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Perché, oggi, ha ancora più senso andare a un concerto dei Public Enemy

Inauguriamo I mattoni di Zero: arrivare davanti a Chuck D, il 16 luglio al Magnolia, coi fondamentali solidi.

Scritto da Costanzo Colombo Reiser il 7 luglio 2015
Aggiornato il 8 settembre 2015

Foto di David Corio/Redferns

Partiamo da un presupposto: discettare dell’importanza dei Public Enemy, di album come Fear of a Black Planet e Apocalypse ‘91: The Enemy Strikes Black e, a maggior ragione, della pietra miliare It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back, è inutile. O, per essere più precisi, è insufficiente se ci si limita esclusivamente all’aspetto musicale. Che è sì importante, beninteso, ma è solo una metà del racconto; l’altra – il contesto, da cui poi derivano i contenuti – è quello che oggi m’interessa, principalmente perché col trascorrere degli anni è passato in secondo piano. Sospetto infatti che, se oggigiorno facessi ascoltare Nation of Millions al ragazzino medio, la reazione sarebbe perlopiù di disorientamento; qualcosa di simile al risultato che otterrei sottoponendolo a The Freewheelin’ Bob Dylan.

Il che è inevitabile: nella vulgata pubblica, la storia, intesa come qualcosa di più della memorizzazione di quattro date messe nella sequenza corretta, è considerata una vanità per cacadubbi. Ne è riprova la faciloneria media degli editoriali – e dei commenti – che hanno seguito la recente ondata di assassinii di afroamericani perpetrati dalla polizia statunitense (Trayvon Martin, Michael Brown, Eric Garner), alla quale solo da poco si comincia a prestare la debita attenzione, inquadrandola in un disegno ben più ampio dei singoli casi. Eppure, le tensioni razziali che stanno dietro a questi omicidi sono – in parte – cosa già vista. Per esempio, le assoluzioni dei poliziotti che brutalizzarono Rodney King nel ‘92 hanno molto in comune col proscioglimento della Divisa che ha piantato 6 colpi .40 nel corpo di Michael Brown; più inquietante ancora è la somiglianza tra la morte di Eric Garner e quella di Radio Raheem, uno dei personaggi di Fa’ la cosa giusta (1989): entrambi morti per strangolamento con un manganello. Quando la realtà coincide con la fantasia.

Se le cose stanno così, perché il film è considerato un feticcio vintage di un’epoca passata, anziché una lente ancora utile per comprendere gli eventi attuali? Perché – per esempio – Buggin’ Out s’infervora così tanto per l’assenza di eroi afroamericani nella hall of fame della pizzeria? Perché uno dei protagonisti bianchi della pellicola, Vito, è il riflesso a cromie invertite della rabbia di Buggin’ Out? Perché gli abitanti di Bedford-Stuyvesant distruggono Sal’s, presente nel quartiere da 25 anni e gestita da una persona che, in fondo, ha a cuore quegli stessi abitanti? E perché Spike Lee ha scelto proprio i Public Enemy come colonna sonora per il suo film? Trovare delle risposte a domande vecchie di 25 anni aiuterebbe a inquadrare meglio la situazione di allora e di oggi; dalla rilevanza sua a quella dei PE, fino alle tensioni razziali così evidenti oggigiorno. Che però hanno radici molto più profonde.

NEW YORK IS A SHITHOLE

1945. La perdurante riluttanza degli ex stati confederati ad abbandonare il razzismo istituzionalizzato porta a una crescita esponenziale della migrazione degli afroamericani verso le grandi città del Nord: si calcola che dal ‘45 al ‘70 cinque milioni di persone si riversano su Detroit, Chicago e New York. In quest’ultima, quartieri come Brooklyn, Queens e il Bronx vedono l’arrivo di migliaia di famiglie provenienti dall’Alabama o dalla Georgia, a cui si aggiungono poi dominicani, portoricani e latinos in generale. Gli abitanti tradizionali di questi quartieri – colletti blu irlandesi, italiani ed ebrei – non vedono di buon occhio i nuovi venuti e, complice una situazione economica favorevole, migrano a loro volta verso la periferia. Le percentuali demografiche di zone come Crown Heights, Corona e Harlem subiscono così un’inversione di percentuali: in poco più di vent’anni, il numero di residenti bianchi passa dall’ordine degli “anta” a quello delle singole cifre, accompagnato da un abbassamento direttamente proporzionale della media dei redditi e, di rimando, dal valore degli immobili e delle tasse raccolte.

