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Sebastiano Morgavi

Ogni pomeriggio, mentre gioca la serie A, c’è chi imposta dei passi di danza per far ballare i passanti incuriositi: la storia di un musicista di Sempione, tra viaggi in Africa e la scena musicale a Milano

quartiere Sempione

Scritto da Paolo Cerruto il 30 maggio 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

«I primi messaggi che il feto riceve sono di ordine vibrazionale; il rumore del liquido amniotico, il battito cardiaco, i borborigmi intestinali della madre vengono percepiti dal feto non attraverso il sistema uditivo, ancora incompleto, ma attraverso la percezione sinestesica vibrazionale, cioè attraverso il movimento. Il suono è vibrazione, cioè movimento di onde sonore che si propagano nell’aria, nel liquido, attraverso corpi solidi. La musica, soprattutto quella ricca di percussioni, attrae da sempre l’uomo perché incarna l’inconscio tentativo di ritornare dal luogo originario, in quell’insieme di stupende esperienze della vita prenatale, di un tempo passato, lontano ed assente.»

La bellezza del ritrovo del parco Sempione risiede nella spontaneità e insieme nella serietà di chi la imbastisce la festa. Ogni santa domenica dell’anno c’è chi tiene le fila e lancia i ritmi, chi porta gli immancabili e fondamentali tamburi doun doun, che sorreggono i vari ritmi: ogni pomeriggio, mentre gioca la serie A, c’è chi imposta dei passi di danza per far ballare i passanti incuriositi, che se vogliono possono anche suonare uno strumento.

«La musica tradizionalmente viene tramandata oralmente da padre in figlio, e i musicisti fanno parte di una casta chiamata “griot”, molto rispettati perché detengono e tramandano la memoria popolare.»

La serietà è quella inflessibile che impone a tutti di seguire il binario del ritmo scelto; chi alza la cresta con dei soli o accompagnamenti fuori posto viene gentilmente redarguito. Il livello è altalenante, ma spesso medio-alto; certi giorni suonano grandi musicisti africani di passaggio, altre volte il magnifico teatrino di Arman è preda di compagini più improvvisate, ma sempre immancabilmente legate dall’amore per questo suono primigenio.

Ultimamente c’è una presenza fissa che proviene direttamente dall’Olimpo della nightlife milanese: Becksman, l’interprete originale di un ventennale blues urbano e collettivo, partorito da joint e cerveza. L’istrionico venditore di birre, dopo l’inarrestabile declino del suo parterre naturale, le Colonne di San Lorenzo, si è trasferito al parco Sempione, dove interagisce con i percussionisti battendo le mani o cantando strofe in arabo, quando non balla con grande eleganza (ebbene sì, è tunisino e non centroamericano come suggeriva il sombrero che sfoggiava in Ticinese). Nella sua borsa frigo, intanto, le birre restano fresche e intatte come la sua classe.

 

Ciao Seba, come ti sei avvicinato alla musica africana? Con chi hai studiato?

Mi sono avvicinato a questo tipo di musica al parco Sempione, dove amavamo vederci per studiare e sperimentare. Successivamente ho cominciato a seguire le lezioni di Bruno Genero a Torino, uno dei primi grandi maestri bianchi recatosi in Africa quarant’anni fa. Lui mi ha spalancato le porte di questa meravigliosa e ricchissima cultura permettendomi di approfondire il linguaggio del djembe e dei doun doun. Grazie a lui sono iniziati i miei viaggi sulle tracce del suono afro (un decennio di erranza tra Mali, Guinea, Senegal, fino a Cuba) per studiare il mondo delle percussioni, incontrando maestri come Coungbanan Conde, Bolokadan Conde, Boka Canara e Ibrahim Ba, mentre in parallelo cominciavo a studiare la kora con Ousman Kouyate e tanti altri. Alle volte andavamo in Africa con tutto il gruppo di percussionisti e ballerine di allora e tornavamo in Italia con un nuovo repertorio da portare in scena.

