico di una specie di samurai metropolitano, Alessio Slaviero, avvolto nel corpo e nel ruolo di uno spacciatore costretto a vivere a nord di Loreto, nelle fetide e bollenti strade tra Viale Monza e via Padova. Invece il protagonista de Gli ultimi ragazzi del secolo si chiama Alessandro Bertante e quella che racconta è, senza trappole o possibilità di equivoco, la vita dell’autore fino alla fine del Novecento. Sono tre decenni a capitoli alternati, uno su Milano e uno su Sarajevo: a Milano la bildung di un ragazzino, felice nell’atmosfera moderatamente fricchettona di una famiglia comunista e poi sempre incazzato negli anni Ottanta, funestati dal “riflusso” e da Drive in. A Sarajevo invece un brevissimo viaggio estivo alla fine della guerra, nel 1996, in una situazione ancora opaca e pericolosa.
Forse nessuno ha mai descritto con una chiarezza simile la cupezza degli anni ’80, quel decennio che la foga vintage sta tentando in tutti i modi di riportare in vita con narrazioni zuccherose. E di sicuro la Milano da bere, osservata dall’esterno della Circonvallazione come in questo romanzo, non è mai sembrata così sinistra e opprimente, con la sua coazione isterica al riso e il mantra nostalgico dei gloriosi anni rivoluzionari inflitto ai giovani da quegli stessi ex sessantottini che ne avevano affossato ogni impulso vitale. Per fortuna la vita era altrove, e assumeva l’aspetto No Future del punk e postpunk. Si trovava nelle strade avventurose delle periferie, nei vestiti neri, nella letteratura e nella musica. E nelle donne.

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Zero: Come mai il personaggio che dice io si chiama Alessandro Bertante?
Alessandro Bertante:
Perché è un romanzo autobiografico.

E quindi, deduco, non lo consideri autofiction?
Autofiction è un termine recente, mentre il romanzo autobiografico è sempre esistito. Io faccio un’operazione differente da quelli che definiscono le proprie opere autofiction. C’è una percentuale di finzione alta che però non deve riguardare il lettore. Io dico che è un romanzo autobiografico, poi se sia vero o no quello che racconto è un altro discorso.
La frase di Henri Miller in epigrafe, «Tutto ciò che non è in mezzo alla strada è falso, derivato, vale a dire letteratura» è la dichiarazione poetica del romanzo. La letteratura, e soprattutto quella autobiografica, è il luogo per eccellenza dell’ambiguità tra realtà e finzione. Non dico che respingo il termine autofiction, ma mi interessa pochissimo. Con tutto che anche romanzi bellissimi sono stati catalogati nel genere, come Prova di nudo o Troppi Paradisi di Walter Siti.

Alessandro Bertante
Alessandro Bertante nell’estate del 1992

Se è per questo quasi tutti romanzi italiani contemporanei, anche di fiction pura, hanno personaggi bellamente modellati sugli autori o contengono elementi riconoscibili della vita reale degli autori. Penso a Tommaso Pincio, con la sua Piazza Vittorio in Cinacittà, o i critici veri in Panorama.
Tutti gli autori non fanno altro che copiare dalle proprie esperienze. Io lo facevo anche prima, per esempio con Alessio Slaviero (protagonista de La Magnifica Orda e poi di Estate crudele, ndr), disegnato sulla mia figura.

QT8
QT8

Però questa volta ci sono i tuoi parenti e soprattutto c’è la tua Milano. È molto bella la passeggiata di notte di ritorno dal vecchio Leoncavallo a Lotto, speculare a quella diurna a Sarajevo verso i quartieri serbi.
Io stavo a Lotto, un quartiere piccolo borghese confinante però con una periferia aggressiva. Lì si viveva una Milano molto lontana dalla Milano da bere, che è l’ultima grande narrazione milanese prima dell’Expo. La nostra era la Milano dell’eroina. I tossicodipendenti erano una presenza esteticamente impositiva, erano dappertutto, i tuoi amici, i tuoi vicini di casa. Soprattutto nei primissimi anni ‘80 Milano era cupa, era una città in trasformazione, si stava imponendo il terziario avanzato, si smantellavano le fabbriche, si imponeva una potentissima forma di comunicazione, la pubblicità, nascevano le tv commerciali, e noi adolescenti eravamo inermi di fronte a questi cambiamenti. Subimmo come un fiume in piena questa rivoluzione di costumi, molto più profonda e di lungo corso rispetto a quella del decennio precedente. La narrazione degli anni ‘70 non finisce mai perché non finisce mai la generazione dei sessantottini, ma in realtà chiude una stagione di lotte, quella degli anni ‘50 e ‘60, e la chiude in modo rovinoso e piuttosto squallido. Mentre gli anni 80 aprono una nuova era, completamente differente.