Una povertà diffusa, questa, che cresce in concomitanza con le crisi economiche che si susseguono negli anni ‘70: un fenomeno fisiologico e forse inevitabile, che tuttavia va a braccetto con altri ben più difficili da giustificare, vista l’idiozia menefreghista che li caratterizza.

L’esempio perfetto è la costruzione della Cross-Bronx Expressway, una mastodontica arteria autostradale che, ideata e progettata senza alcun riguardo per i princìpi dell’urbanistica moderna, spacca in due l’omonimo quartiere e fa crollare al suolo il valore degli immobili della zona. Per farsi un’idea dell’ecatombe economica e sociale che ne consegue, basti pensare che i proprietari dei caseggiati, anziché conservarli, preferiscono darli alle fiamme (assoldando la microdelinquenza locale), così da intascare le coperture assicurative che – per quanto basse – sono più di quanto possono sperare di ottenere dal mercato. Un fenomeno che è stato ripreso in diretta dalle telecamere della BBC in The Bronx Is Burning (1972), ma le cui ripercussioni sociali diventano chiare solo in 80 Blocks From Tiffany’s (1979), documentario sulle gang di quartiere ispirato a un articolo di Jon Bradshaw pubblicato due anni prima sulle pagine di Esquire. Le immagini parlano da sole, e Reagan paragonerà quei panorami alla Dresda del dopoguerra.

Un paragone suggestivo, peccato che lo stesso Reagan non farà mai nulla per rimediare a questa situazione e, anzi, si prodigherà – consapevolmente o meno, è irrilevante – per aggravarla. Fin dai primissimi anni ‘80 i suoi governi riducono in macerie ciò che restava del New Deal, sostituendo servizi sociali e sussidi governativi con la deregolazione dei mercati e con le strampalate teorie della trickle-down-economics. Prevedibile: già nel ‘57 sosteneva che “Ogni servizio del governo, ogni offerta del governo (…) si paga con la perdita della libertà“. Difatti, dopo pochi anni diventa chiaro chi sono gli agnelli sacrificati sull’altare della “libertà” e, siccome piove sempre sul bagnato, proprio in quel periodo scoppia un’altra emergenza: l’epidemia del crack.

GHETTO 80: CRACK, NATION OF ISLAM E HIP HOP

La droga, che assurge agli onori delle cronache a partire dalla fine dell’83, sconvolge gli equilibri sociali delle classi meno abbienti, in particolar modo nei centri urbani. A causa della forte dipendenza che procura, e del basso prezzo a cui è venduta, intere famiglie vengono disciolte nel mix di bamba e bicarbonato, in migliaia perdono il posto per dedicarsi a tempo pieno alla caccia della “roccia” e, tanto per non farsi mancare nulla, le gang di strada aumentano per numero di componenti e gravità dei reati. Con in palio il monopolio dello spaccio, pugni e lame abdicano a favore di fucili a pompa e mitra. Dal South Bronx a Jamaica, passando per Brownsville, tutti i quartieri a maggioranza afroamericana e latina sono colpiti; chi ci vive o è coinvolto a vario titolo nel giro, oppure cerca di conviverci, schivando l’occasionale proiettile e sopportando lo stigma sociale attribuitogli da benpensanti e probiviri, per i quali l’equazione “nero = tossico/gangster” ha valore di verità inconfutabile. La situazione appare senza uscita, con sigle come l’NAACP o le Black Panthers in affanno o rimaste vittime del COINTELPRO, e coi pochi neri in posizioni di (relativo) potere che hanno perso i contatti coi giovani.
C’è pero un’eccezione: Louis Farrakhan e la sua Nation Of Islam.

