Scandito da billboard in colori zuccherini e illuminato da insegne al neon meglio di un luna park, sembra il sogno di ogni bambino. Appena varcata la soglia della mente di Elio Fiorucci – letteralmente, visto che l’ingresso è attraverso una tenda dove campeggia la sua gigantografia – la mostra Elio Fiorucci, a Triennale Milano (fino al 16 marzo 2025), ci vuole dove tutto ha avuto inizio. Cioè sui banchi di scuola dove il futuro designer, cool hunter e imprenditore milanese, esercitava la sua proverbiale curiosità con l’atteggiamento non allineato di chi un po’ se ne frega e che oggi sembra una rarità, soprattutto nella moda. Alzava gli occhi dai libri e immaginava universi possibili oltre l’immediatamente esperibile della provincia comasca, dove si reca da sfollato, e che poi diventerà la Milano post bellica degli inizi. Sogna in grande sempre Fiorucci, da alternativo vero e non di facciata – mi chiedo: ne esistono ancora di veri oggi? – alimentato da un cocktail di avventatezza e pragmatismo, che a volte lo fa vincere e a volte no. Ma pace, ci si rimbocca le maniche e si va avanti.
Curata da Judith Clark, con un allestimento dello scenografo e regista teatrale Fabio Cherstich, l’esposizione esplora le molteplicità creative di un protagonista d’avanguardia della moda italiana. Un innovatore instancabile, il cui lavoro non sarebbe stato lo stesso senza la condivisione con una tribù di creativi – un aspetto che in mostra resta forse un po’ in ombra – che giravano il mondo e gli riportavano suggestioni e oggetti che finivano nei negozi Fiorucci. Nel primo, storico concept store in Galleria Passarella, progettato dalla scultrice Amalia Del Ponte e aperto nel 1967, o in quello di via Torino, di King’s Road a Londra, fino agli spin-off americani dove lavorarono come commessi personaggi come Loredana Berté e Klaus Nomi. Con un intento biografico, la retrospettiva ripercorre la vicenda personale e pubblica di Elio Fiorucci, da Milano all’America passando per la disco music. Lo fa assemblando un megamix coloratissimo di abbigliamento, oggetti e registrazioni audio inedite, che mi solleticano l’emergere di spezzoni di memoria di quando Fiorucci era un’araldica pop.
E come tale, quel nome e il suo logo – chi non ricorda gli angioletti boccolosi ideati da Italo Lupi? – si sono moltiplicati negli anni, in una metamorfosi continua su stoffa, gomma e metallo che sembra voler fissare – ma solo per un secondo, perché sai sennò che noia? – lo spirito del tempo. Oggi che Fiorucci è più vivo che mai, complice il ritorno in prima linea sulla scena della moda milanese con la nuova proprietà di Dona Bertarelli e la direzione creativa di Francesca Murri, la mostra si accompagna al lancio di un public program: tramite un indirizzo mail ad hoc, chiunque potrà condividere con Triennale il suo ricordo di Fiorucci. Probabilmente al designer, scomparso nel 2015, l’iniziativa sarebbe piaciuta. Per tutta la vita, infatti, la sua tensione a voler captare e restituire la novità si è accompagnata a una visione democratica e senza filtri della moda, cosa che in mostra si vede benissimo. Lo spiegava bene lui stesso nel 1977, al lancio dei celebri jeans “elastici” che conquistarono i giovani, i mercati e un certo Calvin Klein, che più avanti dirà di aver visto “il primo jeans fashion” in un negozio Fiorucci. Sono i primi jeans firmati da uno stilista, eppure per Elio sono semplicemente di tutti. Come diceva: “Per me il jeans non deve essere cristallizzato in un codice. Insomma, una firma troppo di moda su un paio di jeans mi sembra che ne azzeri il significato”.
Geschrieben von Giada Cardo