Le ragazze Fast-Food, protagoniste dello stacchetto nella trasmissione Drive In, manifesto e icona degli anni '80
Le ragazze Fast-Food, protagoniste dello stacchetto nella trasmissione Drive In, manifesto e icona degli anni ’80

Il capitolo sul riflusso è un distillato del tuo pamphlet Contro il 68, ma in un registro incredibilmente comico.
Si ho cercato di dare una chiave narrativa al tema, mostrando la mia famiglia che smobilita tutti i segni esteriori degli anni ‘70 nel giro di tre mesi. Ma è andata abbastanza così, fu un cambiamento repentino. Tutti gli ex-studenti più attivi in pochissimi mesi si trasformarono in aggressivi quadri della nuova economia del terziario avanzato.

La piramide progettata da Filippo Panseca, l'architetto di corte di Craxi, in occasione del Congresso socialista del 1989 all'Ansaldo, in cui Bettino Craxi fu rieletto a maggioranza bulgara
La piramide progettata da Filippo Panseca, l’architetto di corte di Craxi, in occasione del Congresso socialista del 1989 all’Ansaldo, in cui Bettino Craxi fu rieletto a maggioranza bulgara

Ho riso molto nel punto in cui gli attribuisci una «totale assenza di pietas, maturata durante la lotta politica, utile a gestire in modo cinico il rapporti di lavoro dell’allora fiorente terziario postfordista»
Eh si, la scuola quadri dei gruppi extraparlamentari era veramente feroce

E quindi, in quel momento in cui l’imperativo categorico era l’ottimismo, voi eravate sempre incazzati. Teppisti incazzati, per la precisione. E a quel punto vi siete imbattuti nei punk e nel Virus di via Correggio?
Del Virus ho ricordi molto vividi perché era a due passi, in un quartiere però molto diverso, altoborghese, Amendola Fiera. A 11-12 anni andavamo a vedere i punk, che ci sembravano la modernità. 4-5 anni dopo aderire al movimento post punk e new wave fu per me una svolta fondamentale, che mi liberò dall’eredità degli anni 70. Finalmente potevo vivere gli anni ‘80 magari da esule, da ribelle, da incazzato come prima ma con un’identità forte. Ascoltare certa musica, vestirsi di nero ti differenziava dagli altri.

E ti ha anche fatto passare da Lotto-QT8 a nord est, al Leoncavallo.
Molti andavano al centro, alle Colonne, mentre noi scegliemmo di muoverci lungo la circonvallazione, il cerchio largo, e andare addirittura al Leoncavallo, che era dall’altra parte della città e ci appariva esotico: non assomigliava in niente ai centri sociali ariosi, accoglienti degli anni 90.

In effetti nel romanzo lo dipingi come un luogo respingente, e anche in realtà di passaggio, perché ti si apre la porta verso l’Helter Skelter, vera rivelazione.
Si, però anche il Leoncavallo in realtà era un posto incredibile, sembrava di essere in un’altra epoca: salivi la scala che ti portava in una stanza in alto con un baretto fumosissimo, senza neanche la birra alla spina, pieno di gente dell’autonomia radicale, molto sinistra, mista a balordi, mezzi criminali. Mentre l’Helter Skelter era la contemporaneità, facevano cose straordinarie, concerti bellissimi, i Borghesia, gli Henry Rollins.

I Borghesia
I Borghesia

La fascinazione per questi personaggi incontrati nelle notti al Leoncavallo ha influito sulla scelta della tesi di laurea?
No, la tesi era proprio sulle controculture, sulla rivista «Re Nudo», cioè sulla parte perdente, postsituazionista, più creativa del movimento, discendente da Mondo Beat, dai Provos.

Estate crudele, che racconta dei torridi giorni di Alessio Slaviero in mezzo a bande poco eroiche di arabi e latinoamericani, si svolge in un territorio ristrettissimo tra loreto, via Monza e via Padova, tra rovereto e Pasteur: perché hai scelto questo triangolo, questo pezzo di città?
Prima di tutto perché sono un apostata: ho ripudiato l’ovest con i suoi palazzi piastrellati, e non ci tornerò mai più, sono un ragazzaccio di Milano nord-est diciamo. Poi piazzale Loreto lo trovo un luogo interessantissimo perché in realtà non esiste, è un crocevia dove nessuno si ferma mai, importantissimo a livello simbolico per l’impiccagione di Mussolini di cui però non è rimasta traccia, non una targa. E poi apriva le strade del Nord: viale Monza, Via Leoncavallo erano molto avventurose, erano strade di Ligera, di mala.