Fondata nel 1930 a Detroit, i precetti religiosi dell’organizzazione sono troppo complessi per poter essere riassunti in questa sede; basti sapere che una delle maggiori peculiarità rispetto all’Islam tradizionale è l’attenzione riservata all’esperienza afroamericana, sia dal punto di vista storico-religioso, sia da quello politico. Collocando il Black Man al centro della propria teologia, le politiche promosse dalla NOI mirano a sovvertire l’eurocentrismo di cui sono impregnate storia, tradizioni e scienza tradizionali, così da valorizzare gli eterni esclusi e restituire loro l’orgoglio di cui 400 anni di schiavitù li hanno privati. Di conseguenza, e al netto delle critiche sull’attendibilità di molte rielaborazioni, la tracotanza e la strafottenza verso i poteri costituiti dei suoi membri spaventano l’America bianca; quando i leader e i portavoce della NOI (in primis il capo storico, Elijah Muhammad, ma anche Malcolm X) legittimano l’autodifesa proattiva o il separatismo, essi compiono un reato di lesa maestà. Non fa eccezione colui che, nel 1977, dopo una breve parentesi moderata, imprime un marchio ultraortodosso all’organizzazione: Louis Farrakhan. La sua elezione alla guida del gruppo segna un ritorno al nazionalismo nero e all’attivismo di strada: negli anni ‘80, il rifondato gruppo paramilitare dell’organizzazione, la Fruit Of Islam, è uno dei pochi bastioni che si ergono a difesa dei poveri e che combatte spaccio e tossicodipendenze. L’approccio funziona: grazie a quest’azione a tenaglia, le cui punte sono rappresentate dall’”autovalorizzazione” e dalla lotta al degrado, sempre più giovani – incuranti dell’opinione pubblica mainstream – vedono nella NOI l’unica risposta possibile alla povertà fisica e spirituale, all’epidemia del crack, al carcere, alla violenza della polizia e all’insipienza delle posizioni liberaldemocratiche.


Wild Style di vaoze

La pervasività del messaggio è inoltre rafforzata dall’altro fenomeno che caratterizza i ghetti in quegli anni: l’hip hop. Dopo aver passato l’infanzia nei block parties del South Bronx degli anni ‘70, questa cultura si diffonde a macchia d’olio nel corso di tutto il decennio successivo, travalicando i confini di New York fino a raggiungere la costa pacifica. Delle quattro discipline da cui è composta – b-boying, writing, deejaying ed emceeing – il rap è quella di maggior successo, nonché quella che diventa nota al mondo come la “CNN del ghetto”; un megafono culturale che, inevitabilmente, in molti casi fa suoi i dogmi della NOI (e di una sua variante ancora più radicale, la Nation Of 5%): i testi di Big Daddy Kane, dei Poor Righteous Teachers, degli X-Clan, o di Rakim esprimono, rielaborano e forgiano una visione afrocentrica che fa proseliti tra i giovani degli anni ‘80, separandoli per forma e contenuti dalle generazioni precedenti.

SPIKE LEE ENEMY #1

Tuttavia, la produzione di miti ha molte sfumature, e i Public Enemy ne rappresentano quella più accesa. Pur supportando molte delle istanze di Farrakhan, il messaggio di Chuck D e soci va oltre la NOI e include anche il marxismo, il socialismo africano e l’afrocentrismo più scientifico. Non a caso, la copertina del loro primo disco rimanda all’estetica delle Black Panthers, più che a forme di misticismo, e, a differenza di un Rakim, nei loro testi vengono fatti nomi e cognomi dei “nemici”. E se Yo! Bum Rush the Show getta le basi per questo approccio, è con It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back che la formula raggiunge la perfezione. L’album prende di mira tutti i vizi dell’America conservatrice (nonché quella quella formalmente progressista) e le storture della società contemporanea; in 16 tracce sono attaccati la mitologia integrazionista, il patriottismo, il sistema carcerario, il militarismo e i media.

public-enemy-cover

Ma non è solo un lungo cahier des doléances, bensì una presa di posizione: a differenza della canzone di denuncia tradizionale, Chuck D si espone in prima persona e si fa carico delle responsabilità che un certo tipo di militanza pubblica comporta. Con conseguenze tangibili: il gruppo sarà accusato di razzismo, antisemitismo, incitamento alla violenza, ignoranza, saccenza, socialismo (sì, negli USA è un insulto) e quant’altro riescono a partorire i critici, quelli in buona fede così come quelli in cattiva. Tuttavia, questo fuoco di sbarramento non lede l’autorevolezza del gruppo e, anzi, la rafforza.