Come viene vissuta la musica sotto il Sahara?

In Africa la musica accompagna la vita quotidiana e ogni evento importante: la vita è indissolubilmente legata al fluire della musica. Tradizionalmente per il battesimo si suona un determinato ritmo, per il raccolto nei campi un altro, per la circoncisione altri ancora e così anche per i funerali, il richiamo degli spiriti, per il passaggio all’età adulta, riti propiziatori… potrei continuare ancora, ma il fatto è che i musicisti assumono un’importanza incredibilmente maggiore che da noi, e inoltre la cultura musicale media individuale è molto più alta che qui. La musica tradizionalmente viene tramandata oralmente da padre in figlio, e i musicisti fanno parte di una casta chiamata “griot”, molto rispettati perché detengono e tramandano la memoria popolare.

Parlami un po’ dei tuoi viaggi in questi paesi.

Viaggiando mi sono capitate esperienze di ogni genere: alcune divertenti, altre tristi, altre ancora pericolose ma soprattutto momenti e incontri intensi e indimenticabili.
La prima volta che sono arrivato in Guinea era durante il periodo invernale e ricordo che guardando fuori dal finestrino dell’aereo al momento dell’atterraggio, sono rimasto colpito dalla terra intensamente rossa che caratterizza queste zone e dalla folta vegetazione equatoriale che inghiottiva le case. Appena sceso mi sono sentito travolto da un vento terribilmente caldo; pensavo fossero i motori dell’aereo, ma allontanandomi dal velivolo ho compreso che non era altro che la temperatura di quella latitudine. Camminando verso l’uscita sono arrivato a fatica al ritiro bagagli, e mi sono trovato immerso in un vortice di gente che urlava e spingeva, mentre da una vetrata fuori dall’aeroporto spiccava un muro di persone che batteva le mani sui vetri e gridava a sua volta. Devo dire che sono rimasto abbastanza spaventato da questa scena, e ricordo che un addetto del personale dopo aver visto la mia faccia mi ha detto: «Benvenuto in Africa!».
L’impatto con questo nuovo mondo è stato fortissimo: tutto era nuovo e inaspettato, mi trovavo di colpo catapultato in una realtà completamente diversa da quello a cui ero abituato. Il vocìo della gente era assordante, colori e odori mi colpivano e annebbiavano, la gente mi parlava ma non capivo nulla, ero di colpo lo straniero in un paese lontano e sconosciuto. Ci ho messo un po’ ad ambientarmi e a prendere il ritmo di quei posti; tutto va a rilento e bisogna assolutamente lasciar andare lo stress e la fretta che ci caratterizza perché tutto succede “se dio lo vuole” o meglio “inshallah”, come usano dire le persone da queste parti.
Ed è proprio così! Ricordo che una volta, sul treno da Dakar in Senegal per andare in Mali, ho corso come un forsennato per riuscire a prenderlo e una volta seduto, in affanno, ho sistemato le valigie. Dopo qualche minuto di attesa mi sono rivolto ai passeggeri del mio scompartimento chiedendo come mai non partisse. Mi hanno risposto di non preoccuparmi e che da lì a breve sarebbe partito. Ho atteso così per un’altra mezz’ora, un’ora, un’ora e mezza ma nulla. Ho chiesto spiegazioni al capotreno ma mi ha risposto la stessa cosa: «Non si preoccupi, a breve il treno partirà!». Sconfortato, ho preso allora la decisione di cambiare mezzo di trasporto; ho preso le valigie e sono sceso recandomi alla partenza dei pullmini. Sono salito sul primo disponibile e anche lì, nonostante la promessa che sarebbe partito dopo qualche minuto, ho dovuto aspettare per un’altra ora e mezza… In quel momento ho capito che i mezzi non partono prima che l’ultimo centimetro del veicolo non sia riempito di persone e/o di bagagli. Ed è così anche quando si va a mangiare: ci si siede e si attende pazientemente che il piatto sia pronto, senza fretta! O agli appuntamenti: non si può pretendere che tutti arrivino in orario, e può slittare di una, due o tre ore, “inshallah” poi si riuscirà a combinare…
Questa è anche la bellezza dell’Africa dove tutto può accadere, dove non c’è mai nulla di sicuro, dove tutto procede con i suoi ritmi ma quando succede è affascinante e incantevole.
Quando andavo a suonare nei dundunba per esempio, ci si dava appuntamento a un orario ma puntualmente tutto slittava di due, tre ore; i dundunba sono feste che si organizzano per festeggiare tutti insieme e per i più disparati motivi (per la partenza o l’arrivo di qualcuno, per avvenimenti importanti, tradizionalmente veniva suonato per il passaggio dei ragazzi all’età adulta e così via…). Arrivavo con i miei amici musicisti e ballerini e ci si sedeva all’ombra, in attesa che tutto partisse. Poi pian piano arrivavano i primi strumenti, le sedie per sedersi, poi l’ impianto, le casse, il mixer e tutto prendeva vita; a un certo punto dal nulla la musica cominciava sprigionando un’energia e una potenza indescrivibile, le mani dei percussionisti si “infuocavano” e cominciavano a suonare a velocità pazzesche, i ballerini danzavano sulle note dei tamburi volteggiando e piroettando con gesti acrobatici e salti inimmaginabili. Un turbinìo di emozioni all’ennesima potenza che lascia sconvolti, una qualità ed eleganza nella musica e nella danza che solo questi posti e questa gente ti possono regalare.
Ti potrei raccontare migliaia di questi aneddoti ma forse bisognerebbe avere più tempo e spazio…