E poi è a nord di porta Venezia, che invece mi pare il vero epicentro della tua passione milanese.
Si, ci ho abitato durante gli anni ’90, gli anni dell’università. È il mio quartiere d’elezione. È vario, è opposto a quello da cui venivo: multietnico da sempre, perché la comunità eritrea è coloniale.

Assemblea alla Statale Occupata, 1990 (con Bertante)
Assemblea alla Statale Occupata, 1990 (con Bertante)

A proposito di anni universitari, è lì che si manifesta in pieno il dramma di una generazione sprovvista della propria lotta: le lotte che potevi fare erano da banda, di quartiere, ma una volta arrivato all’occupazione del 90 c’era l’imbarazzo di sentirsi fuori posto, in una finzione.
Io avevo fatto anche l’85, se è per questo: e anche lì i nostri codici erano mutuati da un periodo che non esisteva più. Avevamo un linguaggio non più adeguato al divenire, e questo ci rendeva anche molto buffi, inadatti. Le terminologie assembleari erano grottesche. La componente della recita era più importante della sostanza.

Letteratura Underground
Letteratura Underground, foto Sara Goldschmied

Perché allora il viaggio a Sarajevo era così importante da fare da contrappunto a questa perdita di senso?
Secondo me la guerra jugoslava sancisce la fine vera degli anni 80, che non erano stati scalfiti da Tangentopoli. Finisce l’idea d’Europa, finiscono le ideologie, lo stesso nazionalismo. Come racconta molto bene Luca Rastello ne La guerra in casa, uno dei libri più importanti su quel conflitto, la dimensione etnica e il nazionalismo c’entravano poco. Secondo me la guerra è stata un grosso sacco, controllato da bande criminali. Non c’erano scontri militari, ma stragi, hanno ammazzato gente inerme.

Che fai oltre a scrivere?
Insegno a Naba, alla scuola Belleville, e organizzo festival letterari. Ho smesso di scrivere per i giornali perché non mi pagavano.

Chi sono gli editori che ti interessano di più nello scenario milanese, dopo gli ultimi grandi movimenti?
La situazione mi pare abbastanza ferma, e anche la questione Mondazzoli secondo me cambia ben poco. Tra gli indipendenti mi piacciono i soliti: Agenzia X, NNEdizioni, mi piace molto Nottetempo, che ora in parte si orienterà su Milano, visto che il nuovo presidente è il mio amico Andrea Gessner. E poi mi piacciono Iperborea e Marcos y Marcos, che riescono a mantenere una produzione di qualità e, proprio grazie a quella, un’economia. Ma il mondo dell’editoria è ancora troppo grosso rispetto alle vendite di libri, immagino che dovranno fallire altre case editrici se il mercato vuole restare in piedi. Altrimenti resta l’hobby di qualche ricco.

Un po’ è sempre stato così…
Ma a me piacciono sempre le cose che stanno in piedi da sole. Avevo anche tentato di fare un progetto in rete che si finanziasse da solo, Bookdetector, ma non ci sono riuscito.

E che pensi del fatto che nonostante la crisi e Amazon continuano ad aprire nuove librerie, come la recentissima Verso alle Colonne di San Lorenzo?
Ma sul piano della distribuzione è diverso, in Italia si continua ad andare molto in libreria, a preferire, se c’è, un rapporto personale con il libraio.

E una manifestazione come Bookcity secondo te ha senso per Milano?
Milano è la capitale dell’industria editoriale e quindi Bookcity ha molto senso come kermesse commerciale. Non ha nessun tipo di valenza dal punto di vista culturale perché non c’è nessuna selezione.

E ai festival dell’editoria indipendente ci vai?
Si, sono andato ai Frigoriferi Milanesi, sono tentativi di saltare la distribuzione e vendere direttamente al lettore, e in quanto tali funzionano.

Ma tu dove li compri i libri?
Alla libreria Centofiori, quasi solo da loro. Mai su Amazon.

Che giornali leggi?
Non leggo niente tranne «La Lettura», più completo e più rinnovato. Per il resto mi affido alla rete

Dove vai a bere?
A La Belle Aurore, al Rosso e bianco, e vado a trovare il mio amico Stefano al Goganga. Ah, e poi amo la pasticceria della signora Viviana, che consiglio a tutti.

E mangiare?
Tutti i locali di Porta Venezia, dalle parti di via Maiocchi, via Stoppani

Perché ti piace il video di M¥SS KETA?
Perché canta l’orgoglio di Porta Venezia, e perché cita il Bar Picchio di Via Melzo, un bar a cui sono molto affezionato, tappa obbligata quando collaboravo con il Saggiatore