Mario Di Martino, (meglio conosciuto come Marylou), made in Napoli il 15 ottobre 1985, è vice presidente del Mit, Movimento d’Identità Trans, associazione ONLUS attiva a Bologna da circa 20 anni, che offre servizi di tutela per i diritti delle persone trans di tutta Italia. Il MIT è un consultorio, uno sportello legale e un centro di documentazione, interviene nella riduzione del danno sulla prostituzione, fa accoglienza per emergenza abitativa, garantisce una casa protetta per vittime di sfruttamento, svolge assistenza in carcere. Mario è anche direttrice artistica del Festival Internazionale di Cinema Trans Divergenti, è una barista e dj pigra. La sua ultima impresa cittadina si chiama TRANSIA, un nuovo favoloso party di finanziamento per le attività del Mit, che ha debuttato il gennaio scorso al Freakout e riaccenderà la mirror ball per il bis, l’11 Marzo.
Se fosse una polaroid, il tuo primo impatto con Bologna cosa mostrerebbe?
Wow. Prima di tutto sarebbe una polaroid che non ha la cornice bianca. Se ne possono comprare di tantissime edizioni limitate splendide, direi una di quelle con effetto legno o quelle che a random escono con colori diversi. Sarebbe un misto di liberazione, novità, laboratorio. Un’immagine che rappresenti la mia indipendenza, quindi sarebbe un autoritratto con una strada dietro, magari via Rizzoli, le Due Torri, intorno al tramonto, quando Bologna sbatte questo rosa su tutti i muri.
Bologna è stata amore a prima vista o un lungo flirt ancora non consumato?
Me lo sono chiesto spesso. In realtà non sono arrivato a Bologna perché la conoscessi già, ci sono finito perché durante i miei anni di liceo a Napoli mi arrivavano delle suggestioni, delle immagini potenti: immagini come quelle del Dams, della scena alternativa, delle sottoculture, dei centri sociali, della musica e dell’arte. Bologna era cool, era semplicemente cool. Per me Bologna era Londra e mi sembrava l’unico posto in cui potessi andare. Ma non è stato amore a prima vista per cui è un flirt ancora in corso.
Quando e dove hai pensato: “Sì, è questa la città in cui devo stare”?
Subito, immediatamente. La prima volta che ci sono venuto accompagnato dai miei genitori, nel 2003, mi ricordo che camminando per le strade pensavo: “Oh mio dio è fichissimo stare qui. Sì, è qui che devo stare”. Ero perfettamente a mio agio. Mi sentivo a casa. Anche se non c’è il mare. La prima strada che attraversai fu via Zamboni, all’epoca era un subbuglio di ravers, goani, punkabbestia, un’esplosione pop del look e degli immaginari sottoculturali. Era bellissimo, erano tutti quanti strani.
Un incontro fondamentale per la tua formazione?
È successo al Tpo di viale Lenin, una sera in cui c’era il party “Enrico”. Quella sera incontrai per la prima volta una persona che poi sarebbe diventata una delle mie mentori principali e una delle persone con cui ho collaborato di più in questa città, ovvero Elena Lolli, di Betty & Books e del collettivo Sexyshock.
Cosa ti manca di quel periodo?
All’epoca tutto mi sembrava ancora in divenire. Anche se questo sentimento non è sparito, anzi lo recupero e credo di dimostrarlo ogni giorno, continuando a mantenere una forte curiosità verso questa città e verso quello che potrebbe avvenire. Al tempo stesso ho sviluppato un’idea per cui aspettare che qualcuno mi dia qualcosa non è sempre la scelta migliore e quindi, forse, piuttosto che fare il gravitante ho preferito iniziare a pensarmi come un soggetto che qualcosa può darla, crearla. Non da solo. Mai da solo.
Il Mit e Mario, potrebbe essere una serie della HBO, Netflix o della BBC?
Netflix ovviamente! Perché potremmo inserire dentro tanti elementi e uno fra tutti è l’ironia e autoironia, che è poi l’elemento delle mie serie tv preferite e che è fondamentale per sopravvivere al Mit. Sarebbe una dramedy, con delle puntate che non finiscono sicuramente come Black Mirror!