Com'era la scena a Milano a inizio anno duemila? Com'è cambiata?

La scena afro ai tempi era molto ricca. C’era un gran fermento, tutti volevano suonare il djembe, e la musica africana era quasi di moda. In questo periodo di boom avevamo tutti centinaia di allievi tra percussioni e danza. Tutti noi del giro andavamo spesso in Africa per contestualizzare i nostri studi, mentre ora noto che questo interesse non c’è quasi più. È come se si fosse perso l’interesse allo studio approfondito e alla conoscenza che deriva dal vivere questa cultura nei suoi luoghi, entrando nel vivo dei rituali e della vita quotidiana che come ti dicevo sono strettamente correlati alla musica. Piano piano quella che era una moda è scemata, e l’interesse verso questo mondo si è affievolito. Siamo rimasti una manciata di maestri, ma che comunque muovono decine di appassionati a cui possiamo trasmettere la nostra passione. Al contrario sto notando che c’è sempre più interesse per la kora, strumento che sta prendendo sempre più piede nel panorama musicale in vari generi.

Che ne pensi del ritrovo al parco Sempione?

Il parco Sempione è una bella realtà anche perché autogestita e quasi anarchica; è una bella situazione perché libera, ed è giusto che rimanga così. Chi va lì prende lo strumento e suona, alle volte diventa un po’ un marasma perché ogni tanto manca chi conduce; ogni tanto passano grandi musicisti e la situazione è tutt’altro che confusionaria… Lunga vita a questo ritrovo!

Per salutarci raccontaci i tuoi progetti attuali e futuri…

Attualmente ne ho molti, mi divido tra kora, djembe, congas, set in solo… Tipo i Dibà, duo di kore, l’orchestra Def Kaki Chumpy, formata da diciotto elementi; o ancora la banda Bomoy, con un chitarrista congolese, e i Garuda, band fusion tra afro, jazz e prog. Mi interessa portare in scena tutto quello che ho studiato ma mi piace anche comunicarlo con un mio linguaggio, sfruttando il timbro di questi strumenti così lontani ma così vicini provando a creare uno stile personale negli arrangiamenti. Nel mio percorso ho avuto la fortuna di conoscere Dario Pontiggia, grande liutaio che mi ha permesso di realizzare dei miei grandi sogni come la kora cromatica e la kora elettrica così da avere una gamma di suoni più ampia e in grado di farmi esprimere con maggior creatività.