Una delle ragioni per cui le città sopravvivono sono le loro storie. E non si tratta soltanto di quante storie, ma ovviamente di quali e ugualmente ovviamente del loro poter essere attualizzate. Essere in grado di reinventarsi è una facoltà tutta umana, uno strumento possente e tutto sommato innato, che riorienta sentieri, cambia passi e vettori di crescita, cambia la scala degli eventi, cambia di tanto in tanto, alle volte in momenti e altre in secoli, la storia tutta. Tanto che sarebbe poco saggio non porre lo stesso accento sulle città – ritratti per eccellenza dell’umanità, nella buona e nella cattiva sorte – e sulle storie che via via si dispongono a presentarle, a dar carattere e toni o, per usare un bel termine, di quelli ricercati, viseità. Sì, perché il volto delle città è quell’immagine che dà identità, vale a dire che individua caratteri che quella città incarna, attesta e persegue. La storiella del “modello Milano” è una di queste, così come quella di “Roma città eterna”, della “Torino esoterica”, della “Bologna rossa” e via dicendo. Se vi ci soffermate un attimino, arriverete alla conclusione che ognuna di queste immagini di città è debitrice di una serie di eventi, di figure, di persone, e che, una volta sedimentata, quest’immagine trae a sé quel le succede. Altro termine ricercato: si reitera, e via via prende sempre più realtà, fino a che non verrà succeduta da qualche cos’altro. Il buon Debord con i situazionisti se n’era fatta un’idea bellina, sia di come cambiarla che di quanto fosse difficile superare quell’idea di spettacolo, di vetrina, che andava inserendosi in ogni ambito urbano e della cultura.
Da questo punto di vista, è opportuno ricordare come le immagini abbiano spesso goduto di cattiva fama, un po’ come la rappresentazione: ridotte a copie storte delle “cose vere” e mai a eventi in sé, a fenomeni belli e buoni, con le loro condizioni e le loro possibilità, vale a dire il loro buon grado di realtà, di far “cose vere”. Cattiva fama è certa, ma mai di cattiva salute godono queste immagini, data la forza con cui spesso e volentieri rimescolano le carte in tavola.
Il dunque, e l’occasione per questo piccolo incipit, è Ritratto di città: il nuovo progetto dei MASBEDO (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) a cura di Cloe Piccoli. Il duo ha preso l’occasione al balzo di fronte a una di quelle esperienze che, a Milano, hanno indubbiamente la forza di farsi „immagini di città“, di incastonarsi nelle storie fondanti di certi periodi storici: la storia, tutto sommato leggendaria, dello Studio di Fonologia RAI, i cui protagonisti e fondatori sono Luciano Berio e Bruno Maderna. Detta in breve, lo Studio di Fonologia fu un laboratorio di sperimentazione musicale sito nella storica sede della RAI di Corso Sempione (progetto, per altro di Gio Ponti), avanguardistico in merito a musica concreta ed elettronica contemporanea, se non luogo in cui a tutti gli effetti la musica elettronica, in Italia, è nata – lo potete vedere oggi riallestito, con tutti i santi oscillatori e le macchine progettate dal fisico Alfredo Lietti, al Museo degli strumenti musicali in Castello. Sono macchine, queste, sulle quali si suonarono e realizzarono composizioni storiche, come il Notturno di Maderna o il Perspectives di Berio, macchine da cui passarono e lavorarono Luigi Nono e John Cage, Salvatore Sciarrino e Luiciano Chailly, insomma: giganti, e che venne pure adoperato per la produzione di colonne sonore per le trasmissioni (qualcosina l’avevamo raccontato qui).
Torniamo: il titolo del progetto dei MASBEDO è letteralmente il reenactment dell’omonimo Ritratto di città del 1954 di Berio, Maderna e Roberto Leydi: un “documentario radiofonico” che fu il primo progetto di musica concreta ed elettronica mai realizzato a Milano e in Italia, quando ancora non esisteva lo Studio di Fonologia, che cercava di raccontare il risveglio della città alle luci dell’alba, e allora tram, voci, i piaceri notturni, persino gli Ave Maria ma sinteticamente, sintetici. Ecco allora che da un’immagine di città, da un suo ritratto, i MASBEDO riprendono le fila e riportano l’esperienza a oggi, tenendo ben presente il tributo a chi li precede. Il Ritratto di Città del 2024 è un progetto stratificatissimo, restituito principalmente in un video, ma con l’aggiunta di un’installazione immersiva, performance sonore, public program e tanto di volume dedicato. Il video è il vero motore del lavoro: coinvolge i luoghi, gli studi, le architetture e le città (in particolare la vecchia sede dello Studio di Fonologia negli studi RAI di Sempione a firma di Gio Ponti, la Torre Velasca e i Musei Civici del Castello Sforzesco), il tutto con collaborazioni e interventi di artisti, musicisti e professionisti del settore, tutti, pensiamo, con un debito o un fascino verso lo Studio di Fonologia – figure del calibro di, tra le tante, Stina Fors, Nicolàs Becker, Pino Saulo di “Battiti”, Kit Mackintosh.
Il progetto ha già fatto tappe su tappe, debuttando prima da MODAL alla School of Digital Arts (SODA), poi al Centre Pompidou, e arrivando a casa, a Milano. In Triennale con una performance video e sonora e al Museo del Novecento con una mostra, e infine con un talk da Miart, per poi ripartire per Torino e Roma e chiudere con un public program tra Triennale e Castello Sforzesco a maggio.
Ritratti, dunque, ce n’è sempre bisogno. Che non significa guardarsi allo specchio, ma piuttosto mettere assieme elementi che possano dare un’idea, un’indicazione, di un dove e un quando nella cornice di un qualcosa. Quanti ritratti si possono fare, allora, di un luogo? La risposta è scontata: tanti, tantissimi, almeno uno per ogni sguardo che vi si posa con l’intenzione di trovare una ragione che possa inquadrare il senso, in questo caso il senso di una città e della cultura del progetto che vi risiede – che vale a dire trovare un modo per trattenere, anche solo per poco, un momento fondativo di un luogo, e farne un’immagine da cui, eventualmente, è possibile ripartire, ancora e ancora e ancora.
Geschrieben von Piergiorgio Caserini