Come sono stati in tuo inizi al Mit?
Mi accompagnò al Mit Valerie Taccarelli, una delle pioniere del movimento trans e prima ancora del movimento gay e frocio italiano. Chiesi di poter fare il tirocinio curriculare mentre ero all’università al Mit, preferii dare il mio tempo e le mie energie lì piuttosto che ad un ente, negozio o struttura privata. E iniziai immediatamente a lavorare su Divergenti, conobbi Porpora Marcasciano e Luki Massa, due altre figure fondamentali della mia crescita, della mia formazione e della mia vita. E fu stupendo soprattutto per un particolare: parlavano tutte napoletano! La maggior parte di loro sono napoletane e chi non lo è ha comunque imparato il napoletano. La sede che avevamo anni fa, prima di cambiare, era un basso con un unico grande ambiente dove utenti e segreteria erano insieme e c’era solo un ufficio privato, di conseguenza avevamo bisogno di utilizzare un linguaggio criptato che non fosse sempre comprensibile anche agli utenti e così il napoletano è diventato il nostro linguaggio criptato per parlare e comunicare fra di noi.
E poi Divergenti (Festival internazionale di cinema trans primo e unico festival cinematografico in Italia dedicato specificamente al tema del transessualismo/ transgenderismo e identità di genere), di cui sei direttrice artistica. Com’è cambiato il festival da quando hai iniziato come collaboratore ad oggi? Quali sono i progetti per il futuro?
Sono direttrice artistica del festival da un paio d’anni, precedentemente c’era stata una grandissima direttrice artistica che non solo era direttrice artistica di Divergenti ma anche del festival del cinema lesbico, Some Prefer Cake e lei era Luki Massa. I cambiamenti al momento si sono notati nella crescita del festival in numeri e in qualità. Va aggiunto anche che i tempi, per fortuna modificandosi, hanno creato un’attenzione particolare nei riguardi di questo tema e anche una capacità di elaborazione che si inizia a discostare moltissimo dalla costruzione stereotipica che c’è stata negli ultimi 30 anni dell’esperienza trans. Per cui è diventato molto più facile trovare dei prodotti di buona qualità che non abbiano una narrazione estremamente vittimizzante delle persone trans. Progetti futuri ce ne sono tanti. Innanzitutto rilanciare la prossima edizione di Divergenti a novembre, che è diventato il mese della Trans Awareness, mese in cui cade il Tdor, Transgender Day Of Remembrance, giorno cui in tutto il mondo viene ricordato l’odio transfobico e le vittime dell’odio transfobico. Abbiamo ripreso quest’anno con delle piccole rassegne che sono uscite dalle mura di Bologna, la prima è stata a Trieste all’interno del Trieste Film Festival.
L’anno scorso Bologna ha ospitato per la prima volta il TGEU, Sesto Consiglio Europeo Transgender. Che impatto ha avuto sulla città?
Il TGEU ha portato a Bologna più di 300 delegazioni trans da tutta Europa e mondo: è stato un momento fichissimo in questa città, di cui sono assolutamente fiera di aver fatto parte, nella costruzione e creazione di questo evento. L’impatto è stato stupendo, è stata anche la prima volta, dichiaratami dalle persone che ci hanno lavorato dalla sua prima edizione, in cui non sono avvenuti attacchi, violenze o aggressioni alle persone trans: immaginate un bel gruppone di persone che non hanno paura di esporre la propria favolosità alla luce del sole e che si muovono insieme, si spostano e che occupano spazi nel pieno centro di Bologna tra Palazzo D’Accursio e Palazzo Re Enzo; più di 40 workshop, tavole rotonde e laboratori. Il TGEU ha portato qui l’Europa. L’Europa degli attivisti e delle attiviste trans di tutto il mondo non può che arricchire anche noi, spostando completamente l’asta fuori dalle nostre piccole sedi, facendoci sentire parte di un grande network che continua a crescere e a vibrare. Organizzare un evento di questo tipo non è che la dimostrazione di questa ricchezza che anche le stesse istituzioni di questa città hanno riconosciuto. Un mondo favoloso in cui corpi sempre più vari e diversi si incontrano e hanno la capacità di confrontarsi, di conoscersi e riconoscersi e soprattutto di aiutarsi.