Sorte analoga tocca a un giovane cineasta di Fort Greene, Brooklyn, che, dopo due film (relativamente) leggeri, decide di girarne uno sulle tensioni razziali che caratterizzano la New York di fine decennio: il suo nome è Spike Lee e la sua opera s’intitola Fa’ la cosa giusta. Ambientata a Bedford-Stuyvesant, la pellicola è uno spaccato della cultura afroamericana del periodo, divisa tra militanza, ignavia e distacco intragenerazionale. Tutti questi elementi convivono e si scontrano con una famiglia di italoamericani, anch’essa divisa per archetipi (indifferenza, benevolenza e ostilità), che gestisce una pizzeria nel quartiere. Per tre quarti del film la tensione è palpabile e, quando finalmente scoppia, l’ecosistema sociale ne esce distrutto. Quello di Lee è un avvertimento esplicito: è lui a parlare quando Radio Raheem spiega a Mookie come l’amore alla fine trionfi su tutto, ed è sempre lui a mostrare al pubblico le conseguenze dell’odio, fomentato, più che dai diretti coinvolti, dalle istituzioni, sintetizzate da due agenti di una volante. Torna in mente il messaggio della copertina di Yo! Bum Rush the Show: “THE GOVERNMENT IS RESPONSIBLE… THE GOVERNMENT IS RESPONSIBLE… THE GOVERNMENT IS RESPONSIBLE…”.

Quando Fa’ la cosa giusta esce nelle sale è un successo, ma, al di là di critiche e complimenti, molti dichiarano il film “pericoloso” e il regista un sovversivo. David Denby, all’epoca dei fatti firma del New York Magazine, sostiene addirittura che “Il finale del film è confusionario e, se qualcuno tra il pubblico dovesse dare di matto, [Lee] ne sarebbe in parte responsabile”. Accuse deliranti, specchio di quelle mosse ai Public Enemy, che da lì a breve saranno invalidate dai fatti: a meno di due mesi dall’uscita del film nelle sale, otto italoamericani armati con mazze da baseball (e almeno un’arma da fuoco) inseguono un gruppo di giovani afroamericani, gridando loro “Tornatevene a casa, sporchi negri” e uccidendone uno con un colpo di pistola. Sono dunque questi i risultati della presunta confusionarietà della pellicola? Oppure Lee è stato un amaro profeta, ma qualcuno, anziché osservare la realtà dei fatti, ha preferito spararla grossa e cercare un untore?


WELCOME TO THE TERRORDOME

Gli anni 80 si sono chiusi senza una risposta netta a questa domanda. I due decenni che sono seguiti hanno visto enormi cambiamenti nella vita e nella cultura delle comunità afroamericane. Eppure, il messaggio di Lee e quello dei Public Enemy conservano la loro validità: negli ultimi cinque anni ha preso piede un movimento identitario bianco che, lungi dall’essere confinato sotto ai cappucci bianchi del KKK, trova molti sostenitori tra le file dei repubblicani, tanto nel Congresso quanto nelle amministrazioni locali. Dylann Roof è ancora condannato, seppur a malincuore, ma i razzisti in divisa godono dell’aperto sostegno di questo movimento, come lo dimostrano le ore dedicate all’argomento da canali come Fox News e da centinaia di radio locali modellate a uso e consumo del cosiddetto Angry White Man.

Inoltre, diversamente dal 1989, nel 2015 (in realtà da anni) non si trovano artisti mediaticamente influenti come allora che siano disposti ad alzare la propria voce. O meglio: qualcuno c’è, sia nell’underground (Immortal Technique, Pharoahe Monch, gli immarcescibili The Coup) che nel mainstream (Kendrick Lamar). Però sono nomi isolati, gocce in un oceano di gossip e spesso ostracizzati dai media, che da soli non riescono a convogliare tutto il risentimento che aleggia nell’aria, né a fornirne un quadro comprensibile. 25 anni fa la questione afroamericana era nota a tutti, oggi solo a chi decide d’interessarsene: e sarà la coincidenza di trovarci in mezzo all’estate più calda degli ultimi anni, ma sta di fatto che questo mi fa sentire triste.

Costanzo Colombo Reiser è nato a Milano nel 1981. Di professione grafico, è anche consulente editoriale per Prismo. Ha scritto per Mucchio, L’Ultimo Uomo, Rivista Studio e L’Uomo Vogue.