In una città dalla socialità esasperata come Bologna, in cui se non partecipi non esisti, come si fa a creare ancora nuovi immaginari in modo indipendente?
Semplicemente ignorando tutto questo! Lo ignoriamo completamente e mi piace parlare al plurale perché è un pensiero che condivido con almeno trenta amiche! Non tutti gli spazi sono adatti a noi, alle nostre persone, alla nostra vita. Non abbiamo piacere di stare in posti in cui c’è un’aria particolarmente aggressiva, dove è facile trovarsi in momenti di disagio, magari perché ci si sente troppo notate o addirittura molestate, non ci piace tutta la musica che viene proposta e soprattutto non abbiamo voglia di dover stare per forza con tutti gli altri. Di conseguenza, la necessità di costruire spazi, immaginari, situazioni e realtà nuove è dettato dal fatto che ogni tanto abbiamo voglia di divertirci e ci piace farlo con il nostro stile.
TRANSIA è un party ma è anche un’affermazione politica. Com’è nata l’idea?
Partiamo dal titolo: si chiama Transia perché all’interno del Mit è facile soffrirne! La Transia non è altro che un attacco di ansia che comunemente tutte quante noi possiamo avere, solo che al Mit ha delle tonalità diverse e avevamo bisogno di aggiungere quel tocco di colore che forse la mera parola ansia non conteneva. L’idea di organizzare un evento di questo tipo c’era da anni, nel momento in cui ho deciso finalmente di realizzarla è stato perché da una parte avevamo la necessità di costruire un party di autofinanziamento per le attività del Mit e dall’altra mi sono reso conto che mancava ormai in città, soprattutto in seguito alla muratura di Atlantide, uno spazio realmente intersezionale dove ci si potesse vivere in maniera libera e che non creasse disagi di varia natura dati dalla consueta gestione dei club. Il Freakout è l’unico spazio che io riconosco in questa città come realmente underground e valido. E poi è splendido: è sotto un ponte, è gestito da questi dolcissimi animaletti vestiti di nero. Ho pensato che fosse il luogo perfetto per Transia e loro hanno accolto la mia idea immediatamente e con entusiasmo.
Da chi e di cosa è fatta TRANSIA, qual è la sua identità?
Transia ha un’identità forte e chiara ed è un’identità dove persone trans, FtM, MtF, travestite, splendide drag queen, persone non-binary e varie soggettività si incontrano e si divertono ascoltando della gran bella musica. Per la prima data abbiamo avuto delle nuove leve del clubbing, mi piaceva l’idea di coinvolgere persone che non avessero mai avuto una console e un palco e un dancefloor da far ballare, che hanno dimostrato assolutamente la loro qualità. Altre leve che sono state per me sempre punte d’ispirazione come dj Trinity, resident del Bronson e Hana Bi di Ravenna. Per la prossima data che si terrà sempre al Freakout, sabato 11 marzo, vi posso dire che le dj saranno Mafalda DJ, Michele Giuliani e le Marylourdes. L’atmosfera di Transia è unica e cambierà sempre perché non abbiamo interesse nel doverla fossilizzare o sacralizzare. Ci piace l’idea che possa continuare a modificarsi, gli stili di musica saranno sempre tanti e non assicureremo che tutti quanti saranno ben accetti. È una macho free zone, ci teniamo molto a costruire i nostri spazi di sicurezza. Senza dubbio chi vale la pena che debba conoscere questo party lo conoscerà e lo amerà.
I luoghi preferiti dove mangiare/bere/gossippare con le amiche?
Ovviamente il primo è il Bar Maurizio, dove lavoro e che frequento da quando sono arrivato in città, il luogo dove bevo, mangio e gossippo tantissimo. Vado a mangiare molto poco fuori, quando lo faccio è a pranzo ed essendo in zona Mit vado da è Cucina Leopardi di Cesare Marretti. Se devo pensare ad una serata dove mi sento a casa è al Locomotiv, luogo per me familiare dove ho iniziato tante collaborazioni e condiviso molte cose, uno dei pochissimi club in città che considero valido.